domenica 7 agosto 2011

Raccolta di autorevoli opinioni sul nostro caro leader,


Barcellona. Migliaia di manifesti con questa faccia chiedono:
Possono tiraci fuori dalla crisi proprio coloro che l'hanno provocata ?
la copertina di questa settimana (9/7/2009) dell'Express: uno dei più importanti e diffusi settimanali europei. Giustizia, Media, Sesso. Quindici anni di scandali. Perché piace ancora agli italiani? Inchiesta sul Buffone d'Europa: BERLUSCONI

Numero di ottobre 2009 di NewsweekLiberarsi di Berlusconi


Mamma mia - Eccoci di nuovo.




Berlusconi- Quanto gli resta? Perché Silvio Berlusconi è inadatto a governare l'Italia
Trionfo per Berlusconi, ma non per l'Italia Festa della Repubblica del 2 giugno - Il rispetto di Berlusconi per le istituzioni e le Forze Armate

Basta. E' tempo per l'Italia di licenziare Berlusconi



Il grande ............  Grande?










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Simpatico gesto di augurio di Berlusconi verso una giovane giornalista russa (collega di Anna Politkovskaja ) che aveva rivolto una domanda sgradita al suo fraterno amico Putin


 L'uomo che ha fottuto un intero paese
The Economist - giugno 2011

Berlusconi ha pagato 500 mila euro per far tacere un pappone spacciatore di cocaina
The Times - 2 settembre 2011


novembre 2011

Febbraio 2012 - Che sia finita davvero?


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Corte d'Appello di Milano - Sentenza Fininvest / Cir

Coloro che avessero la pazienza di leggersi questa lunghissima, articolata e dettagliatamente motivata sentenza , che nessun dotto commentatore si è davvero mai letto, potrebbero apprendere cose interessanti e istruttive e rendersi conto del valore della competenza e della preparazione di tanti nostri giudici, continuamente e strumentalmente denigrati.


sabato 6 agosto 2011

Corte d'Appello di Milano - Sentenza; FININVEST / CIR

N. 3461/2009 RG


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE DI APPELLO DI MILANO

SEZIONE II CIVILE

composta dai giudici:

Luigi de Ruggiero Presidente

Walter Saresella Consigliere rel.

Giovanni Battista Rollero Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa civile iscritta al numero di ruolo generale sopra riportato, promossa con atto di citazione notificato

DA

Fininvest, Finanziaria di Investimento spa, elettivamente domiciliata in Milano, via Fratelli Gabba 7, presso lo studio dell’avvocato Achille Saletti, che la rappresenta e difende per delega a margine dell’atto di citazione in appello, unitamente agli avvocati Giorgio De Nova e Giuseppe Lombardi del foro di Milano ed agli avvocati Romano Vaccarella e Fabio Lepri del foro di Roma

APPELLANTE

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CONTRO

CIR – Compagnie Industriali Riunite spa, elettivamente domiciliata in Milano, Corso Matteotti 8, presso lo studio dell’avvocato Elisabetta Rubini, che la rappresenta e difende per mandato in calce alla copia notificata dell’atto di citazione in appello, unitamente all’avvocato Vincenzo Roppo del foro di Genova

APPELLATA ED APPELLANTE INCIDENTALE

OGGETTO: ipotesi di responsabilità extracontrattuale

All’udienza di precisazione delle conclusioni, i procuratori delle parti, come sopra costituite, concludevano come segue:

Conclusioni per l’appellante: vedi fogli allegati

Conclusioni per l’appellata: vedi fogli allegati

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I FATTI DI CAUSA E LE ALLEGAZIONI DI CIR

Le vicende giudiziarie dedotte in causa originano dalla domanda di risarcimento svolta in primo grado da CIR spa per danni asseritamente cagionati dalla corruzione in atti giudiziari del consigliere Vittorio Metta della Corte di Appello di Roma, che scrisse la sentenza 14-24.1.1991; ciò accadeva in relazione alla vicenda relativa al controllo del gruppo editoriale Mondadori, risalente ai primi anni ’90 ed intercorsa fra l’attrice e Fininvest spa, meglio conosciuta come “guerra di Segrate”.

Appare opportuno, per una corretta comprensione dei fatti di causa, procedere, sia pure in sintesi, alla ricostruzione degli assetti societari del gruppo Mondadori ed alla evidenziazione dei fatti rilevanti ai fini della presente decisione, facendo riferimento ai dati che costituiscono elementi certi in causa in quanto non oggetto di contestazione.

Risulta che al 21.12.1988 (data in cui veniva sottoscritto l’accordo fra Formenton e CIR di cui si dirà appresso) il gruppo editoriale comprendeva la capogruppo Arnoldo Mondadori Editore spa (AME); alcune società controllate interamente o con partecipazione di maggioranza dalla capogruppo; altre società possedute al 50 % dalla capogruppo stessa (fra le quali La Repubblica, Finegil ed Elemond, la quale a sua volta deteneva il pacchetto di maggioranza di Einaudi).

La capogruppo AME era controllata, con la partecipazione del 50 %, dalla Arnoldo Mondadori Finanziaria spa (AMEF), costituita nel 1985 con funzioni di holding del gruppo da alcuni azionisti di AME.

Veniva prospettato in causa che il capitale della holding di controllo AMEF era partecipato come segue: famiglia Formenton (25,75 %), famiglia Mondadori

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(24,59%), CIR di Carlo De Benedetti (27,71 %), Fininvest di Silvio Berlusconi (8,28%) ed altre società con minori quote.

CIR possedeva anche direttamente 7.558.446 azioni ordinarie della controllata AME, pari al 18,89 % del capitale di questa.

Consta la sussistenza fra i soci AMEF di un patto di sindacato, stipulato il 6.1.1986 per la durata di 5 anni, che si configurava come un sindacato di voto, perché ciascun socio partecipante si impegnava a votare in assemblea in modo conforme alla indicazione della maggioranza delle azioni sindacate, nonché come sindacato di blocco, perché ciascun socio si impegnava a non alienare le proprie azioni a terzi, se non col consenso scritto degli altri soci.

CIR asseriva che già allora sussistevano dei collegamenti fra gruppo Mondadori e gruppo L’Espresso, dato che CIR possedeva il 18,3 % del capitale della capogruppo Editoriale L'Espresso e che a sua volta L’Espresso aveva, tra l'altro, il 50 % di Repubblica, di Finegil e di A. Manzoni e C., il cui residuo 50 % era posseduto da Mondadori.

Il 21.12.1988 CIR (che controllava già il 27,71%) e la famiglia Formenton (proprietaria del 25,75 %) conclusero un accordo il cui scopo era quello di attribuire a CIR il controllo del gruppo Mondadori (doc. Al CIR). Infatti la clausola 1 della convenzione stabiliva: "La Famiglia Formenton riconosce l'opportunità che, nell'interesse delle aziende, l’ing. Carlo De Benedetti svolga nell'ambito della Arnoldo Mondatori Editore il ruolo di imprenditore di riferimento".

A tal fine le parti si impegnavano a trasferimenti azionari, all’esito dei quali CIR avrebbe posseduto più del 50 % delle azioni ordinarie di AMEF, così da garantirsi, mediante la maggioranza assoluta della holding, il controllo dell'intero gruppo; alla famiglia Formenton sarebbe rimasta una quota significativa ma minoritaria della controllata AME.

Nello specifico, la famiglia Formenton si obbligava a trasferire a CIR, entro il 30.11.991, n. 13.700.000 azioni ordinarie AMEF. Quale corrispettivo, a titolo di permuta, CIR si impegnava a trasferire alla famiglia Formenton n. 6.350.000. azioni ordinarie AME entro la stessa data.

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La convenzione CIR - Formenton conteneva poi una serie di previsioni costituenti in sostanza un patto di sindacato ed accordi finalizzati ad attribuire ai Formenton una posizione di influenza superiore a quella che la residua partecipazione ad AME, successivamente alla predetta permuta, le avrebbe assicurato: in particolare, per il quinquennio successivo alla scadenza del patto di sindacato AMEF (31.12.1990), le citate pattuizioni contrattuali prendevano in considerazione le designazioni alle cariche sociali in AME, la previa consultazione sulle future delibere assembleari di particolare importanza e l'esercizio dei corrispondenti diritti di voto.

Inoltre, a garanzia dell'attuazione di quanto sopra, le parti avrebbero dovuto provvedere al deposito di loro rispettivi pacchetti azionari presso società fiduciarie, con specifici vincoli in ordine all'esercizio dei relativi diritti di voto.

Il contratto conteneva anche una clausola compromissoria, che affidava la risoluzione delle controversie insorte fra le parti, relativamente alla interpretazione ed alla esecuzione della convenzione stessa, a tre arbitri definiti "amichevoli compositori", incaricati di decidere "inappellabilmente".

Senonchè, nella allegazione di CIR, poco dopo Fininvest (che possedeva l'8,28 % di AMEF) si opponeva all’operazione, acquistando sul mercato azioni AMEF ed AME. Nello specifico, Fininvest acquisiva le azioni AMEF della famiglia Mondadori ma poiché, sommando detto pacchetto (24,59 % del capitale) con quello già di Fininvest (8,28 %), quest’ultima non raggiungeva ancora la maggioranza del capitale AMEF e poiché le azioni possedute da CIR, aggiunte a quelle promesse in permuta dai Formenton a CIR, rappresentavano la maggioranza del capitale AMEF, Fininvest, al fine di acquisire il controllo di AMEF e quindi del gruppo Mondadori, doveva convincere i Formenton ad infrangere la promessa di permuta con CIR.

Specificamente, nel novembre 1989 risultava essere stato stipulato l'accordo fra Fininvest e la famiglia Formenton che stabiliva il trasferimento alla prima delle stesse azioni AMEF dai Formenton promesse precedentemente in permuta a CIR con la menzionata convenzione 21.12.1988. Come corrispettivo di detta cessione,

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Fininvest trasferiva nella disponibilità dei Formenton la somma di almeno 200 miliardi di lire.

Quanto sopra risultava provato, a detta di CIR, dalla memoria difensiva dei Formenton del 28 Novembre 1999 alla Procura della Repubblica di Milano (doc. D8 CIR), nonché dalla relazione della Guardia di Finanza alla detta Procura in data 5.5.1995 (doc. D1 CIR) relativa alle indagini sulla società Persia srl (società della famiglia Formenton), nella quale si evidenziavano i movimenti finanziari riguardanti le intestazioni fiduciarie della somma di 200 miliardi di lire ai componenti della stessa famiglia.

Assumeva CIR che, nell'aprile 1990, le dette azioni AMEF erano nella disponibilità di fiduciari di Fininvest e di Silvio Berlusconi, “i quali si adoperavano per renderle insensibili agli eventuali attacchi giudiziari di CIR”.

Significative erano le dichiarazioni rese da Marco Iannilli alla Procura della Repubblica di Milano il 17.12.1997 e poi all'udienza dibattimentale del 22.2.2002 nell'ambito del procedimento "Lodo Mondadori" (docc. E 1 e F 9 CIR), conclusosi con la sentenza 29.4.2003 del Tribunale di Milano - IV Sezione penale (doc. D 13 CIR). Dalla citata testimonianza, evidenziava CIR, emergeva che Iannilli era all'epoca dei fatti un dipendente dello studio legale Previti in Roma e che lo stesso, su disposizione dell'avvocato Previti, aveva aperto una cassetta di sicurezza presso una agenzia bancaria in Roma, dove l'ISTIFI, società del gruppo Fininvest, gli aveva conferito procura ad operare sulla stessa cassetta.

Nella detta cassetta di sicurezza, le cui chiavi non erano nella disponibilità di Iannilli, erano custodite le azioni AMEF oggetto della contesa; Iannilli era stato nominato amministratore di AMEF e successivamente, notava CIR, era stato mandato in vacanza all'estero per 2 settimane allo scopo di renderlo irreperibile alle notificazioni di eventuali atti giudiziari intrapresi da CIR relativamente alle predette azioni.

Pochi mesi dopo la convenzione CIR-Formenton, nella primavera del 1989, i proprietari del gruppo L'Espresso (Scalfari e Caracciolo) lo avevano ceduto al

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gruppo Mondadori e ciò era funzionale alla creazione della "Grande Mondadori" voluta da De Benedetti.

L'accordo, stipulato il 9.4.1989, prevedeva che: entro il 31.8.1989 fossero trasferite al gruppo Mondadori azioni Espresso pari al 50% del capitale della società che doveva essere acquisita; sulle azioni residue, per poco meno del 50% del capitale Espresso, Mondadori doveva lanciare una OPAS, offrendo per ogni azione Espresso lire 15.500 in contanti e 2,2 azioni della Cartiera di Ascoli.

I primi contrasti fra CIR e la famiglia Formenton si manifestarono in relazione alla programmata acquisizione del gruppo L’Espresso. Nel luglio 1989 CIR prospettava l'esigenza di procedere ad un aumento di capitale di AME, per dotare quest'ultima della liquidità necessaria per gli impegni finanziari derivanti dall'acquisizione del gruppo Espresso. La famiglia Formenton, a detta di CIR, espresse il timore che detto aumento di capitale potesse alterare in proprio danno gli equilibri interni al gruppo, sicché la progettata manovra non sortì effetto positivo.

A ciò si deve aggiungere che iniziò in quel frangente un contenzioso fra le parti che presero a contestarsi reciprocamente iniziative che asserivano lesive degli accordi del 21.12.1988.

Secondo la allegazione di CIR, nell'estate del 1989 questa, avuto sentore del rastrellamento di azioni del gruppo Mondadori da parte di Fininvest nonché di contatti fra quest'ultima ed i Formenton per la cessione delle azioni AMEF già promesse in permuta all'attrice, chiese a Luca Formenton di volere emettere un comunicato congiunto che smentisse dette voci e confermasse la solidità dell'alleanza fra le parti: detta richiesta non fu esaudita.

A questo punto CIR iniziava anch'essa ad acquistare azioni privilegiate AME dal mercato. I Formenton opposero che tale iniziativa di CIR intendesse alterare gli equilibri fra le parti quali delineati nell'accordo del 21.12.1988.

Successivamente, il 2.12.1989, i Formenton inviavano a CIR una lettera con la quale dichiaravano di ritenere la convenzione 21.12.1988 risolta per fatto e colpa di CIR.

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Allora, il 4.12.1989, CIR notificava a controparte diffida a non disporre delle azioni ed obbligazioni convertibili AMEF oggetto della promessa di permuta. Contestualmente CIR intimava a Fininvest di desistere dalle trattative in corso per l'acquisizione dello stesso pacchetto azionario, ignorando che il trasferimento era stato già pattuito tra Formenton e Fininvest, come sarebbe emerso dalle risultanze del procedimento penale sopra indicato.

Alla fine del 1989 la cosiddetta "guerra di Segrate" ebbe seguiti giudiziari, prima con iniziative cautelari delle parti e, successivamente, col giudizio arbitrale.

Il 12.12.1989 CIR propose al Tribunale di Milano ricorso per sequestro giudiziario dei titoli AMEF promessi dai Formenton in permuta. Il sequestro giudiziario fu autorizzato il 23.12.1989.

Il 18.12.1989 la famiglia Formenton chiese al Tribunale di Milano il sequestro giudiziario di azioni AME di proprietà CIR, anch'esse contemplate dalla convenzione CIR-Formenton 21.12.1988. Il sequestro giudiziario fu autorizzato anch’esso il 23.12.1989.

In data 18.1.1990 CIR, sulla base della clausola compromissoria contenuta nell'accordo 21.12.1988, notificò ai Formenton la propria nomina di arbitro nella persona del Professor Pietro Rescigno, chiedendo che il collegio arbitrale volesse: accertare l'obbligo dei Formenton, in adempimento del contratto del 21.12.1988, di trasferire ad essa CIR n. 13.700.000 azioni ordinarie AMEF, nonché emettere ex art. 2932 CC lodo idoneo a tener luogo del contratto definitivo di trasferimento non concluso, dichiarandosi essa CIR pronta ad offrire a controparte, quale controprestazione corrispettiva pattuita con la permuta, n. 6.350.000 azioni ordinarie AME.

La famiglia Formenton designò arbitro il Prof. Natalino Irti, chiedendo che il Collegio arbitrale volesse: pronunciare la risoluzione del contratto 21.12.1988 per fatto e colpa di CIR; conseguentemente rigettare le domande proposte da CIR, fondate su detto accordo.

Nella precisazione delle conclusioni CIR ribadiva le sue domande, mentre la famiglia Formenton, come evidenziato dall’attrice CIR, le riformulò ed integrò chiedendo quanto segue: in principalità, la declaratoria di nullità dell'intero accordo del 21.12.1988, sia

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nella parte contenente patti di sindacato, per contrarietà a norme inderogabili di ordine pubblico dell'ordinamento societario; sia nella parte contenente la promessa di permuta perché si trattava di pattuizione inscindibile dai patti parasociali; in alternativa, la pronuncia di risoluzione del contratto stesso per fatto e colpa di CIR; in ogni caso, i Formenton chiedevano il rigetto delle domande di CIR.

Costituitosi il Collegio con la designazione del terzo arbitro e Presidente nella persona del dott. Carlo Maria Pratis, il giudizio arbitrale si era concluso con il lodo reso il 20.6.1990 (doc. C 1 CIR).

Tale pronuncia respingeva la domanda dei Formenton di risoluzione del contratto per inadempimento di CIR, perché taluni inadempimenti lamentati non sussistevano, mentre gli altri, ancorché sussistenti, erano di scarsa importanza (sul punto si dirà diffusamente in seguito); rigettava la domanda di CIR di pronuncia costitutiva ex art. 2932 CC, finalizzata al trasferimento coattivo delle azioni AMEF promesse in permuta, in quanto il relativo termine non era ancora scaduto; accertava l'obbligo della Famiglia Formenton di stipulare il contratto definitivo funzionale a detto trasferimento entro la scadenza contrattualmente stabilita.

Precisava CIR che detta ultima statuizione il Collegio arbitrale aveva pronunciato dopo avere disatteso la domanda di Formenton di declaratoria della nullità della convenzione 21.12.1988, e ciò sia perché i patti di sindacato censurati di illiceità e di nullità dovevano invece ritenersi leciti e validi; sia perché, se anche per denegata ipotesi tali patti fossero stati ritenuti nulli, solo essi sarebbero caduti, mentre la promessa di permuta sarebbe ben potuta sopravvivere, attesa l'inesistenza del preteso vincolo di inscindibilità fra questa e quelli.

In data 19.7.1990 la famiglia Formenton notificò a CIR atto di impugnazione del predetto lodo arbitrale innanzi alla Corte di Appello di Roma per sentir pronunciare la nullità del lodo. Con i motivi di gravame la famiglia Formenton: denunciava l'incompetenza degli arbitri ex art. 806 CPC a pronunciare in materia di patti parasociali, materia che atteneva alla disciplina imperativa dell'ordinamento societario, non disponibile e non transigibile; lamentava la violazione, ad opera del lodo, dei principi

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inderogabili su organizzazione e funzionamento delle società, per avere ritenuto validi i patti di sindacato, che invece erano nulli. Tale violazione di principi inderogabili inficiava l'intero contratto, anche nella parte relativa alla promessa di permuta, data la inscindibilità dei patti di sindacato con quest'ultima; lamentava infine errori e vizi del lodo, nella parte in cui respingeva la domanda di risoluzione del contratto per fatto e colpa di CIR.

Tanto premesso i Formenton chiedevano che, pronunciata in via rescindente la nullità del lodo arbitrale impugnato, la Corte di Appello in via rescissoria: accertasse la nullità del contratto 21.12.1988; dichiarasse la Famiglia Formenton non tenuta a trasferire a CIR le azioni AMEF oggetto della promessa di permuta; in subordine, risolvesse il contratto 21.12.1988 per fatto e colpa di CIR.

Con atto 13.9.1990, intervenivano in giudizio gli altri partecipanti al patto di sindacato stipulato il 6.1.1986 fra gli azionisti AMEF, e fra essi segnatamente Fininvest, che svolgevano domande nei confronti di entrambe le originarie parti del giudizio.

CIR si costituiva in giudizio rassegnando le seguenti conclusioni: in via principale, dichiarare l'inammissibilità e/o l’improponibilità dell'impugnazione diretta alla declaratoria di nullità del lodo; in subordine, per il denegato caso di rescissorio, accogliere tutte le domande già proposte in sede arbitrale. Nei confronti degli intervenuti, CIR chiedeva la declaratoria di inammissibilità dell'intervento, ed in subordine il rigetto delle domande proposte dagli intervenienti.

La sentenza della Corte di Appello di Roma, Prima Sezione Civile, relatore ed estensore Vittorio Metta, fu deliberata nella camera di consiglio del 14.1.1991 e depositata in Cancelleria il successivo 24.1.1991 (doc. C 3 CIR).

Tale pronuncia, dopo avere riconosciuto la competenza degli arbitri a conoscere della materia devoluta al loro giudizio, in accoglimento del secondo motivo di impugnazione dei Formenton, e disattendendo l'eccezione di inammissibilità formulata da CIR, pronunciava in via rescindente la nullità del lodo per inosservanza dei principi di ordine pubblico relativi al governo societario; rigettava tutte le domande proposte da CIR, sotto il profilo della ritenuta nullità dei patti di sindacato contenuti nell'accordo del 21.12.1988, nullità che si

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estendeva anche alle altre parti di questo e segnatamente alle reciproche promesse di permuta azionaria, dovendosi ritenere, contrariamente al giudizio degli arbitri, l'inscindibilità fra le diverse componenti del contratto.

LE DOMANDE DI CIR

Alla luce di tali dati, considerava CIR che era di tutta evidenza il fatto che la Corte di Appello di Roma aveva determinato un capovolgimento nei rapporti di forza fra le parti: “la posizione di CIR, la quale a seguito del lodo Pratis era forte del riconoscimento giurisdizionale della sua spettanza delle azioni AMEF, da cui dipendeva il controllo del gruppo, si era trasformata in posizione di debolezza a seguito della sentenza Metta che detto diritto aveva negato”.

Evidenziava CIR che, peraltro, parallelamente alla lite giudiziaria, era in corso tra le parti una trattativa per arrivare ad una composizione transattiva della vertenza.

Per una soluzione di questo genere ricorrevano diversi fattori.

Innanzitutto, il gruppo Mondadori - L'Espresso, durante tutto il periodo della cosiddetta "guerra di Segrate", versava in una condizione di pratica ingovernabilità a causa dell'”altalena” di conferimenti e revoche di cariche sociali di dirigenti dell'uno e dell'altro dei gruppi contrapposti, con la conseguenza dell'impossibilità di programmare le scelte gestionali.

Di ciò aveva riferito l’ing. Carlo De Benedetti, sentito come teste nel procedimento penale relativo al Lodo Mondadori all'udienza dibattimentale del 28.1.2002 (doc. F 2 CIR).

Le vicende relative all’”altalena” di nomine e dimissioni di dirigenti del gruppo erano rappresentate dalla visura camerale CCIA prodotta da CIR al doc. M1.

Anche alcuni provvedimenti cautelari emessi dall'A.G. di Milano davano la dimostrazione, a detta di CIR, della grave situazione di ingovernabilità del gruppo editoriale stesso. Oltre ai provvedimenti di sequestro giudiziario di azioni AMEF ed AME emessi il 23.12.1989 dal Presidente del Tribunale di Milano, CIR menzionava il

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provvedimento di urgenza 7.12.1989 col quale il G.I. del Tribunale di Milano aveva, su istanza di Fininvest, inibito "al consiglio di amministrazione della AME di adottare altri provvedimenti, oltre alla gestione ordinaria, all'infuori della convocazione dell'assemblea per la nomina del nuovo consiglio di amministrazione".

Vi era, inoltre, un secondo ordine di fattori che consigliava fortemente una soluzione conciliativa della lite: “la politica in genere”, ma in particolare l'allora Presidente del Consiglio dei Ministri on. Giulio Andreotti desiderava una spartizione del gruppo. Sul punto aveva detto l’ing. Carlo De Benedetti nella citata deposizione (doc. F2 CIR): “la politica non avrebbe gradito la concentrazione dell'intero gruppo nelle mani della CIR o della Fininvest”.

Evidenziava CIR che la trattativa, che si era svolta presso la sede di Mediobanca precedentemente alla pronuncia del Lodo Pratis del 20.6.1990, aveva subìto una quiescenza nel periodo fra il Lodo Pratis e la sentenza della Corte di Appello di Roma del 14/24.01.1991, era ripresa dopo la sconfitta giudiziaria di CIR con l’intermediazione di Giuseppe Ciarrapico e aveva condotto alla conclusione di un accordo transattivo stipulato e sottoscritto dalle parti il 29.4.1991 (doc. A 2 CIR).

Con detto accordo si pattuiva la spartizione del gruppo L'Espresso Mondadori: a CIR veniva conferito il Gruppo L'Espresso - Repubblica - Finegil ed a Fininvest-Formenton la Mondadori "classica" (libri, riviste e grafica).

CIR sottolineava che fra le parti, anche durante la "trattativa Mediobanca", era pacifico che i termini della spartizione del gruppo dovessero essere quelli sopra indicati, mentre la ragione del contendere era stata la misura del conguaglio che, a fronte di reciproci trasferimenti azionari, CIR avrebbe dovuto ricevere da controparte: infatti, l'attrice pretendeva un conguaglio di oltre 500 miliardi di vecchie lire, mentre la Fininvest offriva un conguaglio di circa 100-150 miliardi, e solo negli ultimi giorni prima del Lodo Pratis aveva offerto la somma di 400 miliardi.

Invece, la transazione 29.4.1991, a fronte di una spartizione omologa rispetto a quella per cui Fininvest aveva, in data 19.06.1990, offerto a controparte un conguaglio di

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lire 400 miliardi, aveva comportato per CIR un esborso a titolo di conguaglio di 365 miliardi di vecchie lire.

Questa differenza, in termini di valori monetari, era la conseguenza del drammatico indebolimento della posizione di CIR nella trattativa cagionato dalla sentenza Metta.

La sostanza economica dell'operazione era esemplificata dall'ing. Carlo De Benedetti, nella sua deposizione a doc. F 2 CIR, nei seguenti termini numerici: "è costato alla CIR 365 miliardi a nostro sfavore. E siccome la nostra proposta in Mediobanca era 528 miliardi di lire, il valore che noi diamo alla mediazione Ciarrapico, o per meglio dire alla sentenza della Corte d'Appello di Roma, è stata di 900 miliardi".

Anche il teste avvocato Sergio Erede, che aveva seguito la trattativa da un punto di vista legale, così si pronunciava nella sua deposizione alla udienza dibattimentale dell'8.2.2002 nel processo penale Lodo Mondadori (doc. F 7 CIR): " tutto sommato le due parti non erano distanti ... sul fatto della spartizione, e neanche sulla definizione del perimetro della spartizione. Erano lontani sui contenuti economici della spartizione, perché .... le richieste dell’uno erano assolutamente incompatibili con le aspettative dell'altro. Più o meno il perimetro mi pare che rimase invariato...la differenza vera fu il contenuto economico dell'accordo...rispetto a quello ipotizzato un anno prima. Presidente: - Perché, se non ricordo male un anno prima comunque si ipotizzava un credito per la CIR ? - Erede. - Si. Che invece pagò svariate centinaia di miliardi…”

Tutto ciò premesso, la sentenza Metta fu, a parere di CIR, frutto della corruzione del relatore ed estensore Vittorio Metta da parte di Cesare Previti, Attilio Pacifico e Giovanni Acampora, avvocati in Roma, nonché di Silvio Berlusconi.

CIR ricostruiva come segue, avanti il giudice di prime cure, le varie fasi del procedimento penale. A partire dalla metà degli anni '90 la Procura della Repubblica di Milano iniziava, sulla base delle dichiarazioni di Stefania Ariosto, indagini preliminari per fatti di corruzione di magistrati in servizio presso gli uffici giudiziari romani, fra i quali Renato Squillante, allora capo dell'ufficio GIP del Tribunale di Roma, con la cooperazione del quale l'avvocato Cesare Previti, con studio in Roma, avrebbe creato

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una lobby di giudici corrotti, disponibili ad aggiustare dei procedimenti in direzione favorevole alle imprese commerciali corruttrici.

In data 5.11.1999 il Procuratore della Repubblica di Milano chiedeva il rinvio a giudizio, per il reato di corruzione in atti giudiziari, degli imputati Silvio Berlusconi, Cesare Previti, Attilio Pacifico, Giovanni Acampora e Vittorio Metta ( doc. D 7 CIR).

Con sentenze n. 3755 e n. 3763 del 19.6.2000 - 12.09.2000 (relative l’una agli imputati Silvio Berlusconi, Cesare Previti, Attilio Pacìfico e Vittorio Metta e, l'altra, all'imputato Giovanni Acampora) il GIP presso il Tribunale di Milano dichiarava non doversi procedere nei confronti di tutti i predetti imputati in ordine al reato loro ascritto per insussistenza del fatto, ritenendo che il materiale probatorio suscettibile di essere aggiunto nel corso del dibattimento non lasciasse prevedere una evoluzione in senso favorevole all'accusa (doc. D 10 CIR).

Con sentenza 12.5.2001 - 25.6 2001 la Corte di Appello di Milano, Sezione Quinta penale, in parziale accoglimento dell'impugnazione della Procura della Repubblica di Milano contro le predette sentenze del GIP, disponeva il rinvio a giudizio degli imputati Cesare Previti, Giovanni Acampora, Attilio Pacifico, Vittorio Metta e dichiarava non doversi procedere nei confronti di Silvio Berlusconi perché, qualificato il reato come violazione degli artt. 81, 110, 319 e 321 cp (corruzione semplice) e concesse le attenuanti generiche, lo stesso era estinto per prescrizione (doc. D 11 CIR).

Con sentenza n. 3524 del 16.11. - 19.12. 2001 la Corte di Cassazione, Sezione Sesta Penale, rigettava il ricorso proposto da Silvio Berlusconi, confermando la sentenza della Corte di Appello (doc, D 12 CIR).

Con sentenza n. 4688/2003 del 29.4.2003 il Tribunale di Milano, Sezione Quarta Penale, (doc. D 13 CIR) giudicando tanto sulla vicenda Lodo Mondadori, come su quella parallela di corruzione IMI - SIR, essendo stati i due relativi procedimenti riuniti in fase dibattimentale (tranne che per la posizione dell'imputato Acampora, per il quale per la vicenda IMI - SIR si era proceduto col rito abbreviato), condannava Previti, Pacifico, Acampora e Metta, ritenendoli colpevoli della vicenda corruttiva

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Lodo Mondadori, qualificata dal punto di vista giuridico come corruzione in atti giudiziari per Vittorio Metta e come corruzione semplice (ex artt. 319, 321 CP) per gli altri imputati, nonché condannava tutti in solido alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile costituita CIR spa, liquidate in euro 444.361,03 oltre accessori di legge, ed a risarcire il danno cagionato, liquidato in euro 380 milioni.

Assumeva dunque CIR che la sentenza Metta era caratterizzata da evidente ingiustizia e metteva innanzitutto in luce alcune gravi anomalie della stessa, esaminate nella sentenza n. 4688 del Tribunale Penale di Milano.

In primo luogo, appariva strana l'assegnazione della causa al dott. Metta: l’avvocato Vittorio Ripa di Meana, legale di CIR nel procedimento avanti la Corte di Appello di Roma, esaminato alla udienza dibattimentale dell'8.2.2002 (doc. F 4 CIR), dichiarava di essersi recato, nella sua anzidetta qualità, dal Presidente della Corte di Appello di Roma dell'epoca Dott. Carlo Sammarco per chiedere che la causa di impugnazione del Lodo Mondadori fosse celermente trattata e decisa stante l'urgente necessità di dotare il gruppo L'Espresso Mondadori di una stabile governance.

Il dott. Carlo Sammarco, sentito come teste all'udienza dibattimentale del 14.6.2002 (doc. F 20 CIR), aveva dichiarato di aver assegnato la causa alla Prima Sezione Civile della Corte, tabellarmente competente per le impugnazioni dei lodi arbitrali, rappresentando al Presidente di Sezione dott. Arnaldo Valente le descritte necessità di urgenza. Proprio in vista di queste necessità, appariva a CIR anomala l'assegnazione della causa da parte del Presidente Valente al consigliere Metta, il quale era istruttore e relatore di altri due onerosissimi procedimenti civili (causa IMI - SIR ed impugnazione del lodo arbitrale tra il Comune di Fiuggi e l'Ente delle Terme di Fiuggi).

Inoltre il Metta svolgeva le funzioni di magistrato segretario della Presidenza della Corte.

Il teste Giovanni Paolini, componente del collegio che, assieme al Presidente Valente ed a Metta, aveva deciso la causa Lodo Mondadori, esaminato all'udienza dibattimentale del 25.2.2002 (doc. F 10 CIR), aveva fatto presente che il collega relatore era molto spesso in ritardo, rispetto ai termini di rito, nel deposito delle

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sentenze e che, per tale ragione, egli era solito lavorare anche durante le ferie. Ciò nonostante, evidenziava CIR, egli fu assegnatario di una causa così gravosa ed onerosa come l'impugnazione del lodo Mondadori.

La seconda anomalia si riferiva alla stesura della motivazione e alla dattiloscrittura della sentenza. Emergeva dal testo stesso della sentenza della Corte di Appello di Roma n. 259 del 24.1.1991 (doc. C 3 CIR), che la decisione era stata deliberata dal Collegio nella camera di consiglio del 14.1.1991 e depositata solamente 10 giorni dopo. Ciò significava che nel tempo di soli dieci giorni Metta dovette stendere una motivazione, che affrontava tematiche estremamente complesse e dibattute, di oltre 165 pagine dattiloscritte, e che in quello stesso lasso di tempo la decisione dovette essere anche dattiloscritta dalla impiegata presso la Presidenza della Corte sig.ra Gabriella Bruni, nonché essere esaminata e letta per intero dal Presidente Valente, da questi sottoscritta e depositata: la teste Gabriella Bruni non ricordava peraltro di averla dattiloscritta.

Tutto ciò non appariva realistico agli occhi di CIR, che evidenziava che dal “registro brogliaccio” delle sentenze tenuto dall’allora cancelliere della Prima Sezione Civile della Corte, prodotto per estratto da CIR (doc. G 9 CIR), si evinceva che la sentenza era stata depositata addirittura il 15.1.1991, e cioè il giorno successivo alla sua deliberazione in camera di consiglio.

CIR temeva che la sentenza fosse stata dattiloscritta al di fuori del circuito istituzionale e ad opera di un terzo estraneo.

Terza anomalia era l’esistenza di più di un originale del documento, come era stato evidenziato dal Tribunale Penale di Milano, dinanzi al quale, durante l'esame della teste Bruni, la difesa Metta aveva utilizzato una copia della sentenza con un testo diverso dall'originale.

A ciò si doveva aggiungere la somiglianza fra i contenuti della sentenza Metta ed i contenuti delle difese di Formenton-Fininvest.

La quinta anomalia consisteva nell’anticipazione dell'esito della causa: l’avv. Vittorio Ripa di Meana aveva dichiarato nel corso della sua testimonianza che, durante le

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vacanze natalizie 1990 – 1991, si era trovato a parlare col dott. Pazzi, allora Presidente della Consob, presso la sede della medesima e che lo stesso gli aveva riferito che l'esito della sentenza sarebbe stato sfavorevole a CIR. Orbene, poiché il teste Paolini aveva escluso che nel predetto giudizio civile fossero state fatte "precamere di consiglio", era evidente, secondo CIR, che il contenuto della decisione era trapelato prima che la causa fosse formalmente decisa il 14.1.1991.

CIR sottolineava poi la fondamentale importanza dei rapporti fra gli imputati del reato di corruzione, nel quale compariva un privato corruttore (che faceva riferimento a Fininvest), un pubblico ufficiale, il magistrato ordinario Metta Vittorio, e tre concorrenti intermediari fra il privato corruttore e il pubblico ufficiale corrotto, gli avvocati Cesare Previti, Attilio Pacifico e Giovanni Acampora.

In relazione ai rapporti fra Metta e Previti, CIR evidenziava che l'esame dei tabulati telefonici acquisiti agli atti del dibattimento penale aveva documentato numerose chiamate effettuate da Cesare Previti alla volta dell'abitazione del magistrato o della suocera, sig.ra Secondina Spera, chiamate che talvolta erano avvenute di mattina presto o di sera tardi o in giorni festivi.

Per quanto riguardava i rapporti fra Metta e Pacifico, oltre ai tracciati telefonici, dall'esame delle agende di Pacifico sequestrate dalla Polizia Giudiziaria risultavano appunti che si riferivano a rapporti diretti fra i due soggetti.

Erano poi provati i rapporti fra Metta ed Acampora, che avevano dichiarato di conoscersi da molti anni per la collaborazione di Metta a pubblicazioni in riviste tributarie. Inoltre, alla morte del magistrato Orlando Falco, legato da rapporto di amicizia con Metta, Acampora aveva gestito la pratica relativa alla successione del Metta al Falco, che in vita l'aveva nominato erede.

Evidenziava poi CIR che il Tribunale Penale riteneva provata la vicenda corruttiva prendendo in esame una serie di bonifici intercorsi fra Fininvest, Cesare Previti, Giovanni Acampora, per poi ritenere che la somma di lire 400.000.000, proveniente dalle movimentazioni bancarie, fosse stata consegnata a Metta che ne aveva fatto impiego per un acquisto immobiliare eseguito nel 1992 in favore della

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figlia Sabrina, dovendosi escludere, stanti le risultanze istruttorie, che tale somma provenisse dai conti correnti del Falco.

CIR evidenziava il ruolo di corruttore attivo di Silvio Berlusconi: infatti, la sentenza della Corte d’Appello di Milano 12.5-25.6.2001 (che aveva riformato le sentenze n. 3765 e 3763 del 19.6 – 12.9.2000 del GIP presso il Tribunale di Milano) con la quale si era disposto il rinvio a giudizio di Cesare Previti, Attilio Pacifico, Giovanni Acampora e Vittorio Metta per corruzione, aveva dichiarato non doversi procedere a carico di Silvio Berlusconi in quanto era stato ritenuto responsabile per corruzione semplice, gli erano state concesse le attenuanti generiche e quindi il reato era stato ritenuto estinto per prescrizione; in sede civile la responsabilità del predetto doveva essere ritenuta stante il ruolo attivo di Berlusconi nella vicenda corruttiva: infatti, era certa la riconducibilità alla Fininvest di Silvio Berlusconi dei conti correnti All Iberian e Ferrido, dai quali erano partite le somme poi giunte a Metta; in particolare, il bonifico per USD 2.732.868 dal conto Ferrido al conto Mercier di Cesare Previti, stante la sua entità, non poteva essere sfuggito a Silvio Berlusconi “dominus” della Fininvest e parte attiva nella “guerra di Segrate”.

Ne conseguiva la sussistenza e la conseguente risarcibilità del danno subìto da CIR in quanto la sentenza resa dalla Corte di Appello di Roma era ingiusta; l’ingiustizia era frutto della corruzione nel senso che non sarebbe stata resa in quei termini se non vi fosse stata corruzione; il danno ingiusto era consistito nella violazione del diritto a non subire l’annullamento del lodo, a beneficiare della trasmissione delle azioni AMEF promesse dai Formenton ed ai conseguenti vantaggi negoziali ed a non vedere lesa l’immagine imprenditoriale di CIR.

Quest’ultima svolgeva anche una prospettazione subordinata, che prescindeva dall’ingiustizia intrinseca della sentenza Metta; CIR aveva subito un danno per perdita di “chance”: la corruzione del giudice Metta aveva privato l’attrice della possibilità di avere una sentenza favorevole; trattavasi di una concreta possibilità di ottenere un risultato favorevole che rappresentava un elemento attivo del patrimonio

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del soggetto sotto il profilo del danno emergente (Cass. 21.7.2003 n. 11322 e Cass. 13.12.2001 n. 12759).

CIR aveva subito, in definitiva, un indebolimento della sua posizione contrattuale nel negoziato ed evidenziava, tra l’altro, la vicinanza della fattispecie a quella prevista dall’articolo 1440 CC, che disciplina il dolo incidente.

Il danno consisteva nella differenza fra le condizioni effettive della spartizione “corrotta” e le possibili condizioni di una virtuale spartizione “pulita” dedotte da alcune precedenti proposte contrattuali.

CIR si riteneva portatrice anche di un danno non patrimoniale risarcibile, che si evidenziava nella lesione del diritto ad avere un giudice imparziale; inoltre vi era stata una lesione della sua immagine e reputazione.

CIR puntualizzava la responsabilità di Fininvest ai sensi dell’articolo 2049 CC, stante il ruolo di Silvio Berlusconi (presidente del consiglio di amministrazione di Fininvest all’epoca dei fatti) e di Cesare Previti (che aveva da Fininvest un mandato in senso generale alla cura degli affari della società) nella vicenda corruttiva.

In definitiva l’attrice chiedeva il risarcimento dei danni nella somma di euro 468.882.841,02 oltre rivalutazione monetaria ed interessi dalla data della produzione del danno; inoltre, svolgeva domanda generica per i danni non patrimoniali sofferti a causa della corruzione, con riserva di quantificarli in separato giudizio.

LE DIFESE DI FININVEST

Fininvest spa, in sede di costituzione in giudizio avanti il Tribunale, assumeva che l’accordo CIR- Formenton del 21.12.1988 era illecito, in quanto contrario alla convenzione AMEF del 6.1.1986 la quale, all’articolo 8, imponeva ai soci partecipanti al sindacato di “non alienare a terzi sotto qualsiasi forma (proprietà, nuda proprietà, usufrutto ecc.) e per qualsiasi titolo, le azioni…vincolate al

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sindacato, e a non iniziare trattative per l’alienazione di tali azioni, nemmeno a termine, per tutta la durata del sindacato” (dal 1.1.1986 al 31.12.1990). Inoltre, ai sensi dell’articolo 9 dello stesso atto, si prevedeva che la vendita di azioni AMEF dovesse essere consentita per iscritto da tutti gli altri aderenti al patto di sindacato (doc 1 Fininvest).

Nonostante gli accordi, agli inizi del 1988 CIR aveva iniziato a “rastrellare” azioni sul mercato, al fine di aggirare le deliberazioni contenute nell’accordo AMEF del 6.1.1986.

Preoccupati di tale comportamento, i Formenton avevano preteso garanzie da CIR, consacrate nell'accordo del 21.12.1988, che doveva condurre i Formenton alla dismissione delle loro posizioni in AMEF a fronte di una collegata acquisizione di posizioni in AME (i Formenton avrebbero ceduto 13.700.000 azioni ordinarie AMEF a CIR, che in cambio avrebbe loro ceduto 6.350.000 sue azioni AME). L'accordo, a detta di Fininvest, prevedeva dei congegni diretti a garantire i Formenton che, cedendo azioni importantissime ai fini del controllo della Mondadori, rischiavano l'estromissione dalla direzione della società. A tal fine l'accordo conteneva pattuizioni sulla composizione del consiglio di amministrazione AME e sulla formazione delle future decisioni strategiche di AME e di AMEF. Inoltre, proprio per evitare nuove manovre elusive di CIR, era stato previsto, all'articolo 2, il deposito di 8.591.000 azioni privilegiate AME di proprietà di CIR presso una società terza (Pasfid Gestioni spa) con istruzioni date ad essa società di "intervenire alle eventuali assemblee straordinarie della Mondadori soltanto sulla base di istruzioni congiunte della stessa CIR e della famiglia Formenton".

Evidenziava Fininvest che, peraltro, CIR non provvide mai al deposito di dette azioni.

La convenuta considerava che la nullità dei patti di sindacato contenuti nell’accordo 21.12.1988 era stata sostenuta anche da CIR, quando era ricorsa in corso di causa al GD per la restituzione di azioni detenute da SIREF.

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La materia era talmente controversa, quindi, che, come risulta dalla motivazione, il lodo Pratis fu sì reso in modo favorevole a CIR, ma fu deliberato a maggioranza e non all’unanimità.

La sentenza “Metta”, dunque, non era stata un fatto avulso dalla realtà giuridica che si attagliava alla fattispecie ma, anzi, era un atto giudiziale che si basava su fondate considerazioni di fatto e giuridiche.

Proprio coerentemente con la “fisiologia” del processo e la normalità della sentenza Metta, CIR procedette con ricorso in Cassazione ribadendo le proprie ragioni. Ciò non escluse, però, che le parti giungessero ad una transazione in pendenza del ricorso (atto 29.4.1991), che ebbe totale e puntuale applicazione. CIR non poteva dunque asserire che quell’accordo fosse stato negoziato in una posizione sfavorevole e di debolezza.

Ne conseguiva l’improponibilità delle domande svolte da CIR: infatti, non potendosi dubitare dell’effettiva esistenza, all’epoca dei fatti, di una “res dubia” fra le parti, si doveva concludere che l’accordo transattivo aveva definitivamente ed inoppugnabilmente definito la questione che CIR pretendeva di sollevare “ex novo”, chiedendo di fatto una rideterminazione delle condizioni della transazione medesima.

In secondo luogo, l’esame delle domande di CIR era precluso, a giudizio di Fininvest, dal giudicato formatosi in relazione alla sentenza della CdA di Roma 14.1.1991 e depositata in Cancelleria il successivo 24.1.1991.

A ciò Fininvest aggiungeva l’eccezione preliminare di prescrizione: trattandosi di allegazione relativa alle ipotesi di cui agli artt 1337, 1440 e 2043 CC, rapportabili dunque a fattispecie di responsabilità aquiliana, il termine prescrizionale quinquennale di cui all’articolo 2947 CC era abbondantemente scaduto, anche tenuto conto del fatto che l’articolo 2935 CC, disponendo che la prescrizione inizia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere, si riferisce solo alla possibilità legale di esercizio del diritto e non ad un semplice impedimento fattuale (Cass. 23.10.2003 n. 15858).

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Quanto al presunto atto corruttivo rapportato alla sentenza della CdA di Roma, Fininvest evidenziava che la pronuncia era stata assunta all’unanimità dai tre magistrati componenti il collegio (Presidente Arnaldo Valente, consigliere estensore Vittorio Metta e consigliere Giovanni Paolini).

Fininvest precisava che “allorché, in punto di contestazione accusatoria, si sostenga che una determinazione collegiale, anziché il prodotto di un'autonoma scelta collettiva, imputabile quindi all'organo collegiale nel suo complesso, rappresenti invece il risultato raggiunto attraverso l'alterazione del regolare procedimento formativo della volontà collegiale, addebitabile ad un singolo soggetto, occorre fornire prova rigorosa di una condotta, da parte di quest'ultimo, se non di vera e propria coartazione e prevaricazione, almeno di concreto condizionamento esercitato sulla volontà dei componenti del collegio o di alcuni di essi, che si siano orientati ad operare proprio in funzione di quell'illecito intervento" (Cass. Penale, SU 30.10.2002, ricorrente Carnevale).

Nella fattispecie, nulla di tutto questo era avvenuto, poiché il teste Paolini nel corso del dibattimento penale, sentito all'udienza del 25.02.2002, aveva fatto presente che la camera di consiglio relativa al giudizio civile in questione era stata tenuta in modo del tutto fisiologico: dopo aver avuto conoscenza di quelli "che si chiamano gli atti regolamentari, cioè di citazioni, comparse e cose del genere, e che si sono messi a disposizione del terzo componente del Collegio… il Collegio si convinse e pronunciò sul lodo come pronunciò". Non vi fu pertanto nessun indebito condizionamento da parte del giudice relatore nei confronti degli altri componenti del collegio.

Pertanto nessuna influenza potrebbe avere avuto sulla formazione del giudizio civile d'appello l'ipotetica corruzione del giudice Metta.

A ciò si doveva aggiungere che la sentenza “corrotta”, che tra l’altro era soggetta al controllo della Cassazione, non aveva determinato in alcun modo CIR a concludere l’accordo transattivo 29.4.1991.

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Non era vero, secondo Fininvest, che le condizioni della transazione si erano determinate in modo deteriore per CIR, in quanto nel frattempo era intervenuta in sfavore di Fininvest la legge Mammì (L. 223 del 1990).

Pretestuoso era poi il coinvolgimento di Fininvest: infatti, Silvio Berlusconi non aveva subito alcuna condanna penale, essendo stato estromesso dal giudizio per l’applicazione della norma di cui all’articolo 129 CPP e Cesare Previti non svolgeva alcun ruolo di institore per Fininvest.

A tutto voler concedere, comunque, la sentenza “Metta” doveva considerarsi intrinsecamente giusta: infatti, in coerenza con risalente giurisprudenza (Cass. 25.1.1965 n. 136), la sentenza della CdA correttamente aveva ritenuto che le clausole 2 e 5 della convenzione 21.12.1988, con le quali venivano spartiti i posti nel consiglio di amministrazione AMEF, erano contrarie alle norme imperative relative alla nomina ed alla revoca degli amministratori (art 2383 CC), così come quelle relative alla sostituzione degli amministratori venuti a mancare (art 2386 CC), che riservavano dette incombenze all’assemblea dei soci.

Inoltre, la sentenza “Metta” aveva correttamente ritenuto la nullità della clausola che imponeva gli amministratori AMEF e Mondadori di uniformarsi alle direttive dei soci CIR e Formenton nella gestione sociale: sul punto valeva Cass. 10.4.1965 n. 635.

Anche in ordine alla questione relativa all’obbligo di votazione in conformità delle proposte dei consigli di amministrazione, nessun appunto poteva essere mosso alla sentenza “Metta”, che ne aveva ritenuto la nullità per violazione dell’articolo 1372 CC, in quanto così facendo si sarebbe spogliata l’assemblea delle sue prerogative.

Fininvest si soffermava poi sull’obbligo di astensione dal voto in caso di contrasto in ordine alle decisione da adottare e sul trasferimento fiduciario delle azioni ad un terzo estraneo alla società, una società fiduciaria, con conseguente "espropriazione " del diritto di voto. II punto costituiva, a detta di Fininvest, il cardine centrale della motivazione della sentenza della Corte di Appello e colpiva l'art. 2, comma 12, e l'art. 5, comma 6, della convenzione. La prima delle due clausole prevedeva, per il periodo

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precedente alla scadenza del patto di sindacato AMEF, che per particolari, importanti decisioni, in caso di disaccordo fra i soci, la decisione venisse affidata ad un collegio di tre esperti, con un meccanismo di tipo arbitrale. Detta clausola, come stabilito dalla sentenza CdA Roma, era in contrasto con i principi dell'ordinamento societario, non solo perché era assolutamente carente, secondo la convenuta, il requisito della libera determinazione del socio eventualmente dissenziente, ma anche, e soprattutto perché, col rimettere ogni decisione a terzi estranei, si svuotava ed esautorava l'assemblea dalle proprie funzioni. La clausola di cui all’art. 5, comma 6, attraverso il trasferimento delle azioni ad una società fiduciaria (la Plurifid), realizzava un patto di sindacato c.d. reale, ponendo in essere un meccanismo attraverso il quale al socio dissenziente era anche impedito di votare, in violazione dell'obbligo assunto con la convenzione sindacale. Si trattava di una modalità espressamente finalizzata ad evitare inadempimenti agli obblighi assunti in seno al sindacato. Inoltre, il patto CIR - Formenton prevedeva, in caso di disaccordo tra i soci sindacati, che la società fiduciaria si sarebbe dovuta astenere dal voto (art 5 comma 5 ultima parte), in tal modo violando il principio di ordine pubblico di libero esercizio del voto in assemblea.

Dette due pattuizioni, assumeva Fininvest, erano ritenute nulle anche dalla dottrina e dalla giurisprudenza più innovatrici.

A ciò si doveva aggiungere che il lodo Mondadori era impugnabile avanti la CdA di Roma in quanto anche nell’arbitrato rituale di equità erano conoscibili le questioni relative alla nullità per contrarietà a norme di ordine pubblico di pattuizioni contenute nel contratto.

Quanto all’asserito straripamento della Corte dai suoi poteri decisori per avere irritualmente rilevato un vizio di motivazione del lodo, tra l'altro non espressamente dedotto da parte appellante Formenton con la citazione in appello, tale censura, a parere della convenuta, era insussistente, perché i Formenton avevano ritualmente dedotto il vizio di motivazione ritenuto dalla Corte alle pagine 29-30 (doc. 27 Fininvest) della loro impugnazione, formulando il loro secondo motivo, che era così intitolato: "Nullità

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del lodo per violazione di norme di ordine pubblico in materia di limiti ai sindacati azionari di voto" e, nel titolo del paragrafo, poi aggiungeva "nullità per violazione dell'art. 823 in relazione all'art. 829 n. 5) CPC".

La Corte di Appello aveva poi adeguatamente confutato il convincimento degli arbitri secondo cui i patti di sindacato erano scindibili dal resto della convenzione e tale confutazione era stata condivisa da autorevole dottrina.

Fininvest, ancora, negava qualsiasi irritualità nella assegnazione della causa al consigliere Metta e riteneva irricevibili le considerazioni di controparte sulla gravosità del ruolo gestito da detto consigliere, sul celere deposito della sentenza e sulle cosiddette rivelazioni del Presidente della Consob.

Altrettanto infondate erano le valutazioni di controparte sui rapporti fra Cesare Previti e Vittorio Metta e sulle ipotetiche movimentazioni finanziarie tra Previti, Acampora, Pacifico e Metta.

Quanto al preteso danno da perdita di “chance”, Fininvest ribadiva la formazione del giudicato sulla sentenza Metta. In secondo luogo, evidenziava che CIR non aveva ottemperato al suo onere della prova, in quanto giurisprudenza e dottrina, nel 1991, erano assolutamente prevalenti nell’affermare la nullità dei patti di sindacato del tipo di quelli sopra evidenziati, con la conseguenza che CIR non aveva alcuna concreta possibilità di ottenere una sentenza a sé favorevole.

Inoltre, la “chance” era stata in concreto rinunciata da CIR, abbandonando il ricorso che avrebbe potuto coltivare in Cassazione.

Infine, CIR nessuna “chance” aveva, stante il fatto che gli altri due componenti del collegio erano già orientati nel senso di accogliere le ragioni di Formenton e Fininvest sopra prospettate, come emergeva dalle dichiarazioni degli stessi, rese avanti il giudice penale.

Fininvest, da ultimo, riteneva che fossero inapplicabili alla fattispecie gli articoli 1440 e 1337 CC.

Conseguente era la mancanza di danno, a qualsiasi titolo preteso da CIR in ragione della presente vicenda.

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LE RAGIONI DELLA SENTENZA DI PRIMO GRADO

Il giudice di primo grado prendeva in considerazione tutte le domande ed eccezioni proposte e, con sentenza 11786/2009 del 3.10.2009, definitivamente pronunciando, dichiarava che l'attrice CIR - Compagnie Industriali Riunite spa, in persona del suo legale rappresentante pro tempore, aveva diritto, per l'insieme dei fatti ritenuti in motivazione, al risarcimento da parte di Fininvest- Finanziaria di Investimento, spa, in persona del suo legale rappresentante pro tempore, del danno patrimoniale da perdita di “chance” di un giudizio imparziale e per l'effetto condannava la convenuta, per il titolo risarcitorio dedotto in giudizio, al pagamento della somma di € 749.955.611,93, oltre ad interessi legali su tale importo dal dì della pronuncia al saldo; condannava inoltre la convenuta al risarcimento dei danni non patrimoniali sopportati dall'attrice per l’effetto della predetta perdita di “chance”, riservando la liquidazione di essi ad altro giudizio; condannava la convenuta alla rifusione in favore dell'attrice delle spese del giudizio, che liquidava in € 981,80 per anticipazioni, € 6.394,86 per spese, € 16.148,00 per diritti ed € 2.000.000,00 (duemilioni) per onorari, oltre alle spese generali pari al 12,50 % di diritti ed onorari ed IVA e cpa come per legge.

Questa Corte non può esimersi dal riportare in questa sede, pur se in sintesi, le motivazioni testuali che hanno giustificato le conclusioni alle quali è pervenuto il giudice di prima istanza: tale esposizione costituisce, infatti, il presupposto ineludibile per comprendere e meglio valutare nel dettaglio le doglianze che entrambe le parti hanno qui svolto.

Preliminarmente, il giudice di prime cure affrontava il problema della improponibilità della domanda attorea per preclusione da precedente transazione avvenuta in data 29.4.1991 ed all’esito della quale CIR aveva rinunciato al ricorso avanti la SC di Cassazione e Fininvest aveva accettato la rinuncia.

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Sul punto, si poneva in luce che la clausola 11 dell’accordo transattivo prevedeva che: "con la conclusione e subordinatamente alla puntuale esecuzione dei presenti accordi le parti tutte, anche in rappresentanza dei rispettivi Gruppi, Società e famiglie, dichiarano di nulla avere più a reciprocamente pretendere in relazione a tutte le vicende formanti oggetto delle varie procedure contenziose e arbitrali in atto nonché in relazione a tutti i contratti, accordi, impegni fra esse (o fra talune di esse) stipulati relativi e/o connessi alle rispettive partecipazioni in AME o AMEF, e che con la firma della presente scrittura si intendono consensualmente risolti, e di nulla avere più a contestarsi l’un l'altra - in qualsiasi sede, e con qualsiasi mezzo – con riferimento alle parti e ai rispettivi gruppi".

Il problema era, dunque, di verificare se la lite portata in giudizio si identificasse o meno con le questioni litigiose materia di transazione. La risposta del primo giudice era negativa: infatti, rispetto al testualmente riportato oggetto della transazione, l'oggetto dedotto in causa era diverso, riguardando pretese di CIR che, a differenza delle questioni transatte, palesemente pretese “ex contractu”, basate cioè su rapporti contrattuali fra le parti (il patto di sindacato AMEF del 1986, il contratto CIR-Formenton del 1988), avevano invece natura extracontrattuale e si basavano su una fattispecie complessa, produttiva di danno a carico di CIR; elementi chiave della fattispecie complessa che fondava la pretesa di CIR erano la corruzione del giudice Metta consumata dai soggetti del cui operato Fininvest avrebbe dovuto rispondere e il conseguente indebolimento della posizione negoziale di CIR al tavolo transattivo. Del resto, era comunque assurdo, osservava il Tribunale, pensare che CIR avesse voluto transigere pretese su un fatto di cui all’epoca neppure aveva avuto la percezione (in proposito si faceva riferimento a Cass. 29.8.1995 n. 9101 e 5.8.1997 n. 7215).

Inoltre, evidenziava il Tribunale che CIR non aveva a disposizione alcun rimedio contrattuale, a fronte dell’illecito, in quanto la transazione, come ogni altro tipo contrattuale, poteva essere annullata per errore, violenza o dolo, ma tali fattispecie non ricorrevano nel caso in esame. Neppure sussisteva l’ipotesi della pretesa temeraria di cui all’articolo 1971 CC. Era giocoforza, dunque, fare riferimento all’ipotesi di cui

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all’articolo 2043 CC, fondata sulla corruzione del giudice Metta e proprio la transazione indicava i termini economici della misura del danno sofferto.

Il Tribunale dava atto della “vicinanza” della “causa petendi” azionata (art 2043 CC) con l’ipotesi di cui all’articolo 1440 CC, dalla quale peraltro era distinta, ma che costituiva anch’essa una ipotesi di responsablità aquiliana (Cass. n. 2798/1990).

Procedeva quindi a considerare l’eccezione di Fininvest di improponibilità della domanda attorea per precedente giudicato, tenuto conto del fatto che CIR aveva rinunciato al ricorso per Cassazione e la sentenza della CdA di Roma era passata in cosa giudicata.

Sul punto, il giudice di prime cure considerava che, anche a voler prescindere dal fatto che il giudicato fosse stato superato dall’atto transattivo che aveva ridefinito il regolamento degli interessi, l’oggetto della presente causa non si identificava con quello della causa avanti la Corte romana che, anzi, era uno degli elementi costitutivi della ingiustizia lamentata da CIR.

Evidenziava che in giurisprudenza si conoscevano già ipotesi nelle quali la cosa giudicata non ostava ad un ulteriore giudizio che la presupponesse: era il caso di un avvocato negligente, il quale non impugnava la sentenza con ciò cagionando danno al suo assistito: in questa ipotesi il risarcimento del danno doveva conseguire se l’appello proposto avesse dato significative “chances” di vittoria e questo comportava la necessità di sottoporre ad “esame critico” la sentenza.

Il primo giudice, poi, prendeva in considerazione l’eccezione di Fininvest di estinzione per prescrizione del diritto attoreo nel termine di cinque anni. Considerava che l’articolo 2947 CC prevede che se il fatto illecito costituisce reato per il quale è stabilito un termine prescrizionale più lungo, detto termine vale anche per la prescrizione del risarcimento del danno. Orbene, in data 5.11.1999 il Procuratore della Repubblica di Milano aveva chiesto il rinvio a giudizio di Silvio Berlusconi, Cesare Previti, Giovanni Acampora, Attilio Pacifico e Vittorio Metta per il reato di corruzione in atti giudiziari, di cui all'art. 319 ter CP, punibile con la pena della reclusione fino a 8 anni. L'art. 157 CP disponeva, allora (non essendo rilevanti i successivi provvedimenti normativi che avevano abbreviato i

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termini di prescrizione dei reati) che "la prescrizione estingue il reato... in dieci anni, se si tratta di delitto per cui la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore a cinque anni".

Ne conseguiva che il termine di prescrizione del diritto attoreo era pari a dieci anni. Detto termine si applicava anche se l'azione civile veniva proposta nei confronti non degli autori del reato, ma di chi del reato doveva rispondere a titolo di responsabilità indiretta ed anche se il responsabile civile fosse rimasto estraneo al processo penale (Cass. n. 12357 del 9.10.2001), come era il caso di Fininvest.

In riferimento alla norma di cui all'art. 2935 CC, la giurisprudenza aveva affermato che, per il diritto risarcitorio da fatto illecito, “la prescrizione non comincia a decorrere da quando l'evento dannoso si sia prodotto dal punto di vista naturalistico e fenomenico, bensì da quando il danneggiato possa venire a conoscenza del danno e della sua derivazione causale da un fatto illecito con tutte le caratteristiche rilevanti, che rendono ingiusto il danno sofferto per effetto di un comportamento, doloso o colposo, del terzo” (tra le altre Cass. n. 2645 del 21.02.2003): CIR aveva avuto una conoscenza concreta ed ufficiale della vicenda corruttiva da quando il Procuratore della Repubblica di Milano le aveva notificato, in quanto parte offesa, la richiesta di rinvio a giudizio dei predetti imputati per l’indicato reato, e cioè dal 15.12.1999 (doc. D 16 CIR); prima di allora CIR aveva avuto solo "voci” sulla corruzione dei giudici della Corte d'Appello di Roma, ma non aveva avuto una conoscenza concretamente azionabile della vicenda corruttiva.

In data 28.2.2000, CIR si era costituita parte civile nel procedimento penale contro i predetti imputati e, ciò facendo, aveva proposto domanda risarcitoria nei confronti di soggetti rispetto ai quali Fininvest era responsabile civile. Pertanto, CIR aveva interrotto la prescrizione nei confronti di soggetti obbligati in solido con Fininvest per il risarcimento del danno e con ciò, in base alla norma di cui all'art. 1310 CC, aveva interrotto la prescrizione anche nei confronti della convenuta che, alla stregua della prospettazione attorea, era obbligata in solido con gli imputati per il risarcimento dei danni derivati dalla corruzione del giudice Metta.

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Tutte le eccezioni preliminari di Fininvest dovevano quindi essere respinte.

Il Tribunale, poi, prendeva in considerazione il problema dei rapporti fra il presente giudizio civile ed il giudicato penale di condanna degli imputati.

Evidenziava che il giudizio di responsabilità penale per la vicenda corruttiva era divenuto irrevocabile a seguito del rigetto del ricorso per cassazione proposto dagli imputati contro la sentenza n. 737/2007 della Corte di Appello di Milano che, in sede di rinvio, aveva sostanzialmente confermato il giudizio di responsabilità penale contenuto nella sentenza di primo grado, n. 4688 del 2003 del Tribunale di Milano (nda: revocando peraltro la condanna degli imputati al risarcimento in favore di CIR del danno liquidato in euro 380.000.000 – trecentoottantamilioni - e pronunciando una semplice condanna generica ai danni patrimoniali e non patrimoniali).

Peraltro il Tribunale evidenziava che giustamente Fininvest aveva contestato che tale giudizio potesse fare stato nei suoi confronti nella presente causa, alla luce del principio di cui all’articolo 651 CPP ("La sentenza irrevocabile di condanna pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e dell'affermazione che l'imputato lo ha commesso, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei confronti del condannato e del responsabile civile che sia stato citato ovvero che sia intervenuto nel processo penale").

Non essendo stata Fininvest citata nel giudizio penale, né essendo essa intervenuta nel medesimo come responsabile civile, il giudicato penale di condanna nei confronti della convenuta non poteva fare stato nel procedimento civile; il Tribunale doveva quindi procedere ad un autonomo giudizio sulla sussistenza della vicenda corruttiva e sulla responsabilità degli imputati già condannati in sede penale.

Peraltro, la giurisprudenza di legittimità era costante nel consentire al giudice civile di utilizzare atti e documenti del giudizio penale svoltosi fra le stesse o fra altre parti, imponendo però al giudice civile di procedere ad una autonoma valutazione degli

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stessi. Inoltre, potevano essere utilizzate anche le sentenze penali prodotte dalle parti, ma queste non potevano valere come provvedimenti giudiziali contenenti un giudizio, bensì solo come documenti che accertavano fatti storici.

Infine, sul punto, il giudice di prime cure dava atto del fatto che la convenuta aveva eccepito l'inutilizzabilità nella presente causa delle dichiarazioni rese nel procedimento penale dall'ing. Carlo De Benedetti, in quanto legale rappresentante di CIR. Il Tribunale rigettava però l’eccezione, ritenendo che la dichiarazione fosse stata ritualmente resa in sede penale e costituisse un fatto storico dal quale non si poteva prescindere.

Il giudice di prime cure ricostruiva quindi autonomamente la vicenda corruttiva del lodo Mondadori evidenziando le anomalie della sentenza della CdA di Roma n. 259/1991, a partire dalla designazione del consigliere Metta quale relatore della causa, esaminando le tabelle vigenti presso la Corte, evidenziando i criteri di automaticità delle assegnazioni ed analizzando le dichiarazioni rese in sede penale dall’avvocato Ripa di Meana (ud. 8.2.2002 – doc F 4 CIR pagg 30 segg.), da Carlo Sammarco, allora Primo Presidente della Corte di Appello di Roma (ud. 14.6.2002 do F 20 CIR - pagg 120 segg.), da Arnaldo Valente, Presidente della Prima Sezione Civile della Corte (ud. presso la Cda di Milano del 24.3.2005 doc 77 Fininvest pagg. 13 segg.), fatti riscontrati anche da Vittorio Metta nel corso dell’esame incrociato da lui reso durante il dibattimento in appello nelle udienze del 21.3./24.3.2005 (doc 77 Fininvest – pagg 19 segg.).

Il giudice di prime cure riscontrava che Vittorio Metta, negli anni 1990 – 1991, era stato designato per la contemporanea trattazione della “difficilissima e pesantissima” causa IMI - SIR; era stato titolare della gravosa causa relativa all'impugnazione del lodo arbitrale Comune di Fiuggi - Terme di Fiuggi; era gravato dall'incarico di segretario della Presidenza della Corte, che gli toglieva la disponibilità di molto tempo; era titolare di alcuni altri delicatissimi procedimenti, quali la causa relativa al fallimento personale Caltagirone e un’altra causa molto gravosa - non meglio identificata, ma di cui aveva parlato il Presidente Valente nella citata deposizione - relativa all'azione di danno proposta per decine di miliardi da alcuni risparmiatori

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contro una banca. Metta era inoltre costantemente in ritardo nel deposito delle sentenze, nonostante il fatto che, come risultava dalla deposizione Valente, fosse titolare di un ruolo molto ridotto di cause.

Anomalie, a detta del Tribunale, presentavano poi i tempi di stesura e dattiloscrittura della sentenza che, “smentendo la fama di ritardatario del Metta”, era stata decisa nella camera di consiglio del 14.1.1991 ed era stata depositata il successivo 24.1.1991. La minuta della sentenza (167 pagine per 27 righe ciascuna) era stata depositata addirittura il 15.1.1991 (doc G 9 CIR e dichiarazioni rese dal cancelliere dott Vincenzo Treglia il 8.3.2002 – doc F 12 CIR).

Era emerso come punto fermo dall’esame degli atti del processo penale che Vittorio Metta si era presentato in camera di consiglio senza alcuna relazione, bozza o appunti scritti (deposizione Giovanni Paolini ud. 25.2.2002 doc F 10 CIR – pagg 86 segg.) ed era uso scrivere esclusivamente a mano (dichiarazioni Metta ud 21.3.2005 – doc 78 Fininvest pag 151). Ciò nonostante, nessun collaboratore di cancelleria, ed in particolare la signora Gabriella Bruni, ricordava di avere provveduto a dattiloscrivere la sentenza. Il Tribunale Penale aveva condotto sul punto un'amplissima istruttoria dibattimentale, sentendo come testi le altre colleghe della Bruni, addette allora alla Presidenza della Corte (Agnese Cherubini, Natalina Vattolo, Irene Servadei, Anna Maria Pippoletti, Emma Greco), riportando nella sentenza n. 4688/2003 il contenuto delle varie testimonianze (alle pagg. 203 segg.) assunte all'udienza dell'8.3.2002, durante la quale era emerso che tutte le segretarie avevano un compito preciso presso la Presidenza della Corte, diverso da quello della dattiloscrittura di sentenze per i consiglieri, che era per loro un compito supplementare, cui si dedicavano nei ritagli di tempo; era emerso, inoltre, che, sentite tutte dal PM nel 1998, le predette avevano parlato tra loro, come affermato dalla Cherubini, ma nessuna ricordava di avere scritto la lunga sentenza sul lodo Mondadori, né, prima della camera di consiglio, la parte introduttiva dell’atto; era risultato, poi, che la Bruni aveva ribadito di non ricordare quella particolare minuta, né risultava avere svolto lavoro straordinario dal

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14.01.199.1 al 24.01.1991 (vedi certificazione della Corte d'Appello di Roma del 16.10.1998 a doc. G7CIR).

Dagli atti del Tribunale penale risultava inoltre che la Servadei aveva ricordato di avere scritto varie sentenze di consiglieri ma, non avendo tempo, solo sentenze brevi, non complesse; che la Vattolo aveva affermato con certezza di non avere dattiloscritto la sentenza sul lodo o parte di essa, pur rammentando che giornalisti ed avvocati avevano chiesto insistentemente informazioni su di essa; che la Greco aveva ricordato di avere dattiloscritto sentenze nei tempi morti o di estate, ma mai per Metta; che la Pippoletti aveva affermato di avere copiato poche sentenze, redatte da Silvestri e non da Metta; che la Cherubini, che aveva presente la sentenza Imi-Sir essendo insorto, nell'assemblaggio tra le parti scritte da lei e quelle battute dalla Bruni, un problema tecnico, aveva dichiarato di non avere alcun ricordo della sentenza sul lodo o di un periodo di lavoro dedicato solo alla dattiloscrittura di una sentenza, compito che svolgeva solo nei tempi morti rispetto all'attività del Consiglio Giudiziario e che, comunque, un provvedimento così lungo si sarebbe potuto scrivere in tempi così brevi solo dedicandovisi, unitamente alla Bruni, a tempo pieno.

Aggiungeva il giudice di prime cure che il Metta, nel corso del suo esame al dibattimento d'appello nelle udienze del 21.3.2005 e 24.3.2005 (docc. 78 e 79 Fininvest), aveva svolto alcune importanti precisazioni sul punto: il suo referente presso la Presidenza della Corte di Appello era la Bruni, ma non era affatto da escludersi che quest'ultima fosse stata coadiuvata nella battitura della sentenza “de qua” da altre sue colleghe: egli, in generale, affidava il compito alla Bruni, ma poi era quest'ultima a fare in modo che la sentenza venisse battuta; egli aveva già predisposto prima della camera di consiglio la intestazione e la parte espositiva della sentenza, parti che erano state dattiloscritte prima della stessa camera di consiglio; le macchine da scrivere allora in dotazione della Presidenza erano a "videoscrittura" e quindi consentivano a più dattilografe la battitura di diverse parti di uno stesso documento, che potevano poi essere assemblate.

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Peraltro, anche con queste ultime precisazioni, riteneva il Tribunale che fosse rimasto provato in termini di totale e tranquillizzante certezza che la sentenza sul lodo Mondadori non fosse stata dattiloscritta presso la Presidenza della Corte.

A ciò si doveva aggiungere che gli esiti della sentenza erano stati oggetto di anticipazioni, come aveva appreso Vittorio Ripa di Meana (doc F 4 CIR), allora avvocato di CIR, da Bruno Pazzi, allora Presidente della Consob, presso il quale si era recato prima della pubblicazione della sentenza. Benché quest’ultimo nelle dichiarazioni rese il 22.12.1997 e in data 30.1.1998 (docc 62 e 63 Fininvest) avesse disconosciuto la circostanza, il giudice di prime cure - così come il Tribunale Penale di Milano con sentenza 4688/2003 e la CdA di Milano con sentenza 737/2007- aveva ritenuto credibile la versione di Ripa di Meana in quanto il Pazzi “aveva negato troppo”, avendo riferito, essendo egli presidente di Consob, di non rammentare neppure gli esiti della “guerra di Segrate”. Inoltre, le dichiarazioni di Ripa di Meana avevano trovato riscontro nelle testimonianze di Corrado Passera ed Emilio Fossati, all’epoca legati a CIR, ma con percorsi professionali resisi poi autonomi, all’udienza dell’8.2.2002 (docc F 6 e F 25 CIR).

Concludeva quindi il giudice di prime cure che, ciò posto, appariva evidente che se, come il teste Paolini aveva riferito al dibattimento in primo grado ( doc. F 10 CIR), il Collegio composto da Valente, Metta e lo stesso Paolini non aveva fatto pre-camere di consiglio per decidere la causa lodo Mondadori, che era stata quindi posta in decisione nella sua completezza nella camera di consiglio del 14.1.1991, l'unico membro del collegio che poteva esternare o confidare qualche anticipazione sulla decisione di cui trattavasi, per avere cognizione della causa già prima della camera di consiglio, non poteva essere che il Metta, che aveva già, quantomeno in parte, studiato gli atti del procedimento. Pertanto, la circostanza dell’anticipazione della decisione doveva essere considerata dal Tribunale come un’ulteriore anomalia dell'iter decisionale della causa medesima.

Infine, il giudice “a quo” prendeva in considerazione la esistenza di copie diverse dall’originale della sentenza della Corte di Appello di Roma, come attestato dalla

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motivazione del Tribunale Penale di Milano con congrua sentenza 4688/2003 alle pagine da 207 a 217, riprese dalla Cda di Milano, con sentenza 737/2007.

Ciò detto in ordine alla ritenuta irritualità della sentenza 259/1991 della CdA di Roma, il giudice di prime cure la riteneva intrinsecamente ingiusta.

Infatti, per quanto atteneva al lodo arbitrale del 20 giugno 1990 (lodo Pratis) puntualizzava che la decisione, rigettata l’eccezione di nullità delle convenzione CIR- Formenton 21.12.1988 proposta da questi ultimi (Formenton) e la domanda subordinata della stessa parte di declaratoria di risoluzione della stessa per fatto e colpa di CIR, aveva ritenuto l’obbligo dei Formenton di trasferire entro il 30.1.1991 a CIR le 13.700.000 azioni ordinarie AMEF promesse in permuta verso il corrispettivo del trasferimento ai Formenton di 6.350.000 azioni ordinarie Mondadori da parte di CIR.

Per giungere a tali conclusioni il Collegio arbitrale aveva valutato la validità dei patti di sindacato, ed in particolare di quelli azionari di voto stipulati da più azionisti per precostituire il voto da esprimere nelle diverse sedi sociali. Al riguardo, aveva osservato che la tradizionale posizione dottrinale e giurisprudenziale contraria a detti patti, di cui aveva affermato la nullità, ed ispirata alla indissociabilità del voto dalla titolarità dell'azione, era ormai superata anche a livello normativo (vedi in particolare artt. 2352, 2347 e 2533 CC nel testo allora vigente, che, ad esempio, nel caso di pegno o usufrutto di azioni, prevedevano il diritto di voto da parte del creditore pignoratizio o dell'usufruttuario in luogo del proprietario delle azioni medesime).

Inoltre, secondo il Collegio arbitrale, era da ritenere superata l'opinione secondo la quale i sindacati azionari di voto erano invalidi perché stabilivano un previo concerto o una previa decisione circa il voto da esprimersi in assemblea, mentre solo in quest'ultima doveva formarsi la volontà del socio: si reputava che l'evoluzione, anche normativa, era nel senso di ritenere che nell'assemblea sociale dovesse aversi l'espressione del voto, la cui determinazione poteva essere assunta anche in sede estranea all'assemblea.

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Il Collegio, poi, prendeva atto del fatto che, mentre il tradizionale insegnamento sulla nullità dei patti in questione si era formato, a partire da un'epoca addirittura anteriore al codice civile 1942, con riferimento a società di piccole dimensioni, nelle quali l'elemento personale era dotato di una forte visibilità, la realtà economica ed industriale del Paese era andata evolvendosi verso la creazione di società commerciali di grandissime dimensioni, il cui capitale era disseminato tra molti azionisti, sicché era giocoforza che si creassero dei gruppi di azionariato stabile (il c.d. capitale di comando), i quali provvedessero non solo alla gestione, ma anche alla programmazione e progettazione dell'attività di impresa.

Così si spiegava il fatto che lo stesso Legislatore avesse in tempi relativamente recenti disciplinato normativamente i patti di sindacato azionari, come era avvenuto nel caso della legge 5.8.1981 n. 416, che disponeva l'obbligo della comunicazione dei sindacati di voto al servizio per l'editoria (ovviamente nel caso di patti relativi a società editrici): sarebbe stato un non senso che il Legislatore avesse contemplato i patti di sindacato se essi fossero stati ancora vietati in ogni caso. Più realistico era ritenere che il Legislatore avesse preso atto della esistenza dei patti, normativamente disciplinandoli, ma lasciando impregiudicato il problema della loro liceità e validità; la questione avrebbe dovuto essere risolta attraverso l'esame, da condursi caso per caso, delle pattuizioni: si doveva avere come punto di riferimento il criterio per il quale erano certamente nulli solo i patti che comportavano uno svuotamento permanente delle funzioni e delle competenze dell'assemblea dei soci con la soppressione della libertà di voto, soprattutto quando tali patti consentivano che il voto potesse esprimersi in contrasto con l'interesse sociale.

In base a detti principi, il Collegio arbitrale aveva osservato che la dottrina e la giurisprudenza più recenti erano nel senso di ritenere la validità dei patti di sindacato che fossero concordati per periodi di tempo limitati e per oggetti definiti e ristretti, in modo che non fossero pregiudicate per lungo tempo le funzioni e le competenze degli organi sociali.

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Sulla base di tali principi il Collegio arbitrale riteneva la piena validità dei patti azionari contenuti nella convenzione CIR - Formenton.

Infatti, quelli contenuti nell'art. 2 della convenzione erano stati previsti dalle parti in vista della scadenza della convenzione AMEF del 6.1.1986 e quindi avevano una durata limitata (fino al 31.12.1990). Detta clausola, di cui all'art 2, stabiliva un regime che nella previsione delle parti era quindi destinato a dissolversi al momento in cui (31.12.1990) il patto di sindacato AMEF sarebbe cessato ed avrebbe avuto esecuzione la promessa di permuta, di cui all'art. 3 della convenzione, con la possibilità del controllo di AMEF, e quindi della Mondadori, da parte di CIR: il patto di cui all'art. 2 era, pertanto, essenzialmente temporaneo ed era quindi scindibile dalle clausole dell’art.5, che prevedevano il congegno pattizio a "regime", e cioè per i 5 anni di gestione delle società successivi alla permuta.

La clausola di cui all'art 2 veniva ritenuta, in ragione della sua temporaneità, valida per le stesse ragioni per cui lo era la clausola di cui all'art. 5. In proposito, il Collegio arbitrale, considerato che l'art. 5 richiamava in parte la disciplina pattizia prevista dalla clausola 2 ( vedi convenzione 21.12.1988 – doc. Cl CIR), osservava che anche le previsioni dell'art. 5 e dell’art. 2, nella parte in cui era richiamato, fossero valide per le ragioni di seguito sintetizzate. Innanzitutto, la convenzione CIR - Formenton era contenuta entro limiti di tempo (cinque anni) e di oggetto. Inoltre, dallo stesso patto i Formenton potevano liberarsi con un preavviso di sei mesi (art. 5, comma 8), mentre CIR poteva sciogliersi dalla sua partecipazione azionaria, cedendola, solo reperendo un acquirente che fosse disposto ad acquistare la partecipazione azionaria dei Formenton alle stesse condizioni. Anche l’oggetto, e cioè le delibere per cui vigeva il sindacato, era circoscritto. Infatti le delibere, di cui alle lettere c), d), e) f) e g) dell'elenco di cui all'art 2, richiamate dall'art.5, erano estranee alla competenza dell'assemblea ordinaria ed interessavano materie di competenza dell'assemblea straordinaria, di rara verificazione; delibere che nel corso del quinquennio (o della più breve durata della convenzione) verosimilmente non sarebbero ricorse e che, in ogni caso, non erano necessarie alla gestione ordinaria di una società.

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Il Collegio, inoltre, metteva in evidenza il carattere meramente obbligatorio delle pattuizioni che la convenzione conteneva, nel senso che essa obbligava solo le due parti contraenti fra loro ed in nessun modo influiva sulla struttura ed il funzionamento delle società. Infatti, era vero che le parti si obbligavano a consegnare le azioni sindacate ad una società fiduciaria, la Plurifid, ma questa avrebbe potuto esprimere il voto in assemblea solo a seguito di "indicazioni congiunte" dei paciscenti, nessuno dei quali veniva ad essere espropriato del suo diritto di voto e della influenza determinante di questo: infatti, in caso di difetto di indicazioni congiunte, e cioè della concorde espressione della decisione da parte dei due contraenti, la società fiduciaria avrebbe dovuto astenersi dal voto. Non ricorreva pertanto, secondo il Collegio arbitrale, una ipotesi di sindacato di voto ad efficacia c.d. reale.

Il Collegio arbitrale considerava poi che tutta la "ratio" del patto stava nell'intento delle parti di attribuire garanzie alla famiglia Formenton nel quinquennio successivo alla esecuzione della permuta; infatti, CIR avrebbe avuto oltre il 50,01 % delle azioni ordinarie AMEF, e quindi il controllo tanto di quest'ultima come della Mondadori, mentre alla famiglia Formenton sarebbe rimasto circa il 10 % delle azioni ordinarie Mondadori: i patti conferivano ai Formenton dei poteri di decisione e di governo delle società superiori a quelli che costoro avrebbero avuto senza la stessa convenzione.

Pertanto, il Collegio arbitrale ravvisava la piena validità dei patti di sindacato contenuti agli artt. 2 e 5 della convenzione 21.12.1988.

Ma anche qualora si fosse ritenuto che taluna di quelle pattuizioni fosse nulla, ciò che nel convincimento del Collegio non era, bisognava ritenere che detti patti di sindacato fossero scindibili dal resto della convenzione, e segnatamente dall'art. 3 che stabiliva la promessa di permuta, dato che, in una valutazione complessiva delle singole condizioni contrattuali da condursi con particolare rigore ed analisi critica, era da ritenere che, per il carattere non molto importante e non molto ricorrente delle delibere sociali cui i patti di sindacato stessi si riferivano, le parti avrebbero stipulato le altre pattuizioni, e soprattutto la promessa di permuta, anche in difetto delle convenzioni di voto.

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Pertanto, si doveva dichiarare l'obbligo solidale dei Formenton di dare esecuzione alla promessa di permuta alla scadenza del relativo termine.

Il Collegio arbitrale, poi, respingeva la domanda subordinata di parte convenuta relativa alla risoluzione della convenzione 21.12.1988 per fatto e colpa di CIR in quanto infondata; rigettava anche la seconda domanda di CIR relativa alla pronuncia ex art. 2932 CC di trasferimento delle azioni reciprocamente promesse in permuta, perché non era scaduto il relativo termine del30.01.1991.

Il giudice di prime cure procedeva quindi alla analisi della sentenza della Corte di Appello di Roma, che era giunta a conclusioni opposte a quelle del lodo Pratis.

Infatti, in relazione al problema della validità dei patti di sindacato, la sentenza della Corte di Appello di Roma aveva capovolto il giudizio del lodo, ritenendo la nullità dei patti di sindacato contenuti nella convenzione 21.12.1988 e statuendo la nullità anche della promessa di permuta in ragione della ritenuta inscindibilità di questa dai patti di sindacato.

In via rescindente la sentenza di appello pronunciava la nullità del lodo perché, pur essendo “un lodo di equità, espressamente dichiarato inappellabile dalle parti, esso era pur sempre censurabile per violazione di norme di ordine pubblico e/o per vizi in procedendo”. Il lodo violava, a detta della CdA di Roma, norme di ordine pubblico e segnatamente quelle che presiedevano all'organizzazione ed al funzionamento delle società commerciali, laddove dichiarava validi patti di sindacato, che erano, invece, nulli alla luce di tali principi imperativi.

Il lodo violava, poi, le medesime norme in quanto dichiarava che la nullità dei patti di sindacato non si estendeva alle residue pattuizioni, e specificamente alla promessa di permuta, quando invece le clausole sui patti di sindacato e quella relativa alla promessa di permuta erano inscindibili per espressa volontà negoziale: riteneva quindi la CdA di Roma che la nullità dei patti di sindacato si estendesse a tutta la convenzione.

Il lodo era, infine, affetto da grave vizio “in procedendo”, consistente in difetto di motivazione, perché la decisione sulla scindibilità dei patti di sindacato dalla promessa

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di permuta era talmente lacunosa e contraddittoria da non consentire di cogliere la “ratio” della decisione medesima.

La stessa sentenza, una volta annullato il lodo per le ragioni sopra indicate, in sede rescissoria così disponeva: nel merito "rigetta tutte le domande proposte dalla CIR con i cinque quesiti di cui all'atto introduttivo del giudizio arbitrale ... e dichiara che i Signori Formenton non sono tenuti a trasferire alla CIR la proprietà di n. 13.700.000 azioni ordinarie AMEF in corrispettivo di n. 6.350.000 azioni ordinarie Mondadori di proprietà di CIR"; la pronuncia della CdA di Roma poneva poi altre statuizioni e fra esse la condanna di CIR a rifondere controparte delle spese del giudizio arbitrale ... e quelle della fase di impugnazione, liquidandole nell'importo di complessive lire 1.503.800.000 quanto alle prime e di complessive lire 3.004.560.000 quanto alle seconde.

A giustificazione della pronuncia, la CdA di Roma evidenziava che per effetto degli artt. 2 e 5 della convenzione, a CIR ed alla famiglia Formenton erano riservate rappresentanze paritetiche nei consigli di amministrazione e le relative indicazioni delle persone (art 5, primo comma); a CIR era riservata la designazione "in modo vincolante" del presidente di AMEF e di Mondadori, nonché dell'amministratore delegato della stessa Mondadori, mentre alla famiglia Formenton era lasciato il diritto di designare, sempre in modo vincolante, il vice presidente diMondadori (art. 2, terzo comma, ed art. 5, primo comma ), nel caso in cui, per qualsiasi ragione, avessero dovuto essere sostituiti uno o più amministratori di AMEF o di Mondadori: infatti, era previsto l'impegno di CIR e della famiglia Formenton "a fare quanto necessario affinchè vengano nominate, quali nuovi amministratori e/o sindaci, le persone designate di comune accordo" (art. 2, comma ottavo).

Orbene, riteneva la Corte di Appello che - secondo quanto aveva affermato la Corte Suprema nella sentenza n. 136 del 1965 che aveva ritenuto nullo ai sensi dell’articolo 1418 CC, in quanto contrario a norme imperative, ogni patto fra soci che stabilisse un assetto organizzativo e funzionale dell'organismo societario diverso da quello stabilito dal legislatore – nel caso di specie era nullo il patto con cui venivano

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predeterminati dai soci anziché dall'assemblea sociale (artt. 2364, primo comma n. 2 e 2383 CC) i criteri di nomina degli amministratori, così ledendo le prerogative sovrane di questa, riconosciutele dalla legge.

In relazione alla ingerenza nelle competenze degli organi di gestione, rilevava la CdA di Roma che il consiglio di amministrazione era stato ridotto a mero esecutore materiale di decisioni assunte dalla “compagine extrasocietaria”, mentre le competenze degli organi di gestione erano fissate da principi inderogabili sull’organizzazione delle società, ciò essendo imposto dalla necessaria tutela degli interessi di terzi che, nell'ordinamento giuridico vigente, era assicurata da sanzioni di responsabilità civile e penale di varia intensità a carico degli amministratori.

Per quanto riguardava l’obbligo di votazione in conformità delle proposte dei consigli di amministrazione, precisava la CdA di Roma che l'art. 2 della convenzione disponeva che nel caso di mancato accordo sulle materie di cui alle lettere a) e b) (e si trattava di materie certamente non irrilevanti, quali l'acquisizione e la cessione di partecipazioni, nonché gli affitti ed i contratti di gestione di aziende e/o testate ovvero la nomina e la revoca degli amministratori delle società, dei direttori generali e dei direttori delle testate giornalistiche) i contraenti non sarebbero rimasti liberi di votare in assemblea ciascuno secondo le proprie autonome determinazioni - come accadeva nel caso dei cosiddetti sindacati all'unanimità, che la giurisprudenza riteneva validi - ma avrebbero dovuto attenersi alle indicazioni formulate dai consigli di amministrazione. Orbene, aveva ritenuto la Corte di Appello di Roma che, pur non constando precedenti giurisprudenziali sul punto, la dottrina era unanime nel riconoscere l'illiceità di una convenzione siffatta, non fosse altro che per evitare che gli amministratori abusassero del loro potere.

Riteneva poi la Corte di Appello che il quadro di più evidente, incontestabile e radicale nullità si definisse ulteriormente ed irreparabilmente con l'esame dell'art. 2, dodicesimo comma, e dell'art. 5, sesto comma, della convenzione. Era previsto, infatti, che, nel caso di mancato accordo sulle materie di cui alle lettere c), d) ed e) del citato art. 2 (concernenti talune ipotesi di aumento di capitale, le operazioni di fusione e le acquisizioni e cessioni di

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aziende o rami di aziende) le indicazioni vincolanti dovevano pervenire, addirittura, da un collegio di esperti, ancorché adottate indubbiamente alla luce dell'interesse sociale. In questo caso era evidente che il requisito della libera determinazione del contraente era assolutamente carente.

La condizione contrattuale affetta dalla più radicale nullità era però quella contenuta nell'art. 5, relativa, per il periodo successivo alla scadenza del patto AMEF, alla consegna delle azioni sindacate alla società fiduciaria Plurifid la quale, per le deliberazioni previste alle lettere c), d), e), f), e g) dell'art. 2 (riguardanti, queste ultime due, le modifiche dell'oggetto sociale della Mondadori, nonché gli aumenti di capitale della Mondadori con esclusione del diritto di opzione dei soci a favore di terzi estranei ai settori di attività della Mondadori stessa), avrebbe dovuto votare in assemblea secondo le istruzioni congiunte di CIR e dei Formenton o, in difetto, astenersi dal voto: detta pattuizione integrava il c.d. sindacato ad efficacia reale, nel quale il socio veniva addirittura privato del possesso delle azioni ed impedito così di esprimere il voto in assemblea.

Quanto, poi, al problema della scindibilità o inscindibilità del patto di sindacato dal resto della convenzione, e segnatamente dalla promessa di permuta, una volta affermata la nullità del patto di sindacato contenuto nella convenzione 21.12.1988, la Corte di Appello si era trovata ad affrontare il problema della estensione di detta nullità.

Orbene, sul punto è opportuno rammentare che il lodo aveva ritenuto che quando anche si fosse voluto ritenere che i patti di sindacato fossero nulli in tutto o in parte, era comunque da escludere, essenzialmente per la durata limitata e per la limitatezza dell'oggetto del patto, che detta nullità si sarebbe comunicata al resto dell'accordo negoziale, segnatamente alla promessa di permuta: ciò perché si doveva ritenere che, secondo l’interpretazione della volontà delle parti ed in una valutazione complessiva dell’economia del contratto, le parti avrebbero deciso egualmente di concludere l'accordo anche in difetto di quel patto.

La CdA di Roma riteneva, per contestare il giudizio di scindibilità espresso dagli arbitri, che la motivazione sul punto (nda: e cioè sulla “quaestio facti” rappresentata

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dalla interpretazione della volontà delle parti) era talmente contraddittoria e deficitaria da non consentire di superare il vaglio di logicità da parte del giudice di appello e da imporre a questi un giudizio di "non senso". Secondo la Corte di Appello di Roma, dunque, il Collegio arbitrale composto da tre insigni giuristi avrebbe steso una motivazione della propria decisione talmente mancante e contraddittoria, da far ritenere al consigliere Metta che essa non reggesse al confronto con la logica, al punto di non potersi ravvisare la “ratio” della decisione.

In particolare, il vizio di motivazione, che doveva ritenersi sostanzialmente assente, ad avviso dalla Corte di Appello di Roma stava nel fatto che gli arbitri “avevano dapprima indebitamente scisso le pattuizioni relative al periodo anteriore alla permuta, considerando queste ultime provvisorie e non essenziali, ma avevano gli arbitri successivamente ritenuto la scindibilità anche del patto di sindacato relativo al quinquennio successivo alla permuta sulla base della non eccessiva importanza di dette ultime pattuizioni rispetto al complesso dell'attività sociale”.

In tal modo, osservava la Corte, se prima si era proposta da parte degli arbitri una scindibilità temporale, si proponeva poi una scindibilità tematica, e ciò era una palese contraddizione.

In sostanza la Corte di Appello di Roma aveva espresso, in termini del tutto drastici, un giudizio di difetto di motivazione da parte degli arbitri.

Ordunque, puntualizzato che il controllo sulla motivazione del lodo da parte della Corte di Appello di Roma non era un controllo pieno, nel senso che la giurisprudenza di legittimità aveva affermato che la motivazione del lodo era censurabile solo ove essa fosse talmente carente o contraddittoria da impedire di coglierne la “ratio decidendi”, rilevava il giudice di prime cure che gli argomenti usati dalla CdA di Roma non trovavano riscontro alcuno nel ragionamento contenuto nel lodo, che era semplice e lineare: in sintesi, gli arbitri avevano affermato che i patti di sindacato non erano nulli perché erano delimitati nel tempo, definiti nell'oggetto, relativi a deliberazioni di rara verificazione e che presumibilmente non sarebbero occorsi nel quinquennio in questione; inoltre il patto di sindacato “de quo” aveva una particolarità: consisteva

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sostanzialmente in un accordo che tendeva ad associare una parte, che cedeva una sua rilevante partecipazione in AMEF per averne in permuta una del 10% circa del capitale di azioni ordinarie di AME, alla gestione ed alle decisioni delle società con poteri che, senza detto patto, la parte in questione non avrebbe avuto, dal momento che l'altra parte (CIR) avrebbe avuto già legittimamente il controllo sostanziale del gruppo Mondadori; gli arbitri avevano altresì affermato che detto patto di sindacato non era essenziale nell'economia della convenzione perché riguardava decisioni di rara verificazione e che, anche senza di esso, le parti ragionevolmente avrebbero concluso la permuta.

Ciò detto, che cosa vi fosse di illogico nel ragionamento che precedeva, il Tribunale non riusciva a comprendere. Ma anche a voler ritenere che l'iter argomentativo seguito dagli arbitri non fosse del tutto condivisibile, non per questo esso poteva essere definito assente o tacciato di assoluta incongruità fino al punto da rendere non rinvenibile la “ratio decidendi” del lodo medesimo.

Tali argomenti servivano al Tribunale per meglio evidenziare il punto focale della ingiustizia della sentenza della CdA di Roma perché: 1) affermava che i patti di sindacato per cui era lite erano contrari a norme di ordine pubblico, che rappresentavano principi inderogabili dell'ordinamento societario, mentre invece gli stessi patti erano compatibili con dette norme e principi; 2) affermava che le norme ed i principi dell'ordinamento che la CdA di Roma assumeva violati dai patti di sindacato avevano natura di ordine pubblico, nel senso che rilevava ai fini della impugnabilità di un lodo di equità, quando invece essi non avevano tale natura; 3) sindacava il giudizio, formulato dal lodo, di scindibilità fra patti parasociali e promessa di permuta, quando invece un tale sindacato le era precluso, essendo tra l'altro del tutto infondata la motivazione addotta a sostegno della ritenuta possibilità di sindacato; 4) riteneva che la motivazione enunciata dal lodo a fondamento del predetto giudizio di scindibilità fosse affetta da vizi così gravi da potersi equiparare ad inesistenza della motivazione stessa, quando, invece, il lodo non presentava affatto tali vizi; 5) rilevava il predetto vizio della motivazione e lo poneva a base della pronuncia di nullità del lodo, laddove

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non avrebbe avuto il potere di fare ciò, posto che tale vizio non era stato dedotto fra i motivi di nullità del lodo stesso.

Il Tribunale ripercorreva l’iter logico giuridico della sentenza 259/1991 della CdA di Roma e ne rilevava l’incongruenza anche alla stregua della giurisprudenza all’epoca vigente: riepilogava che il punto di partenza era il giudizio di nullità dei patti di sindacato, che era stato affrontato dalla Corte di Appello di Roma capovolgendo il giudizio degli arbitri; questa valutazione era all'epoca dei fatti “opinabile ed opinata”, sia in dottrina che in giurisprudenza; la Corte di Appello si era trovata poi ad affrontare il problema della estensione di questa nullità, e cioè quello della comunicazione di detto vizio anche alle residue pattuizioni della convenzione e segnatamente alla promessa di permuta.

La Corte di Appello di Roma sul punto così aveva argomentato: allorché il giudice dell'impugnazione si trovasse di fronte ad una nullità per violazione di norme inderogabili di ordine pubblico (principi inderogabili e cogenti dell'ordinamento), come, in tesi, nella fattispecie, doveva affrontare il problema della estensione e della misura del disvalore giuridico espresso da tali norme; su questo punto, l'accertamento del giudice della impugnazione del lodo non poteva non aver riguardo anche ai presupposti di fatto dell'applicazione delle norme che comminavano la nullità, e ciò al fine di stabilire i limiti e la portata reale del suo giudizio di nullità.

Questa era dunque l'interpretazione che la CdA di Roma dava del problema in esame, che poi si risolveva nell'applicare l'art. 1419 CC, il quale dispone che la nullità parziale di un contratto o la nullità di singole clausole importa la nullità dell'intero contratto se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto che è colpita dalla nullità.

In verità, osservava il giudice di prime cure, tale argomento era errato in radice: il giudizio sulla scindibilità o inscindibilità della clausola nulla dalle altre parti del negozio era sicuramente una questione di interpretazione della volontà delle parti, la quale era pacificamente una “quaestio facti”, che era appannaggio del giudice di merito, che certamente non era censurabile in cassazione se non per vizio di

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motivazione e che non poteva essere vagliata dal giudice dell’impugnazione del lodo, specie se di equità. Infatti, il Supremo Collegio aveva affermato: "a norma dell'art. 1419 CC, al fine di stabilire se la nullità di una clausola comporti la nullità dell'intero contratto ovvero sia applicabile il principio “utile per inutile non vitiatur”, la scindibilità del contenuto del contratto deve essere accertata soprattutto attraverso la valutazione della potenziale volontà delle parti in relazione all'ipotesi che nel contratto non sia inserita la clausola nulla. Questa valutazione si risolve in un apprezzamento di fatto, non suscettibile di riesame da parte della corte di Cassazione” (Cass. n. 5100 del 4.9.1980). Ed ancora: " L'art. 1419, primo comma CC, oltre a porre la regola della non estensibilità all'intero contratto della nullità che ne inficia una parte o singole clausole (“utile per inutile non vitiatur”), stabilisce in via del tutto eccezionale che la nullità di una parte o di una singola clausola del contratto si estende a questo nella sua interezza ove risulti che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto che è colpita da nullità, il che si verifica quando la nullità della parte o della clausola si riferisce ad un elemento essenziale del negozio oppure si trovi con le altre pattuizioni in tale rapporto di inscindibilità da non potersi considerare l'una senza le altre. Lo stabilire se i contraenti avrebbero o meno concluso il contratto senza la parte affetta da nullità costituisce una valutazione di fatto che è rimessa al giudice del merito ed è insindacabile in sede di legittimità, se adeguatamente motivata" (Cass. n. 2546 del 17.4.1980).

Puntualizzava ancora il giudice di prime cure che il Supremo Collegio, nella giurisprudenza all’epoca vigente, aveva infine affermato: "Già questa Corte ha ritenuto inammissibile la impugnazione per nullità del lodo che tenda soltanto ad ottenere una diversa interpretazione della volontà negoziale più favorevole alla parte che la prospetta... Poiché pertanto l'atto di impugnazione tende direttamente a sostituire una interpretazione della Corte di Appello a quella compiuta dagli arbitri, esso si fonda su una quaestio facti e non sulla violazione di regole di diritto, onde correttamente non è stato ritenuto ammissibile dalla sentenza impugnata " (Cass. n. 1288 del 15.03.1989).

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Il Tribunale riteneva quindi che, sul piano sostanziale, la questione della estensione della nullità all'intero negozio era questione di interpretazione della volontà negoziale delle parti. Per il principio di conservazione del negozio giuridico, la regola, ai sensi dell'art. 1419 CC, era quella della non estensione e della salvezza della restante parte del contratto. L'eccezione era quella della inscindibilità della parte nulla dalla restante parte. La prova dei presupposti dell’eccezione, secondo le regole generali, era onere della parte che l'allegava. Infatti, la Corte di Cassazione così pronunciava: "poiché il principio della conservazione del negozio giuridico, nell'ipotesi di nullità parziale del medesimo, costituisce la regola, mentre l'estensione all'intero contratto degli effetti di tale nullità parziale rappresenta l'eccezione (art. 1419, secondo comma, CC), costituisce onere della parte interessata all'estensione della nullità provarne i fatti costitutivi" (Cass. n. 11248 del 13.11.1997).

In definitiva, il giudice di prime cure giungeva alla seguente conclusione: la questione della estensione di una ritenuta nullità negoziale era questione di interpretazione della volontà negoziale delle parti, che costituiva una questione di fatto (questione di merito) che non solo non era censurabile in cassazione se non per difetto di motivazione, ma non era altresì censurabile davanti alla Corte di Appello in sede di impugnazione del lodo arbitrale, quanto meno nell'arbitratodiequità.

Ciò nonostante, la Corte di Appello di Roma, che era ben consapevole dei limiti dei propri poteri decisori - di fronte al principio indiscusso che in sede di arbitrato di equità il giudice d'appello poteva censurare il lodo solo per errori di diritto consistenti nella disapplicazione di norme fondamentali di ordine pubblico e, per il resto, solo per errori in procedendo - riteneva di doversi inoltrare in un giudizio di fatto, al fine di vagliare l'estensione della ritenuta nullità e di potere inoltre, sempre allo stesso scopo, vagliare la motivazione in fatto del lodo, ciò che ai sensi della riferita giurisprudenza di legittimità, corrente all’epoca, le era del tutto precluso.

Infatti la giurisprudenza della Cassazione, con orientamento poi rimasto sempre stabile, già così affermava: "la nullità del lodo arbitrale per carenza dimotivazione, ai sensi dell'art. 829 n. 5) CPC, in relazione al precedente art. 823 n. 3 CPC, è ravvisabile

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solo in presenza di una radicale mancanza delle ragioni della decisione, che non consenta di ricostruire e quindi di controllare il pensiero degli arbitri" (Cass. Sezioni Unite civili n. 2815 del 21.3.1987).

Evidenziava il giudice di prime cure che, consapevole di detto limite, la Corte di Appello di Roma si impegnava al fine di rinvenire nel lodo impugnato un vizio della motivazione così grave da non consentire al lettore di intendere la “ratio” della decisione arbitrale e da imporre, non solo un drastico quanto infondato giudizio di non senso dal punto di vista logico - giuridico, ma anche un giudizio di non riconoscibilità nel lodo stesso di un “iter” argomentativo che rispettasse la logica, intesa come conformità alle regole dell'intelletto, il che era “veramente troppo e palesava un’evidente forzatura del giudizio di impugnazione”. La motivazione del lodo sul punto era invece chiarissima e pienamente rintracciabile ed era del tutto congrua e comprensibile. Ad ogni modo, essa non poteva assolutamente essere qualificata come motivazione talmente carente e contraddittoria da non consentire la individuazione della “ratio decidendi”, cosa che la Corte di Appello di Roma aveva invece ritenuto.

A tali considerazioni il Tribunale aggiungeva anche l’ipotesi che il predetto giudizio di nullità del lodo per difetto di motivazione su una questione di merito consentisse alla Corte di Appello di Roma, in prospettiva, di tenere la sua decisione presumibilmente al riparo dalla possibilità di cassazione da parte del Supremo Collegio, dato che essa, a sua volta, avrebbe potuto essere annullata in Cassazione solo in punto di contraddittorietà ed insufficienza della motivazione sulla già vista “quaestio facti” ( art. 360 - 1° comma n. 5) CPC.

Il giudice di prime cure, ritenuta la grave ingiustizia della sentenza Metta, indizio della corruzione del giudice, prendeva, poi, in considerazione il problema della collegialità della decisione.

Non valeva a questo proposito invocare che la sentenza medesima era stata frutto della decisione collegiale di tre giudici e che, quindi, essendo gli altri due componenti pacificamente in buona fede, non poteva parlarsi di sentenza ingiusta o comunque di decisione frutto della corruzione del giudice Metta.

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Il Tribunale testualmente affermava che: ”appartiene, infatti, al notorio presso gli operatori del diritto che, nelle cause civili collegiali, il giudice relatore, che conosce bene gli atti ed ha studiato ed approfondito i problemi di fatto e giuridici inerenti la fattispecie in esame, è in una posizione tale da potere quasi sempre influenzare il resto del collegio e, soprattutto, da potere orientare la discussione in camera di consiglio verso le questioni e gli argomenti che egli intende focalizzare”.

Nel caso in esame non vi era nessun elemento che potesse far ritenere che si fosse derogato a questa regola di "notorio". Infatti il Presidente del Collegio, dott. Arnaldo Valente, sia nella sua deposizione al dibattimento penale in appello, sia nella sua deposizione innanzi al giudice “a quo”, aveva confermato di essersi preso l'onere di studiare la questione giuridica (presumibilmente della validità dei patti di sindacato, che erano problema allora molto dibattuto) su diversi testi di dottrina e giurisprudenza, ma nulla, né lui né Paolini, avevano detto circa il problema dei poteri decisori della Corte di Appello in sede di impugnazione di lodo arbitrale rituale di equità, che rappresentava il punto veramente focale della causa.

Certamente, considerava il giudice di prime cure, la camera di consiglio vi era stata e non era stata formale, ma Metta, con ogni probabilità, la aveva orientata sul tema dei patti di sindacato, la cui validità era all'epoca oltremodo dibattuta, mentre non sembrava che il Collegio fosse stato dal relatore orientato sull'esame del problema dei vizi motivazionali del lodo concretamente censurabili dai giudici di appello in quella sede.

Per quel che concerneva invece il consigliere Paolini, questi aveva riferito, sia innanzi al Tribunale penale, come davanti al giudice di prime cure, che, in sostanza, egli aveva letto gli atti regolamentari di rito (presumibilmente citazione in appello, comparsa di risposta, atto di intervento, comparse conclusionali e memorie di replica), che Metta aveva esposto le sue ragioni, che il Collegio si era convinto ed aveva pronunciato. Non vi era stata, dunque, nessuna anomalia rispetto ad una ordinaria camera di consiglio: il relatore, che era da tutti giudicato molto preparato in diritto, potè quindi fortemente influenzare la camera di consiglio.

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Risultavano pertanto soddisfatti, secondo il convincimento del Tribunale, i criteri che la Cassazione Penale già ricordata aveva posto perché si potesse ritenere che una decisione collegiale potesse essere essa stessa elemento indiziario utile per ritenere provata la sussistenza di un reato (nella specie di corruzione): infatti, le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione avevano affermato nella sentenza n. 22327 del 30.10.2002, ric. Carnevale (sentenza indicata proprio da Fininvest): "…Giova ricordare in proposito che, mentre nei giudizi monocratici è necessariamente inevitabile riferire la deliberazione esclusivamente al giudizio dell’unico magistrato deliberante, in quelli collegiali, invece, la decisione è un atto unitario, alla formazione del quale concorrono i singoli componenti del collegio in base allo stesso titolo ed agli stessi doveri: sia essa sentenza, ordinanza o decreto, non rappresenta la somma di distinte volontà e convincimenti, ma la loro sintesi operata secondo la regola maggioritaria, la quale rende la decisione impersonale e perciò imputabile al collegio nel suo insieme. Tanto comporta che allorché, in punto di contestazione accusatoria, si sostenga che una determinata decisione collegiale, anziché il prodotto di una autonoma scelta collettiva, imputabile all'organo collegiale nel suo complesso, rappresenti invece il risultato raggiunto attraverso l'alterazione del regolare procedimento formativo della volontà collegiale, addebitabile ad un singolo soggetto, occorre fornire prova rigorosa di una condotta, da parte di quest'ultimo, se non di vera e propria coartazione e prevaricazione, almeno di concreto condizionamento esercitato sulla volontà dei componenti del collegio o di qualcuno di essi, che si siano perciò orientati ad operare proprio in funzione di quell'illecito intervento...".

Facendo applicazione di tali criteri, il Tribunale osservava come una anomalia certamente fosse presente nella decisione della Corte di Appello di Roma e che essa era rappresentata dall'avere il Collegio ritenuto censurabile un vizio di motivazione del lodo, che invece non era rilevante in sede di impugnazione del lodo stesso.

Che tale vizio, che rendeva anomala la sentenza Metta, fosse stato frutto dell'impostazione data dal relatore alla discussione in camera consiglio, era assai

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probabile; in questo senso poteva senz’altro dirsi che vi era stato un concreto condizionamento del relatore sul collegio: realisticamente, questi aveva potuto, di fatto, orientare la discussione e focalizzare l'attenzione dei colleghi sui temi da lui ritenuti più importanti.

Del resto, il giudice di prime cure sottolineava il regime probatorio meno garantistico del giudizio civile rispetto al processo penale: se nel giudizio penale i fatti che costituiscono il fondamento dell’affermazione di responsabilità devono essere provati "al di là di ogni ragionevole dubbio", la regola che stabilisce la soglia probatoria necessaria per un giudizio di responsabilità civile è quella "del più probabile che non": secondo il criterio di valutazione della prova proprio del giudizio civile poteva dirsi che era assai probabile che Metta, il quale era magistrato molto preparato in diritto, avesse concretamente condizionato il collegio, orientando la discussione nel senso da lui ritenuto più utile.

Tanto bastava, a giudizio del Tribunale, per ritenere provato ai fini risarcitori non solo che la sentenza n. 259/1991 era ingiusta, ma che detta ingiustizia era stata frutto della corruzione del giudice Metta.

Riteneva peraltro il Tribunale di dovere mettere in luce la patologia della sentenza n. 259/1991 della Corte di Appello di Roma sotto un altro profilo, che era stato significativamente posto in evidenza dalla Cassazione penale (sent. n. 35525 del 16.05.2007): "la presenza di un componente dell'organo giurisdizionale privo del requisito di imparzialità perché partecipe di un accordo corruttivo che lo delegittima, in radice, dalla funzione, infirma la validità dell'intero iter decisionale, per sua natura dialettico e sinergico. In sostanza in quel collegio non sedeva un giudice, quanto piuttosto una parte, in violazione, non di un generico precetto di legge, ma della stessa Grundnorm della giurisdizione, che costituisce il fondamento etico-giuridico del suo esercizio, consentendo alla collettività di accettare perfino l'eventuale erroneità o ingiustizia sostanziale delle sentenze emesse. In tesi generale, tale è l'effetto inquinante del vizio di costituzione del giudice - dovendosi assimilare, sotto questo profilo, l'ipotesi del giudice corrotto (patologia, fortunatamente rarissima) a quella del non giudice per vizi di nomina - che il

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difetto di legittimazione invalida, per giurisprudenza costante, l’atto giudiziario emanato..."; proseguiva più oltre il Supremo Collegio: "in ogni caso spetterà al giudice civile, che, secondo quanto allegato dallo stesso ricorrente, è già stato adito nel giudizio di revocazione ex art. 395 CPC, di valutare se la decisione sia comunque conforme a giustizia nel merito. Sotto il profilo penale che qui rileva, si deve escludere che sia da ritenere irrilevante la corruzione di un membro del collegio, sul presupposto che comunque la maggioranza residua sia immune da qualsiasi condizionamento nella formazione della decisione...".

Le statuizioni della sopra indicata sentenza conducevano il giudice di prime cure a ritenere che, in caso di sentenza civile emessa da collegio composto anche da un magistrato corrotto, si aveva un vizio radicale nella imparzialità, e quindi nella stessa capacità del giudice collegiale, per difetto del requisito fondamentale della imparzialità e probità di un componente del collegio. Ciò posto, in sede civile la ingiustizia o la giustizia della sentenza resa da quel collegio avrebbe dovuto essere affermata, se la sentenza civile stessa era passata in giudicato, dal giudice civile. Il vizio radicale di quella decisione restava comunque e sussisteva “de plano”, dopo che si fosse formato giudicato penale di condanna per corruzione in atti giudiziari valutato in sede penale.

Tale rilievo imponeva al giudice di prime cure di prendere concretamente in considerazione, in relazione al presente profilo, il principio già sopra enucleato dell’inopponibilità del giudicato della sentenza Metta nella presente fattispecie.

Dunque, stante il principio della separazione fra giudicato penale e giudicato civile (art 651 CPC) il Tribunale doveva verificare se fosse o meno provata la corruzione del giudice Metta, avvalendosi anche degli elementi già acquisiti in sede penale ed oggetto di valutazione autonoma.

Il giudice procedeva quindi a valutare i rapporti fra gli imputati come emergevano dalle loro dichiarazioni, nonché dalle risultanze processuali.

Passava, quindi, all’analisi (sent. impugnata pagg 86 segg.) delle dichiarazioni rese da Cesare Previti all’udienza del 28.9.2002 innanzi al Tribunale Penale di Milano (Doc D 23 CIR), relative ai suoi rapporti con Metta (anche tenuto conto della

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disponibilità di Previti ad aiutare la figlia di Metta, Sabrina, nelle sue vicende universitarie), Pacifico ed Acampora ed evidenziava la “confidenza” che intercorreva fra gli stessi.

Tali rapporti erano confermati dalla presenza di tabulati telefonici acquisiti nel procedimento penale relativo al lodo Mondadori (sent. impugnata pag. 91).

Le risultanze acquisite e puntualmente analizzate inducevano il giudice a ritenere infondati i tentativi di alcuni imputati di minimizzare i loro rapporti.

Questi venivano, poi, ulteriormente approfonditi alla luce delle dichiarazioni rese in sede penale da Stefania Ariosto (docc F 30 ed F 331 CIR pagine 346 segg sent. Tribunale Penale di Milano n. 4688/2003). In sintesi, questa testimone nelle udienze del 21.5 e 1.6.2001 aveva confermato le dichiarazioni rese nell’incidente probatorio del 25, 30, 31 maggio e 1 giugno 1996. La sig.ra Ariosto aveva riferito che Previti le aveva confidato che, oltre a Renato Squillante, vi erano altri magistrati corrotti, senza rivelargliene i nomi; la teste aveva menzionato, tuttavia, i magistrati che le era capitato di incontrare in casa Previti nelle circostanze in cui era stata invitata: Carnevale, Brancaccio, Mancuso, Sammarco, Verde, Valente, Mele ed Izzo. Riferiva di un sistema “lobbystico” finalizzato alla corruzione dei magistrati, gestito da Previti. La teste riferiva anche episodi specifici, quando aveva visto Previti, Squillante e Pacifico riuniti attorno ad un tavolino accanto ad una libreria, con denaro contante in evidenza. Fra gli altri presenti le pareva di ricordare le figure di Gianni Letta e di Sammarco. Aggiungeva che nell’occasione vi era un’atmosfera gioiosa, condivisa da tutti i presenti, e che si era festeggiata una vittoria giudiziaria: non sapeva dire in relazione a quale causa, ma Berlusconi stesso aveva telefonato a Previti durante la riunione. La teste aveva riferito anche di un’altra occasione (anteriore all’8.9.1988, data in cui la Ariosto aveva incontrato Vittorio Dotti) nella quale aveva visto Previti consegnare a Squillante una busta gialla e Squillante appoggiarla sul sedile posteriore dell’auto.

Infine, aveva specificato che durante le cene (o le colazioni) si parlava spesso delle cause in corso, ma non ne ricordava alcuna nello specifico; durante una vacanza in

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barca aveva sentito parlare della questione Mondadori e Previti aveva detto che la "guerra di Segrate" era stata "vinta" da lui; la teste aveva aggiunto che nell'ambiente si diceva che Dotti era l'avvocato degli affari leciti e Previti di quelli illeciti.

Osservava il Tribunale che sullo "sfondo" descritto dalla teste, elementi di riscontro si desumevano dalle dichiarazioni rese dal dott. Giorgio Casoli e dall'avv. Vittorio Dotti.

Quest'ultimo, escusso alle udienze dibattimentali del 17.5.2001 (doc. F 1 CIR) e del 22.2.2002 (doc. F 8 CIR) aveva confermato che Stefania Ariosto, nel corso della loro relazione e prima dei suoi contatti con la Guardia di Finanza e la Magistratura, gli aveva parlato della "capacità" di Cesare Previti di intrattenere rapporti di confidenza con i magistrati e che "ciò gli serviva per ottenere risultati professionali".

Il Casoli, inoltre, come si evinceva dalla sentenza del Tribunale Penale di Milano 4688/2003, aveva confermato che la Ariosto gli aveva riferito della vicenda delle “bustarelle”.

Il giudice di prime cure procedeva quindi autonomamente (sent. impugnata pagg. 95 e segg.), rispetto a quanto già accertato in sede penale, a ricostruire le movimentazioni finanziarie degli imputati, per giungere all’anomala disponibilità del giudice Metta di lire 400.000.000 provenienti, a seguito di “triangolazioni”, dal conto Ferrido riferibile a Fininvest.

Orbene, riteneva il Tribunale che le circostanze esposte, valeva a dire le anomalie della sentenza n. 259/1991 della Corte di Appello di Roma, i rapporti personali fra gli imputati, significativamente nascosti o minimizzati da alcuni di essi, i rapporti economici fra gli imputati medesimi, culminati nella consegna a Vittorio Metta di 400 milioni di lire, provenienti dalla provvista del conto Ferrido di Fininvest ed utilizzati per il pagamento di parte del prezzo dell'appartamento di via Casal deMerode in Roma, e l'improvviso arricchimento del giudice Metta, fossero tutti elementi che “convergevano verso la rappresentazione di un quadro probatorio certamente

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caratterizzato dalla presenza di indizi certi, gravi (poiché trattavasi di circostanze di consistente valore indiziario), precisi e concordanti, dato che essi elementi indiziari convergevano univocamente verso la dimostrazione della sussistenza della corruzione del giudice Metta”.

Il giudice procedeva quindi ad esaminare il successivo problema giuridico, cioè la responsabilità civile di Fininvest spa per il fatto di Silvio Berlusconi e CesarePreviti.

In primo luogo, puntualizzava che la provvista di danaro con la quale era stato corrotto il giudice Metta proveniva dal conto Ferrido di Fininvest.

In secondo luogo, Fininvest aveva preso parte attiva alla controversia fra CIR ed i Formenton, intervenendo nel giudizio di impugnazione del lodo Mondadori innanzi alla Corte di Appello di Roma.

A ciò si doveva aggiungere che la corruzione del giudice Metta era rifluita a tutto vantaggio di Fininvest che, grazie alla sentenza ingiusta resa dalla Corte di Appello di Roma, aveva avuto la possibilità di trattare con CIR la spartizione del gruppo L'Espresso Mondadori da posizioni di forza a fronte del correlativo indebolimento della posizione dell'attrice.

Tanto premesso, il giudice di prime cure procedeva ad esaminare i rapporti fra Fininvest e Silvio Berlusconi e quelli fra la stessa Fininvest e Cesare Previti al fine di verificare se alla società fossero riconducibili giuridicamente i fatti posti in essere dalle due persone fisiche.

Evidenziava il Tribunale che Silvio Berlusconi all'epoca dei fatti era Presidente del consiglio di amministrazione di Fininvest e tale era rimasto fino al 29.1.1994 (visura camerale Fininvest - doc. M 2 CIR). Lo stesso era anche legale rappresentante della società convenuta. Inoltre, era fatto noto che Fininvest spa era società appartenente alla famiglia Berlusconi, il cui azionariato era suddiviso all'interno di una cerchia ristretta di soci.

Ciò detto, il giudice di prime cure affermava la sussistenza della responsabilità civile della società di capitali per il fatto anche penalmente illecito del legale rappresentante

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o dell’amministratore della stessa società, quando tale fatto fosse commesso nel compimento di una attività gestoria.

II fondamento di detta responsabilità era da rinvenire, secondo la giurisprudenza del Supremo Collegio, nel rapporto di immedesimazione organica che sussisteva fra la società e l'amministratore o legale rappresentante ovvero nella responsabilità di cui all'art. 2049 CC. Infatti, la sentenza n. 12951 del 5.12.1992 della Corte di Cassazione così argomentava: "L'azione civile per il risarcimento del danno, nei confronti di chi è tenuto a rispondere dell'operato dell'autore del fatto che integra una ipotesi di reato, è ammessa - tanto per i danni patrimoniali che per quelli non patrimoniali - anche quando difetti una identificazione precisa dell'autore del reato stesso e purché questo possa concretamente attribuirsi ad alcune delle persone fisiche del cui operato il convenuto sia civilmente responsabile in virtù di rapporto organico, come quello che lega la società di capitali al suo amministratore"; ed ancora, sempre nella stessa sentenza la Corte stabiliva che: "accertata incidenter tantum dal giudice di merito la responsabilità penale dell'amministratore nell'ambito dell'attività gestoria, la società risponde delle conseguenze civilistiche dell'illecito, ivi compreso il risarcimento del danno non patrimoniale”.

Ciò posto, si procedeva ad esaminare quale fosse stato il ruolo di Silvio Berlusconi nella vicenda per cui era causa. Orbene, il Tribunale riepilogava che con richiesta 5.11.1999 il Procuratore della Repubblica di Milano aveva chiesto il rinvio a giudizio di Silvio Berlusconi, Cesare Previti, Giovanni Acampora, Attilio Pacifico e Vittorio Metta per il reato di corruzione in atti giudiziari come da capo di imputazione contenuto nella stessa richiesta (doc. D 7 CIR). Con sentenze nn. 3755 del 2000 e 3763 del 2000 (doc. D 10 CIR) il GIP presso il Tribunale di Milano aveva dichiarato non doversi procedere contro i predetti imputati "perché il fatto non sussiste". A seguito di appello proposto dalla Procura della Repubblica, la Corte di Appello di Milano, con sentenza e decreto del 12.5.2001, depositati il 25.6.2001, aveva disposto il rinvio a giudizio di Previti, Metta, Acampora e Pacifico per il reato predetto (corruzione in atti giudiziari) ed aveva pronunciato nei confronti di Berlusconi sentenza di non doversi procedere per il reato di

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corruzione ordinaria, così modificata l'originaria imputazione di corruzione in atti giudiziari, perché, concesse le attenuanti generiche, il reato era estinto per intervenuta prescrizione (D 11 CIR).

Contro la detta sentenza il solo Berlusconi aveva proposto ricorso per cassazione, chiedendo il proscioglimento con formula piena di merito, ma l’impugnazione era stata rigettata dalla Suprema Corte con sentenza n. 3524 del 16.11.- 19.12.2001 (doc. D 12 CIR): ne conseguiva che nei confronti di Berlusconi era stata pronunciata sentenza irrevocabile, che aveva dichiarato il reato estinto per prescrizione.

A questo punto il primo giudice svolgeva una osservazione: il sistema processuale penale italiano contiene una regola, posta dall'art. 129 CPP, secondo la quale il giudice, una volta rilevata la sussistenza di una causa estintiva del reato, non può compiere alcun ulteriore accertamento probatorio sulla responsabilità dell'imputato, ma deve senz’altro dichiarare la causa estintiva del reato, a meno che dagli atti già emerga la prova evidente che il fatto non sussiste o l'imputato non lo ha commesso, poiché in tal caso il giudice è tenuto a pronunciare il proscioglimento del prevenuto nel merito. Pertanto, se Berlusconi non era stato prosciolto nel merito, era perché, ad avviso della Corte d’Appello, non vi era l'evidenza, alla stregua del materiale probatorio allora disponibile, dell'innocenza dell'imputato.

Da un altro punto di vista, il primo giudice dava atto che la concessione all'imputato delle attenuanti generiche, la quale aveva ricondotto il ritenuto reato nell'ambito della prescrizione, non presupponeva un giudizio di accertamento positivo sulla sussistenza del fatto e sulla circostanza che l'imputato lo avesse commesso; infatti, la concessione delle attenuanti era stata fatta dalla Corte "sulla base degli atti", cioè sulla base del materiale processuale disponibile e sulla base della imputazione ritenuta: era evidente che un giudizio di responsabilità penale poteva aversi solo a seguito di giudizio penale, ordinario o abbreviato che fosse, (salvo il caso, che qui non rileva, del decreto penale di condanna); nella fattispecie, la Corte di Appello di Milano non era stata chiamata a giudicare gli imputati, ma solo a decidere se nei loro confronti dovesse o meno essere celebrato il giudizio dibattimentale.

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Trattavasi quindi di pronuncia che, ovviamente, precludeva l’assoggettamento di Berlusconi medesimo a giudizio di responsabilità penale ed a sanzione penale ma, trattandosi di sentenza non emessa a seguito di giudizio di merito, ma solo a seguito di applicazione di causa estintiva del reato, essa non precludeva in alcun modo che, in sede civile, venisse ritenuto, "incidenter tantum" ed ai ai soli fini civilistici e risarcitori, che Berlusconi avesse commesso il fatto.

A questo proposito, il giudice di prime cure osservava che i conti All Iberian e Ferrido erano accesi su banche svizzere e di essi era beneficiaria economica la Fininvest. Non era, quindi, assolutamente pensabile che un bonifico dell'importo di USD 2.732.868 (circa 3 miliardi di lire) potesse essere deciso ed effettuato senza che il legale rappresentante, che era poi anche amministratore della Fininvest, lo sapesse e lo accettasse. In altre parole, il Tribunale riteneva di potere pienamente fare uso della prova per presunzioni, che nel giudizio civile ha la stessa dignità della prova diretta (rappresentazione del fatto storico).

Nella fattispecie si avevano i seguenti fatti noti: la provenienza della somma di USD 2.732.868, bonificati, in vista delle già dimostrate finalità corruttive, a Previti dai conti All Iberian e Ferrido, che si era accertato essere appartenenti a Fininvest e la posizione “apicale” di Silvio Berlusconi nella stessa Fininvest; da tali elementi noti era d'obbligo inferire l'affermazione del fatto ignoto, e cioè la consapevolezza e l'accettazione dell'inoltro a Previti della provvista corruttiva da parte di Silvio Berlusconi, e ciò sulla base di un criterio di "normalità": valeva a dire che rientrava assolutamente nell'ordinario svolgersi degli accadimenti umani che un bonifico di quella entità potesse essere inoltrato solo sulla base della preventiva accettazione da parte di chi nella compagine sociale, da cui proveniva la somma destinata alla condotta corruttiva, ricopriva una incontrastata posizione di vertice. Invero, la prova per presunzioni nel processo civile aveva la stessa dignità della prova diretta. Ciò era stato ribadito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, ad esempio, in materia di prova del danno, nella Sentenza n. 26972 dell' 11.11.2008, in cui si affermava: "... il ricorso alla prova presuntiva è destinato ad assumere particolare

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rilievo, e potrà costituire anche l'unica fonte per la formazione del convincimento del giudice, non trattandosi di mezzo di prova di rango inferiore agli altri (v. tra le tante, sentenza n. 9834/2002). Il danneggiato dovrà, tuttavia, allegare tutti gli elementi che, nella concreta fattispecie, siano idonei a fornire la serie concatenata di fatti noti, che consentano di risalire al fatto ignoto" (pag. 52 sent. citata). Ed ancora, di recente, la Cassazione aveva affermato che: "II convincimento del giudice può ben fondarsi anche su una sola presunzione, purché grave e precisa, nonché su una presunzione che sia in contrasto con altre prove acquisite, qualora la stessa sia ritenuta di tale precisione e gravità da rendere inattendibili gli elementi di giudizio ad essa contrari. Né occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, essendo sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità, cioè che il rapporto di dipendenza logica fra il fatto noto e quello ignoto sia accertato alla stregua di canoni di probabilità, con riferimento ad una connessione possibile e verosimile di accadimenti, la cui sequenza e ricorrenza possano verificarsi secondo regole di esperienza " (Cass. n.16993 del 1.8.2007).

Quindi, nel giudizio civile la prova presuntiva era pienamente utilizzabile facendo uso dei criteri di ragionevolezza e di normalità.

Del resto, anche nel giudizio penale la regola che la responsabilità dell'imputato deve essere provata "al di là di ogni ragionevole dubbio" era stata interpretata nel senso che le possibilità "remote", che fossero suscettibili di verificazione soltanto teorica, potessero essere normalmente escluse dal giudice penale: infatti, la sentenza n. 23813 del 8.5.2009 così statuiva: "La regola di giudizio compendiata nella formula , formalizzata nell'art 533 comma primo CPP, come sostituito dall'art. 5 della legge 20 febbraio 2006 n. 46 (modifiche al codice di procedura penale in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento) impone di pronunciare condanna quando il dato probatorio acquisito lascia fuori soltanto eventualità remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili “in rerum natura”, ma la cui effettiva realizzazione, nella fattispecie concreta, risulti priva del benché

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minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell'ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana".

Orbene, facendo uso di detti principi, il giudice “a quo” riteneva che sarebbe stato assolutamente fuori dell'ordine naturale degli accadimenti umani che un bonifico di circa 3 miliardi di lire fosse stato disposto ed eseguito, per le dimostrate finalità corruttive, senza che il "dominus" della società, dai cui conti il bonifico proveniva, ne fosse a conoscenza e lo accettasse.

Pertanto, considerava il primo giudice, era da ritenere, "incidenter tantum" ed ai soli fini civilistici del presente giudizio, che Silvio Berlusconi fosse corresponsabile della vicenda corruttiva per cui si procedeva, corresponsabilità che, come logica conseguenza, comportava la responsabilità della stessa Fininvest, per il principio della responsabilità civile delle società di capitali per il fatto illecito del loro legale rappresentante o amministratore, commesso nell'attività gestoria della società medesima.

Il giudice di prime cure postulava che la responsabilità della società di capitali per il fatto illecito del legale rappresentante o amministratore era responsabilità diretta e non responsabilità per fatto altrui: ciò perché la società avente personalità giuridica agisce attraverso i suoi organi sociali.

In relazione alla posizione di Cesare Previti, evidenziava il primo giudice che, anche alla luce di quanto sopra detto, era dimostrato che egli era stato l'artefice principale, il primo attore, della vicenda corruttiva. La responsabilità di Finnivest era evocata anche dall'operato di Cesare Previti, essendo la posizione di questi nei confronti della convenuta non quella che derivava da un ordinario rapporto di opera professionale, come era normale fra un professionista ed i suoi clienti, ma quella, diversa, di un preposto della stessa convenuta. Occorreva, quindi, in primo luogo, chiedersi in che termini sussistesse il rapporto di preposizione gestoria fra Fininvest e Previti.

Era emerso dai fatti esaminati che l'avv. Cesare Previti curava gli interessi legali della convenuta, sia all'estero sia in Italia, organizzando, suddividendo e supervisionando il lavoro di altri avvocati (anche stranieri per le vicende in Francia, Spagna e Svizzera) e

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prendeva parte attiva nel lavoro di tali legali, i quali spesso erano professori universitari, cooperando nella individuazione e comprensione delle tematiche giuridiche rilevanti. Previti quasi mai agiva a seguito di conferimento di procura “ad litem” da parte di Silvio Berlusconi: egli, come era stato detto dai testimoni, "non compariva in delega", ma aveva da parte di Fininvest e di Berlusconi un mandato generale a curare, ai massimi livelli, gli interessi legali della convenuta.

Ciò risultava, per le vicende italiane, dalle testimonianze degli avvocati Vittorio Dotti (doc. F 1 ed F 8 CIR), Aldo Bonomo (doc. F.16 CIR), Carlo Momigliano (doc. F 18 CIR) e, per il lavoro all'estero, soprattutto dal teste Angelo Codignoni, sentito nel dibattimento penale in appello (doc. 80 Fininvest).

Quindi, osservava il giudice di prima istanza, si aveva una cura delle controversie legali ai massimi livelli senza delega, sulla base di un rapporto di assoluta fiducia con Silvio Berlusconi. Era di tutta evidenza che un rapporto di tal fatta non potesse essere giuridicamente qualificato come rapporto d'opera professionale, di cui mancava anche il presupposto formale rappresentato dalla procura “ad litem”, e che esso doveva essere meglio inquadrato nell'ambito del mandato generale, istituto che era più aderente alla realtà dei fatti per comprendere dal punto di vista giuridico le peculiarità della fattispecie.

A ciò si doveva aggiungere che, a partire dal 1994, presso lo studio legale di Previti in Roma, Via Cicerone n. 60, si trovava una sede secondaria di Fininvest (docc. M2 ed M3 CIR).

Il mandato generale era, per la giurisprudenza di legittimità, istituto giuridico atto a configurare fra il mandante ed il mandatario il rapporto di preposizione gestoria invocato da CIR a fondamento della responsabilità ex art. 2049 CC della convenuta per l'operato di Previti. La giurisprudenza aveva chiarito che ai fini dell'applicazione di tale norma non era necessario che vi fosse fra il commesso ed il committente, ovvero fra il domestico ed il padrone, un rapporto di lavoro subordinato, né tanto meno che detto rapporto fosse stato formalizzato in un contratto di lavoro, né, men che meno, che esso fosse stabile e continuativo, essendo solo necessario che vi fosse un inserimento del "dipendente" nell'attività dell'impresa e che questo collegamento fra il preposto e

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l'impresa preponente avesse reso possibile o favorito la commissione del fatto illecito, posto in essere nell'ambito delle incombenze cui era adibito il preposto. In altri termini, l'attività espletata dal "dipendente" al servizio del preponente doveva essere tale da aver reso possibile o anche solo agevolato la commissione del fatto illecito (Cass. n. 2734 del 22.3.1994).

Il fondamento della responsabilità del padrone per il fatto del domestico (responsabilità per il fatto illecito altrui) era tradizionalmente ravvisato dalla dottrina e dalla giurisprudenza nella “culpa in eligendo” o nella “culpa in vigilando” del preponente, anche se più di recente vi erano stati dei tentativi di spiegare il fondamento dell'istituto con un criterio di corretta ripartizione dei rischi inerenti la attività di impresa fra l’imprenditore ed i dipendenti.

In ogni caso, già da tempo la giurisprudenza aveva ricondotto la responsabilità dell'agente e del mandatario all'istituto in questione, sotto la condizione che sia l'uno che l'altro avessero commesso l'illecito nell'ambito dei poteri di rappresentanza conferiti dal preponente o mandante (Cass. n. 4005 del 3.4.2000 e Sent. n. 3776 del 27.6.1984): ciò era avvenuto perché era stata superata la necessità della ricorrenza di un rapporto di lavoro subordinato e perché anche i rapporti di mandato ed agenzia manifestavano una superiorità sostanziale del preponente rispetto all'agente o mandatario.

Peraltro, la Corte Suprema in una recente pronuncia così si era espressa: "sussiste la responsabilità ex art. 2049 CC della compagnia assicuratrice per l'attività illecita posta in essere dall'agente, ancorché privo del potere di rappresentanza, che sia stata agevolata o resa possibile dalle incombenze demandategli e su cui la medesima aveva la possibilità di esercitare poteri di direttiva e di vigilanza" (Cass. n. 14578 del 22.06.2007).

Riteneva dunque il Tribunale di dover aderire a quest’ultima giurisprudenza di legittimità, perché la “ratio” della disposizione contenuta nell'art. 2049 CC - e cioè la responsabilità del preponente per “culpa in eligendo” o “in vigilando”, ovvero le più moderne teorie circa la ripartizione dei costi relativi all'attività di impresa - si rinveniva sia nel mandato con rappresentanza sia in quello senza rappresentanza (e lo stesso valeva per il contratto di agenzia): ciò che contava era che l'ambito delle

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funzioni e dei compiti demandati dal preponente al preposto fosse stato tale da aver consentito o agevolato la commissione dell'illecito.

Ciò posto, riteneva il giudice di prime cure che nelle attività e nei compiti demandati da Fininvest a Previti fosse ravvisabile, in senso sostanziale, un mandato generale e che a ciò non ostasse la mancata assunzione da parte del mandatario della qualifica formale di institore, e cioè di addetto all'esercizio dell'impresa con poteri di rappresentanza dell'imprenditore, e quindi con poteri di fare acquisti, compiere pagamenti, stipulare contratti e quant'altro serviva all'esercizio dell'impresa. Invero, a parere del Tribunale, la "preposizione institoria", di cui all'art. 2203 CC, era una delle forme che la preposizione rilevante ai fini dell'art. 2049 CC poteva assumere, ma un'altra era certamente quella inerente i rapporti di agenzia e mandato, considerati dalla giurisprudenza sopra citata.

Pertanto, conclusivamente, poiché i rapporti fra Fininvest e Previti, quanto al loro sostanziale aspetto della cura in senso ampio da parte di Previti degli interessi legali della prima, potevano essere assimilati al mandato generale, non vi era ragione per negare la responsabilità di Fininvest ai sensi dell'art. 2049 CC, in quanto l'operato dello stesso Previti era stato posto in essere su incarico e nell'interesse della Fininvest, a beneficio della quale era andata la corruzione del giudice Metta, che era stata opera soprattutto dello stesso Previti.

Alla responsabilità diretta di Fininvest per l'operato di Silvio Berlusconi si aggiungeva pertanto la responsabilità della stessa convenuta ai sensi dell'art. 2049 CC per le condotte poste in essere da Cesare Previti.

In ordine alle domande prospettate da CIR, sia quella principale di danno da sentenza ingiusta sia quella subordinata di danno da perdita della “chance” di avere una sentenza favorevole, il Tribunale svolgeva le riflessioni di seguito sintetizzate.

Si era dimostrata l’ingiustizia della sentenza della Corte d’Appello di Roma e la sua derivazione causale dalla corruzione del giudice Metta, argomento che, secondo quanto già detto, resisteva, in ragione del ruolo primario che aveva avuto il consigliere relatore

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nella formazione della decisione del Collegio, all'obiezione circa la collegialità della sentenza.

Ciò posto, doveva rilevarsi che, se era vero che la Corte di Appello di Roma aveva emesso una sentenza indubbiamente ingiusta come frutto della corruzione di Metta, nessuno poteva dire in assoluto quale sarebbe stata la decisione che un Collegio, nella sua totalità incorrotto, avrebbe emesso: considerava il giudice di prime cure che una sentenza ingiusta avrebbe potuto essere emessa anche da un Collegio nella sua interezza non corrotto.

Proprio per questo, appariva al Tribunale più aderente alla realtà del caso in esame determinare concettualmente il danno subito da CIR come danno da "perdita di “chance”": valeva a dire, posto che nessuno sapeva come avrebbe deciso una Corte incorrotta, che certamente era vero che la corruzione del giudice Metta aveva privato CIR della “chance” di ottenere una decisione favorevole.

Invero, che questa “chance”, intesa come opportunità realmente esistente e come ragguardevole probabilità di un risultato favorevole della lite, fosse davvero un elemento attivo acquisito all'epoca al patrimonio dell'attrice, nessuno poteva negare, posto che concretamente l'accoglimento della domanda di CIR di declaratoria del vincolo dei Formenton alla promessa permuta delle azioni ordinarie AMEF, sarebbe potuto derivare non solo dalla ritenuta validità dei patti di sindacato e di tutta la convenzione 21.12.1988, ma anche dalla ritenuta invalidità dei patti medesimi, o di parte di essi, qualora comunque la Corte avesse deciso, in conformità alla valutazione degli arbitri, che detti patti fossero scindibili dal resto della convenzione o quantomeno dalla promessa di permuta.

In sostanza, il Tribunale riteneva che la possibilità di accoglimento della domanda di accertamento di CIR fosse consequenziale ad una pluralità di opzioni concretamente possibili, mentre la Corte di Appello di Roma aveva deciso per la nullità dell’intera convenzione, vale a dire per l'unica opzione sulla base della quale si sarebbe potuto rigettare la domanda attorea di accertamento, avendo ritenuto non

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solo che i patti azionari fossero nulli, ma che detta nullità si estendesse all'intera convenzione per l'affermata inscindibilità della promessa di permuta dai patti.

Aveva dunque ragione CIR quando considerava che non si potesse negare che un lodo arbitrale reso da tre insigni maestri del diritto avesse più che concrete possibilità di essere confermato nel giudizio di impugnazione innanzi alla Corte di Appello: infatti, a parere del Tribunale, il lodo arbitrale era congruamente motivato nelle sue valutazioni ed equilibrato nelle sue conclusioni.

Il giudice di prime cure peraltro procedeva ad esaminare alcune eccezioni e difese formulate da Fininvest in ordine alla domanda di risarcimento del danno da perdita di “chance” formulata in via subordinata da CIR.

La prima eccezione di parte convenuta consisteva nella riproposizione, anche in relazione alla presente fattispecie, della tesi della improponibilità della domanda per il precedente giudicato formatosi sulla sentenza n. 259/1991 della Corte di Appello di Roma, che, assumeva Fininvest, avrebbe precluso anche la proposizione della domanda di danno da perdita di “chance”, poiché l'efficacia preclusiva del giudicato, come noto, si estende al dedotto ed al deducibile.

Riteneva il Tribunale che l'eccezione di precedente giudicato fosse infondata, per quanto già a suo tempo osservato sul fatto che le parti, nell'esplicazione della loro autonomia privata, avevano superato il giudicato ed avevano regolato per intero i loro rapporti dedotti in lite con la transazione 29.4.1991.

Sull'argomento di parte convenuta, secondo il quale nessuna “chance” vi sarebbe stata nella fattispecie di ottenere una decisione favorevole in sede di impugnazione del lodo in quanto la giurisprudenza dell'epoca era costante nell'affermare la nullità dei patti di sindacato del tipo di quelli contenuti nella convenzione 21.12.1988, bastava ricordare ciò che si era esposto in ordine all'ingiustizia della sentenza Metta.

Circa, poi, l'argomento difensivo di Fininvest, secondo il quale nessuna “chance”, intesa come situazione giuridica attiva di carattere patrimoniale consistente nella "certezza morale" di un risultato favorevole, vi sarebbe stata nella fattispecie, osservava il Tribunale che la nozione di “chance” come "certezza morale" di un

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risultato favorevole era stata da tempo abbandonata dalla giurisprudenza di legittimità, che intendeva appunto la “chance” come opportunità (possibilità) di un risultato favorevole (Sent Cass. n. 15759 del 2001).

Circa l'asserita assenza di perdita di “chance” per essere stato corrotto uno solo dei componenti del collegio giudicante, sicché vi sarebbe stata comunque la possibilità di ottenere un provvedimento favorevole dagli altri due componenti, il Tribunale ribadiva quanto già detto circa il rapporto di causalità fra corruzione del giudice Metta e pronuncia di una sentenza collegiale ingiusta.

In riferimento all'argomento difensivo di parte convenuta per il quale, anche a voler per ipotesi ammettere che CIR avesse una “chance” di vittoria nel giudizio contro Fininvest-Formenton, essa attrice avrebbe volontariamente dismesso tale “chance” rinunciando al ricorso per cassazione a suo tempo proposto contro la sentenza della Corte d’Appello di Roma, il Tribunale rinviava a quanto già detto circa le ragioni che avevano costretto le parti ad addivenire ad una soluzione transattiva della lite. In ogni caso, poi, si doveva ritenere che era stata la corruzione del giudice Metta a privare CIR della sua “chance” di ottenere un provvedimento giurisdizionale favorevole e non la sua successiva rinuncia al ricorso per cassazione.

Riteneva, pertanto, il giudice di prime cure di dovere riconoscere il danno subito da CIR nella vicenda in esame nella perdita della rilevantissima opportunità di ottenere una decisione favorevole da parte della Corte di Appello in sede di impugnazione del lodo.

Conformemente alla giurisprudenza di legittimità sul punto, ed alla domanda subordinata di CIR, riteneva perciò il Tribunale di dovere identificare i danni patrimoniali subiti dall'attrice per il fatto illecito e di quantificarli in nummario per poi, sulla somma complessiva così scaturita, applicare la percentuale corrispondente alla “chance” che CIR aveva nel concreto di ottenere una decisione a sé favorevole.

Per quel che riguardava il danno non patrimoniale, il giudice di prime cure, conformemente alla domanda attorea, si sarebbe limitato ad emettere una decisione

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semplicemente sull'an debeatur, avendo parte attrice dichiarato di riservare la quantificazione e liquidazione in moneta di tale danno ad un successivo giudizio.

Quanto ai danni patrimoniali, evidenziava il Tribunale che l'attrice li identificava in tre voci, relative: 1) al danno da indebolimento della propria posizione contrattuale nel negoziato con Fininvest per la spartizione del gruppo L'Espresso-Mondadori e nelle correlative condizioni deteriori alle quali era stata stipulata la transazione 29.4.1991; 2) al danno da pagamento delle spese legali relative tanto al giudizio arbitrale, ivi comprese le spese per il funzionamento del Collegio arbitrale, quanto a quello di impugnazione davanti alla Corte di Appello ed al ricorso per cassazione, successivamente rinunciato, oltre alle spese rifuse a parte Formenton sia per il giudizio arbitrale come per il giudizio di appello, secondo la decisione della Corte di Appello di Roma; 3) al danno alla propria immagine imprenditoriale, inteso come danno patrimoniale, e cioè come danno emergente e lucro cessante, in quanto direttamente conseguenti alla caduta di immagine nel mondo degli affari; il tutto con rivalutazione monetaria ed interessi.

In relazione al primo punto, nessun dubbio poteva sussistere, a parere del Tribunale, alla stregua delle macroscopiche differenze fra le condizioni della transazione 29.4.1991 e le condizioni sulle quali si era attestata la "trattativa Mediobanca", già prima della emissione del lodo arbitrale, il 20.6.1990.

Il giudice di prime cure procedeva, quindi, ad una minuziosa verifica dei fatti giudizialmente accertati ed evidenziava le dichiarazioni rese dall’Avv. Sergio Erede, sentito all'udienza dibattimentale dell'8.2.2002. Dalle parole del teste, che aveva seguito la trattativa come legale del gruppo CIR, era emerso con chiarezza che le differenze economiche tra le condizioni della "trattativa Mediobanca" (di cui poi si dirà) e la transazione erano state molto rilevanti ed erano state dovute all'indebolimento della posizione contrattuale di CIR, cagionata dalla sentenza 14-24.1.1991 della Corte di Appello di Roma.

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Il Tribunale prendeva in esame, poi, il doc. I 4 CIR, che rappresentava un "riassunto Mediobanca" dello stato della trattativa al 19.6.1990, riferito, quindi, ad un tempo immediatamente precedente il lodo Pratis; il documento proveniente dalla prestigiosa banca di affari, che seguiva da vicino la trattativa in questione si componeva di un solo foglio e vi si leggeva che Fininvest aveva ipotizzato di acquistare da CIR azioni AME ordinarie a lire 40.000 ciascuna, azioni AME privilegiate a lire 27.500 ciascuna ed azioni AME di risparmio a lire 15.000 ciascuna.

Invece, nella transazione (doc. A 2 CIR), come integrata dal documento n. 143 Fininvest (che conteneva l'indicazione dei prezzi unitari dei trasferimenti da CIR a Fininvest), si leggeva che i prezzi unitari per le azioni AME vendute da CIR a Fininvest erano: lire 26.000 per le azioni AME ordinarie, lire 18.980 per le azioni AME privilegiate e lire 10.173 per le azioni AME di risparmio.

Invero, una differenza così vistosa non poteva spiegarsi con l'andamento del mercato e doveva essere realisticamente ricondotta ad un cambiamento sostanziale delle rispettive posizioni negoziali delle parti.

Ancora, il giudice di prime cure prendeva visione del documento "Piano accordo con Fininvest" del 30.3.1990 (a doc. I 1 CIR ), di accertata provenienza CIR, nel quale si ipotizzava un acquisto da parte di AMEF di un gran numero di azioni Mondadori, che venivano cedute da parte dei più importanti azionisti di allora: anche in questo caso si era ipotizzata la vendita delle azioni AME ordinarie a lire 40.000 ciascuna, delle azioni AME privilegiate a lire 27.500 ciascuna, delle azioni AME di risparmio a lire 15.000 ciascuna; pure in questo caso si avevano le medesime vistose differenze già ravvisate con i prezzi realizzati per la vendita delle stesse azioni da parte di CIR per effetto della transazione.

Il Tribunale procedeva poi ad analizzare gli acquisti da parte CIR di azioni possedute dalla controparte: nel "piano accordo" 30.3.1990 (doc. I 1 CIR), si ipotizzava l'acquisto da parte di CIR di 8.000.000 di azioni ordinarie la Repubblica ed Espresso per l'importo di lire 50.000 ciascuna e per un corrispettivo totale di lire 400.000.000.000 e del 50% del capitale sociale di Finegil per lire 75.000.000.000.

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Orbene, con la transazione, CIR aveva acquistato, invece, 8.000.000 di azioni ordinarie la Repubblica per lire 56.250 ciascuna, per un totale di lire 450.000.000.000 e il 50% del capitale Finegil per lire 138.527.520.

Da quanto sopra esposto emergeva evidente, a giudizio del Tribunale, la prova piena della sussistenza di un vero e proprio capovolgimento delle posizioni negoziali delle parti, che non poteva trovare altra spiegazione se non nell'indebolimento di parte CIR e nel correlativo rafforzamento di Finivest come effetto della sentenza n. 259/91della Corte di Appello di Roma, data anche l’assenza di una spiegazione alternativa.

Ed infatti, le cennate differenze non potevano spiegarsi - come avrebbe voluto Fininvest - col fatto che nel 1990 la contesa delle azioni Mondadori da parte di Fininvest e CIR ne avesse "gonfiato" i prezzi, mentre nel 1991, una volta che le parti ebbero regolato il loro contenzioso con la transazione, il valore delle azioni AME era sceso: invero, l'assunto non convinceva il Tribunale, perché dai dati sopraindicati si notava una piena coerenza dei cambiamenti di prezzo con gli interessi di parte Fininvest, coerenza che si spiegava con la constatazione del ribaltamento delle posizioni di forza negoziale delle parti: infatti, si poteva notare che il valore delle azioni la Repubblica e Finegil, invece di "sgonfiarsi", nel 1991 si era incrementato.

Ancora, parte convenuta aveva sostenuto che la trattativa, che aveva condotto alla transazione mediata da Giuseppe Ciarrapico, era stata una negoziazione nuova e diversa rispetto a quella svoltasi presso gli uffici di Mediobanca circa un anno prima. Anche questa tesi non convinceva il giudice di prime cure: era vero che la trattativa aveva subito una stasi dal momento della emanazione del lodo Pratis fino al momento del deposito della sentenza Metta, quiescenza dovuta – a giudizio del Tribunale - al fatto che nel tempo intercorso fra i due provvedimenti, CIR intendeva, a suo dire, verificare l’ipotesi della "Grande Mondadori " con al vertice la società attrice medesima, ma si doveva dire che l'oggetto, le parti e le ragioni del contendere erano le stesse nelle due fasi della negoziazione, cosicché non aveva

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senso considerare la trattativa svoltasi nel 1991 nuova rispetto a quella svoltasi col patrocinio di Mediobanca.

Considerava il giudice di prime cure che, con riguardo a quest'ultima fase, si doveva ritenere che non fossero credibili le dichiarazioni rese nel presente giudizio dai testi Fedele Confalonieri e Giancarlo Foscale, nella parte in cui tendevano a svalutare l'importanza del negoziato presso Mediobanca, affermando che, in questa fase, "...si fecero solo chiacchiere" e si sorbiva " il caffè del mattino": non si poteva credere che Mediobanca, la più grande e prestigiosa banca di affari italiana, ospitasse e sovrintendesse ad una trattativa meno che seria.

Occorreva, dunque, ritenere la effettiva sussistenza di un danno patrimoniale subito da CIR nel negoziato concluso con la spartizione del gruppo editoriale L'Espresso - Mondadori, danno concretamente rappresentato dalla conseguenza delle deteriori condizioni alle quali CIR trattò con la controparte Fininvest la transazione 29.4.1991 rispetto a quelle che si sarebbero avute in un negoziato non inquinato a monte dalla corruzione del giudice Metta e dalla conseguente pronuncia di una sentenza sfavorevole a CIR.

Poneva in evidenza il Tribunale che riguardo alla quantificazione di tale danno, CIR aveva argomentato che esso avrebbe dovuto essere quantificato mediante un confronto fra le condizioni della spartizione del gruppo L'Espresso-Mondadori pattuite con la transazione 29.4.1991 (spartizione "corrotta") ed i termini di una possibile spartizione "pulita", che ovviamente non aveva avuto mai luogo nella realtà e che quindi restava una pattuizione ipotetica e virtuale. Ciò non doveva “spaventare più di tanto”, asseriva il Tribunale, riprendendo gli argomenti di CIR, perché a ben vedere in ogni giudizio finalizzato alla quantificazione del danno risarcibile, vi era il confronto fra un dato reale, la situazione fattuale del danneggiato, quale era quella risultante a seguito del fatto illecito, ed un dato ipotetico, e cioè la situazione che si sarebbe avuta se l'illecito non fosse mai esistito. In particolare, ciò era vero soprattutto nella quantificazione del lucro cessante derivato da fatto illecito, che postulava sempre il confronto fra una

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realtà effettiva, quella del patrimonio del danneggiato a seguito ed a causa dell'illecito, ed una realtà virtuale, rappresentata dal guadagno che il danneggiato avrebbe realizzato, se non vi fosse stato il fatto illecito.

La società attrice proponeva pertanto, quale "metodo" utile per la quantificazione del danno subito per il fatto illecito, il raffronto fra i dati della transazione 29.4.1991 e quelli, a sé molto più favorevoli, emergenti da alcune ipotesi di spartizione che erano state avanzate durante la "trattativa Mediobanca", ipotesi che apparivano abbastanza simili a quelle della transazione per "perimetro" della spartizione, valeva a dire per tipo e quantità di azioni reciprocamente cedute.

Si prospettava così il raffronto fra i dati della transazione 29.4.1991 e quelli del Piano Accordo di CIR del 30.3.1990 (doc 11 CIR) (cd. spartizione "pulita" 1); dello stesso Piano Accordo di CIR del 30.3.1990 al netto di uno sconto praticato da CIR (spartizione "pulita" 2); della proposta Fininvest del 19.6.1990 (doc. I 5 CIR), formulata dalla convenuta come ultimo tentativo di conciliazione della lite prima che fosse pronunciato il lodo Pratis (spartizione "pulita" 3).

Il Tribunale riteneva, in linea di massima, di condividere l'impostazione metodologica data al problema della quantificazione del danno da parte dell'attrice e non riteneva di poter condividere invece le contestazioni di parte convenuta, secondo cui controparte si sarebbe addentrata in un inutile "valzer delle cifre", perché le argomentazioni ed i calcoli proposti da CIR apparivano ragionevoli e realistici. Per quel che concerneva la spartizione pulita 1 (e conseguentemente anche la spartizione pulita 2, che era una variante di quella precedente) v’era un problema di prova: era contestato da parte convenuta che il Piano Accordo CIR del 30.3.1990 fosse un documento su cui realmente vi fosse stata fra le parti una ipotesi di accordo. E questa contestazione, ad avviso del Tribunale, non era concretamente superabile.

Del resto la contestazione di parte convenuta era, sul punto, radicale: essa negava che vi fosse stata una seria trattativa fino al tentativo Ciarrapico.

Ma, ad avviso del Tribunale, le obiezioni della convenuta erano superabili per quel che riguardava la proposta Fininvest del 19.6.1990, c.d. spartizione "pulita 3” (doc I 5

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GIR) . Fininvest aveva negato che il documento in questione fosse di sua provenienza poichè, tra l'altro, non era stato redatto su carta intestata Fininvest, né era firmato. Tuttavia, riteneva il Tribunale che vi erano in atti elementi sufficienti per ricondurre alla convenuta il doc. I 5 CIR "Proposta per risolvere la vertenza Mondadori". Infatti, esso aveva dei tipi di stampa diversi dagli altri documenti, di cui sopra si era detto. Inoltre conteneva delle proposizioni dalle quali poteva ricavarsi l’attribuzioni a Fininvest della paternità del documento: ad esempio, alla pagina 2 vi era scritto: "Fininvest ritiene che la posizione di CIR non sia in alcun modo equa o comunque giustificabile non rispecchiando il valore relativo del gruppo Espresso/ Repubblica/ Finegil" e più avanti, a pagina 3: "Nella speranza di risolvere la vertenza in tempi brevi e riconoscendo l'aiuto offerto dalle varie parti per una mediazione rapida che eviti ulteriori danni alla Mondadori stessa, FININVEST (scritto in lettere maiuscole) offre il seguente compromesso..." ed a pagina 4 "FININVEST accetta la posizione CIR per cui Mondadori trasferisce solo il 51,9 % dell'Editoriale L'Espresso...".

Il Tribunale osservava poi che anche dal punto di vista contenutistico la predetta "Proposta" rispecchiava la posizione di Fininvest ed, in particolare, la sua contrarietà alla spartizione della Mondadori fra le parti, che sarebbe stata contraria agli interessi della casa editrice ed alle convenienze di una corretta politica aziendale.

Ancora, il Tribunale rammentava che il teste Corrado Passera sentito all'udienza del 14.5.2007, aveva dichiarato:" ricordo distintamente che si arrivò ad una proposta Fininvest che prevedeva in favore di CIR un conguaglio di lire 400 miliardi e lo ricordo perché vi fu una importante riunione in proposito"; ed ancora: "confermo che il documento I 5 rappresenta la proposta Fininvest ricevuta in Mediobanca. Lo schema di suddivisione delle società interessate è quello indicato a pag. 2 dell'accordo e a pag. 8 del medesimo è indicato un conguaglio di 400 miliardi in favore di CIR".

Il teste Sergio Erede all'udienza del 28.5.2007 aveva dichiarato: "Ricordo bene il documento in questione (doc. I 5), perché dopo una riunione in Mediobanca, nel

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Giugno 1990 - alla quale peraltro non ero presente - il dott. Passera mi telefonò e mi disse che avevano ricevuto un proposta da Fininvest e me la mandò in studio, per via fax. Si tratta della proposta contenuta nel doc. I 5".

Infine, il giudice di prime cure rilevava che la circostanza che l'ultima proposta di Fininvest prima della pronuncia del lodo Pratis fosse nel senso della spartizione del gruppo L’Espresso Mondadori - con l'attribuzione a CIR di L'Espresso, la Repubblica e Finegil (società, quest'ultima, editrice di diversi quotidiani locali ) e di Mondadori “classica” (libri, periodici e grafica) alla cordata di Fininvest e Formenton, con un conguaglio di circa lire 400 miliardi a favore di CIR - era confermata da alcuni articoli di stampa dell'epoca prodotti in atti. Infatti, nella edizione del 23.6.1990 di Milano Finanza (doc. L 8 CIR) si leggeva una intervista rilasciata da Oliver Novick, a quel tempo uno dei massimi dirigenti di Fininvest, il quale dichiarava: "Domanda: Giovedì 21 Giugno, un'ora dopo il verdetto sull'arbitrato, però vi siete incontrati di nuovo in Mediobanca. E voi avete rilanciato la spartizione con un conguaglio, si dice, di 600 miliardi. Risposta: E' vero ci siamo incontrati. La proposta l'avevamo depositata già da due giorni e scadeva appunto alle 18 di giovedì. Ma i 600 miliardi non erano lì sul piatto, eravamo arrivati però molto vicini alla richiesta della CIR di un conguaglio di 526 miliardi. E in più avevamo proposto di acquistare alcune partecipazioni della CIR non più strategiche, come quella nella Cartiera di Ascoli".

Nella edizione del 16.5.1990 del Sole 24 Ore (doc L 20 CIR) si leggeva, nel corpo di un articolo dal titolo "Berlusconi preme per la spartizione della Mondadori": "Berlusconi ha quindi ricapitolato le tappe salienti della trattativa con la CIR al tavolo di Mediobanca, arenatasi un paio di settimane fa sulla sostanziale rigidità dei due gruppi circa l'entità del conguaglio. Ma mentre la CIR non sembra volersi smuovere dalla richiesta originale di 528 miliardi, ha aggiunto, oggi Fininvest è disposta a elevare la propria offèrta dagli iniziali 150 miliardi fino a 340 miliardi". Nell'edizione del 20.6.1990 del Sole 24 Ore (doc L 21 CIR) si trovava un articolo, dal titolo "Fininvest insiste per spartire l'AME", dove si leggeva: "…Sui contenuti

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della proposta Fininvest non trapelano, in via ufficiale, dettagli, ma a quanto si apprende essa prevederebbe nella spartizione di Segrate l'assegnazione a CIR della Repubblica, dell'Espresso, della Finegil, oltre a un conguaglio in denaro decisamente più consistente (si parla di 400 miliardi circa) rispetto ai 100 miliardi offerti inizialmente e, forse, alcune partecipazioni in altre società".

Alla stregua dei predetti elementi di riscontro, i quali dovevano essere valutati tenendo conto della serietà e dell'autorevolezza di quotidiani come Il Sole 24 Ore e Milano Finanza, basandosi sulle dichiarazioni del teste Sergio Erede nel corso della sua deposizione dell'8.2.2002 avanti il Tribunale penale di Milano (doc. F 7 CIR), nonché di quelle dello stesso Erede e di Corrado Passera nella prima fase del presente giudizio, i quali avevano confermato la reale esistenza della già vista proposta Fininvest del 19.6.1990 di risoluzione della "vertenza Mondadori", il Tribunale riteneva probabile che, nella fase di poco precedente e posteriore al lodo, la trattativa fra le parti si fosse focalizzata ed incentrata sulla spartizione del gruppo L'Espresso-Mondadori, nel senso di attribuire La Repubblica, L'Espresso e Finegil a CIR e Mondadori “classica” (libri, periodici e grafica) al gruppo Fininvest-Formenton (secondo uno schema che sarebbe stato seguito nella transazione 29.4.1991) con un consistente conguaglio che era stato valutato dalla stessa convenuta nell'importo di 400 miliardi di lire in favore di CIR.

Del resto, considerava il Tribunale, quella sopra descritta era la spartizione auspicata dalla “politica” e ritenuta naturale dalle parti, data l'omogeneità dei vari settori della Mondadori e l'affinità culturale fra L'Espresso, la Repubblica ed i quotidiani di Finegil.

Alla luce di tali considerazioni, il Tribunale procedeva a quantificare il danno subito da CIR per la voce in questione.

Orbene, i termini monetari della spartizione "corrotta" erano quelli indicati nella tabella al § 487 della conclusionale CIR (pag. 197), che andavano integrati, per i trasferimenti azionari da CIR a Finivest come al successivo § 489, in cui i dati

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predetti erano integrati con quelli forniti al doc 143 da Fininvest, relativo ai prezzi unitari delle azioni per gli stessi trasferimenti:

1. Trasferimenti da CIR a Fininvest
Azioni                   Quantità                  %               Pr. Unii. (£)                      Pr. Compl. (£)
AMEF ord.         14.047.343             26,94              10.000.                      140.473.430.000
AMEF r.n.c.                6.000                0,06                5.500                                33.000.000
AMEord.            11.112.307 .             27,7.              26.000                       288.919:982.000
AME priv. -        27.916.674               81,56              18.980                      529.858,472.520
AME r.n.c.           3.790.000               65,91               10.173                       38.555.670.000
                                                                                                 In totale (£) 997.840.554.520

2, Trasferimenti da Fininvest a CIR

Titoli -

Quantità

%

Pr. Unit (£)

Pr. Compl .(£)

Espresso

24.357.622

81,3

25.700

625.990.885.400

Repubblica

8.000.000

50

56.250

450.000.000.000

Finegil

50%

50



138.527.520.000

Cima Br.

4.500

30

1.281.777

5.768.000.000

GMP.

670.000

100

10.776

7.220.000.000

C. Ascoli -'

34.139.421

68,3 -

5.272

179.983.027.512.

In totale (£) 1.407.489.432.912

3.Conguaglio a carico di CIR (£)

1 (997.840.554.520) - 2 (1.407.489.432.912) = - 409.648.609.550

Per il confronto fra i dati di cui alla “spartizione corrotta” e quelli di cui alla “spartizione pulita 1” (e cioè di quella elaborata secondo le condizioni del Piano Accordo 30. 3.1990 di CIR), si prendevano in considerazione i seguenti prospetti sviluppati sulla base dei conteggi di cui alle pagine da 200 a 208 della conclusionale CIR:

Piano Accordo 30 marzo 1990

1. Trasferimenti da CIR a Fininvest

Azioni

Quantità

Pr. Unii. (£)

Pr. Compl (£)

AMEF ord.

13.704.075

18.243

250,0 mlr

AME ord.

11.146.219

40.000

445,8 mlr

AME priv. -

27.919/774

27.500

767,8 mlr

AME r.n.c.

3.724.760

15.000

55,9 mlr

75

In totale (£)1.519,5 mlr

2. Trasferimenti da Fininvest a CIR

Titoli

Quantità

%

Pr. unit. (£)

Pr. Compl. (£)

Espresso

15.534.842

51,9

30.000

466 mlr

Repubblica

8.000.000

50

50.000

.400 mlr

Finegil

50%

50



75 mlr

In totale (£)

941 mlr

3. Conguaglio a carico di Fininvest (£) Avere (941 mlr) - Dare (1.519,5 mlr) = - 578,5 mlr 4.

Altre cessioni rilevanti

C. Ascoli a terzi per £ 212 mlr

Il confronto di tali dati dava luogo ad un danno inerente al minor prezzo incassato per la vendita a Fininvest delle azioni AMEF ordinarie, AME ordinarie, AME privilegiate, AME di risparmio n.c., pari a lire 527.508.938.829, nonché ad un danno inerente al maggior prezzo pagato per l'acquisto da Fininvest delle azioni Repubblica e Finegil, ed alla minusvalenza economica patita in relazione all'acquisto di una quota eccedente di azioni Espresso, pari a lire 115.067.520.000.

Il danno totale, alla stregua del Piano Accordo 30.3.1990, ammontava, quindi, a lire 527.508.938.829 + 115.067.520.000 = lire 642.576.458.829.

I termini della Proposta Fininvest del 19.6.1990 erano schematizzati nella tabella che segue:

Proposta Fininvest del 19 giugno 1990

L Trasferimenti da CIR a Fininvest

Azioni

Quantità

Pr. unii. (£)

Pr, Compi (i)

AMEF ord.

14.039.354

15.000

21 0,6 mlr

AME ord.

11.146.219

40.000

445,8 mlr

AME priv.

27.919.774

27.500

767, 8 mlr

AME r.n.c.

3.724.760

15,000

55,9 mlr

In-totàle(£)

1480,1 mlr

2. Trasferimenti da Fininvest a CIR

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Titoli

Quantità

%

Pr. unit. (£)

Pr. Compi. (£)

Espresso

15,534.842

51,9

30.000

466 mlr

Repubblica

8.000.000

50

62.500 / 500 mlr

Finegil

50%

50

--

114 mlr

In totale '(£)

1.080mlr

3. Conguaglio a carico di Fininvest (£)

Avere (1080 mlr) - Dare (1.480,1 mlr) = -

400 mlr

4. Facoltà di CIR (rilevanti)

non acquistare 2 min di azioni Espresso del valore di £60 mlr

Vendere a Fininvest 4,08 mln di azioni C. Ascoli a £ 18,4 mlr

Invero, osservava il Tribunale che i termini si differenziavano di poco da quelli del piano accordo 30.3.1990 e ciò confortava il primo giudice nel ribadire la credibilità, come elemento di confronto con la spartizione "corrotta", della Proposta Fininvest del 19.6.1990. Orbene, come emergeva dai conteggi effettuati alle pagine 214 e 215 della conclusionale attorea, le differenze fra Piano Accordo 30.3.1990 e Proposta Fininvest 19.6.1990 erano nel senso che quest'ultima risultava più penalizzante per CIR dell'importo di lire 184.529.625.022. Pertanto, per avere la misura del danno subito da CIR secondo la Proposta Fininvest 19.6.1990 (spartizione " pulita "3), bastava sottrarre dal danno subito da CIR secondo il Piano Accordo 30.3.1990, pari a lire 642.576.458.829, l'importo per il quale la Proposta Finvest 19.6.1990 era più penalizzante per CIR rispetto al Piano, e cioè lire 184.529.625.022. Si aveva quindi lire 642.576.458.829 - 184.529.625.022 = lire 458.046.833.807.

Peraltro, riteneva l'attrice che la predetta quantificazione sottostimasse il danno realmente da essa subito, e ciò per alcune ragioni obiettive:

in primo luogo, perché la Proposta Fininvest 19.6.1990 conteneva una vera e propria opzione di "put", e cioè facultizzava l'attrice a vendere alla Fininvest le proprie azioni della Cartiera di Ascoli, che invece CIR era stata costretta a comprare da Fininvest con la transazione 29.4.1991;

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in secondo luogo, perché con la stessa Proposta Fininvest 19.6.1990, quest'ultima dava a CIR la possibilità di comprare, in luogo di 15,5 milioni, solamente 13,5 milioni di azioni L’Espresso (dato che per CIR era sufficiente giungere al 51 % delle azioni L’Espresso, per avere il controllo della società), così risparmiando circa 60 miliardi di lire;

in terzo luogo, perché il contesto in cui era maturata la Proposta Fininvest 19.6.1990, formulata appena prima dell'emissione del lodo, era stato, per così dire, "neutro", dato che ancora non si conosceva la decisione degli arbitri, i quali invece avevano accolto le ragioni di CIR, circostanza che, ad avviso di CIR, doveva essere valutata ai fini di una realistica quantificazione della voce di danno.

Riteneva il Tribunale di dover consentire con le ragioni sopra esposte da CIR a sostegno di una domanda di aumento con criterio equitativo del danno risarcibile e di dover incrementare a tale titolo il risarcimento del danno, fino all'importo complessivo di lire 550.000.000.000, pari ad € 284.051.294,49, per tener conto del differenziale fra le condizioni della spartizione "pulita 3” rispetto a quelle della spartizione " corrotta".

Il giudice di prime cure procedeva poi all’analisi del danno inerente il pagamento delle spese legali.

Riteneva il Tribunale che l'attrice avesse diritto al risarcimento del danno relativo alle spese sostenute nel procedimento arbitrale, nel giudizio di impugnazione davanti alla Corte di Appello di Roma e nel successivo ricorso per cassazione. Esse erano state, infatti, sostanzialmente inutili, posto che la decisione della Corte d'Appello di Roma era stata presa in base a criteri del tutto diversi dalla qualità della difesa legale di cui CIR si era dotata e le spese per il ricorso per cassazione non sarebbero state sostenute da CIR se l'illecito non fosse stato commesso.

Tutte le predette spese ammontavano, come da fatture saldate prodotte a doc. M 5 CIR, a lire 11.384.336.552.

A detto importo andavano aggiunte le spese legali che la Corte d'Appello di Roma aveva disposto che CIR dovesse rifondere, in virtù della sua ritenuta soccombenza in

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favore dei Formenton, con riferimento tanto alle spese del giudizio arbitrale come al giudizio di impugnazione, il tutto per un importo di lire 4.508.360.000.

Complessivamente si determinava il danno di lire 15.892.696.552 pari ad € 8.207.892,77.

Quanto al danno patrimoniale da lesione dell'immagine imprenditoriale, riteneva il Tribunale che la sentenza n. 259/1991 della Corte di Appello di Roma non avesse potuto non avere delle ripercussioni negative sulla immagine imprenditoriale della società attrice, che si vide esposta per effetto di quella sentenza ad una bruciante sconfitta sul progetto della creazione di una grande casa editrice di livello internazionale, di libri, periodici e quotidiani, la "Grande Mondadori", nel quale, evidentemente, essa aveva creduto.

Infatti, da alcuni articoli di stampa, quali il Sole 24 Ore del 25.1.1991 (doc L 35 CIR) ed il Resto del Carlino del 25.01.1991 (doc. L 34 CIR), si evinceva che la sconfìtta giudiziaria aveva avuto come conseguenza una caduta della quotazione dei titoli CIR in borsa.

Tale dato oggettivo andava valutato considerando che l'esito negativo di una controversia così importante per CIR non poteva non avere avuto conseguenze negative sull'andamento della società attrice stessa e sulle sue prospettive.

Con ciò era provata la sussistenza del lamentato danno all'immagine imprenditoriale di CIR, che doveva essere liquidato con criterio equitativo nell'assenza di altri possibili indicatori. Valutata l'entità grave del torto subito da CIR in relazione alle dimensioni reali del predetto progetto, che era stato vanificato dalla sentenza Metta, il Tribunale stimava di giustizia quantificare il predetto danno, nella moneta di allora, in lire 40.000.000.000, pari ad € 20.658.276,00, somma alla quale, come del resto per le altre voci di danno, andavano addizionati la rivalutazione monetaria e gli interessi compensativi medi.

Complessivamente il danno patrimoniale si componeva: 1) della somma di € 284.051.294,49 a titolo di danno derivante dalle condizioni deteriori alle quali era stata pattuita la spartizione del gruppo L'Espresso - Mondadori, rispetto alle condizioni

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di una trattativa non inquinata dalla corruzione del giudice Metta; 2) della somma di € 8.207.892,77 per danno da spese legali sostenute; 3) della somma di € 20.658.276,00 per danno da lesione dell'immagine imprenditoriale dell'attrice.

Il tutto dava un importo complessivo di € 312.917.463,26, che doveva essere rivalutato dalla data di commissione dell'illecito, che andava fatta coincidere con quella di deposito della sentenza n. 259/1991 della Corte d'Appello di Roma (24.01.1991), ed addizionata di interessi compensativi medi per un totale in moneta attuale di € 543.750.834,31 per capitale ed € 393.693.680,61 per interessi compensativi medi; si determinava così l'importo complessivo di € 937.444.5.14,92 oltre ad interessi legali dal dì della pronuncia al saldo.

Orbene, in ossequio alla affermazione che il danno concretamente ritenuto nella fattispecie era danno da perdita di “chance”, occorreva quantificare in percentuale la predetta “chance” in relazione alla fattispecie concreta.

Il Tribunale evidenziava che la censurabilità del lodo arbitrale rituale di equità era molto contenuta. A ciò doveva essere aggiunto che, nella fattispecie, ne era molto più facile una conferma che non un annullamento: per quest'ultima ipotesi, invero, era necessario non solo valutare che i patti di sindacato fossero nulli, argomento già questo controverso, ma era anche necessario ritenere la inscindibilità dei patti di sindacato, ritenuti per ipotesi nulli, dalla promessa di permuta. Per la conferma del lodo non era invece necessario che i patti di sindacato fossero ritenuti validi: anche un giudizio di nullità dei patti medesimi poteva condurre alla sostanziale conferma del lodo arbitrale, ove il giudice dell'impugnazione, come avevano fatto gli arbitri, avesse ritenuto i patti di sindacato scindibili dal resto della convenzione 21.12.1988, e segnatamente dalla promessa di permuta.

Pertanto, sia in linea generale sia con riferimento alla fattispecie concreta, le “chances" di una conferma del lodo arbitrale di equità erano molto elevate. Confortavano il giudice di prime cure, come semplice elemento di riscontro, le valutazioni che precedevano, la perizia giurata fatta eseguire da una ricercatrice universitaria in materie giuridiche sull'esito dei giudizi di impugnazione di lodi arbitrali innanzi alla

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Corte di Appello di Genova (docc. M 14 ed M 15 CIR) per gli anni dal 2002 al 2006, dalla quale emergeva che nel periodo considerato erano pochissime le sentenze che avevano annullato il lodo nei casi di lodi arbitrali di diritto ed in nessun caso si era avuto l'annullamento del lodo nei casi di lodi arbitrali di equità, di lodi internazionali e lodi dichiarati non impugnabili.

Pertanto il Tribunale, sulla base di dette considerazioni, riteneva di dover quantificare la “chance” di ottenere una conferma del lodo Pratis in una misura percentuale che era congruo determinare nell'80 %. Orbene, l'80% di € 937.444.514,92 era pari ad € 749.955.611,93, somma al pagamento della quale, a titolo di danni patrimoniali, la società convenuta doveva essere condannata in favore dell'attrice per la causa risarcitoria dedotta in giudizio, il tutto con gli interessi legali sulla predetta somma dal dì della sentenza del Tribunale al saldo.

Quanto al danno non patrimoniale, evidenziava il Tribunale che l'attrice aveva chiesto la condanna generica della convenuta al risarcimento di tale tipo di danno, riservandosi di chiederne la quantificazione in diverso giudizio.

Orbene, riteneva il giudice di prime cure che detta domanda di accertamento del danno non patrimoniale soltanto sull'an fosse nella fattispecie ammissibile, nonostante il consolidato principio della non frazionabilità dei danni risarcibili derivati da un unico fatto illecito, che di regola dovevano essere richiesti e liquidati nello stesso giudizio. Infatti, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, questo principio incontrava delle eccezioni, che erano da identificare, per quel che qui rilevava, essenzialmente nell'ipotesi in cui fin dall'atto di citazione l'attore avesse proposto domanda di accertamento di uno dei danni risarcibili solo sull'an, riservandone ad altro giudizio la quantificazione.

Infatti, nella sentenza n. 2869 del 26.2.2003 della Corte di Cassazione si leggeva (pagg. 5 e sgg ): “...Invero il principio dell'unità, dal punto di vista sostanziale, del diritto al risarcimento del danno (sia da inadempimento contrattuale sia da illecito extracontrattuale) ha come logico corollario, sul piano processuale, il principio, condiviso da dottrina e giurisprudenza (Cass. n. 10702/98 ), della c.d. infrazionabilità

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o inscindibilità del giudizio di liquidazione del danno, il quale esige che alla liquidazione, di regola, si faccia luogo in un unico, complessivo contesto e quindi in un solo processo. Può dirsi consolidato l'indirizzo che, pur facendo salva, in linea di massima, l'inscindibilità del giudizio sul "quantum debeatur", riconosce, per un verso, che sussistono alcune eccezioni - o previste espressamente dalla legge, seppure nell'ambito di diverse fasi di un medesimo processo (quella dell'art. 278 cpv CPC, della condanna ad una provvisionale, con prosecuzione del processo per la liquidazione definitiva; quella dell'art. 345 cpv CPC, della possibilità di ottenere in appello i danni sofferti dopo la sentenza di primo grado), o ricavabili dal sistema (come quella di un giudicato che riservi ad altro processo la liquidazione di una parte del danno e quindi superi con la sua forza il principio giuridico dell'inscindibilità della domanda di liquidazione del danno ) - e per altro verso enuclea un'ipotesi assai più generale, nascente dal riconoscimento di una certa disponibilità delle parti nel processo, che cioè la scissione del giudizio di liquidazione sia accettata da entrambe le parti. Non manca chi sostiene che questa ipotesi tragga legittimità dall'art. 112 CPC, dal quale si desumerebbe che, in relazione al rapporto obbligatorio, il creditore possa agire "pro parte" in momenti diversi e che il giudicato, in tal modo, si formi solo su quella parte del rapporto che forma oggetto della domanda, sicché sarebbe arbitrario negare una tale possibilità in relazione all'azione avente ad oggetto il risarcimento del danno. L'unitarietà del diritto al risarcimento ed il suo riflesso processuale dell'ordinaria infrazionabilità del giudizio di liquidazione (scaturente dal rispetto dei canoni della concentrazione e della correttezza processuale) comportano, dunque, che, quando un soggetto agisce in giudizio per chiedere il risarcimento dei danni a lui cagionati da un dato comportamento del convenuto, la domanda si riferisce a tutte le possibili voci di danno originate da quella condotta.

Perché tale principio non trovi applicazione è necessario che sia esclusa "a priori "la potenzialità della domanda a coprire tutte le possibili voci di danno, la qual cosa può accadere solo quando tale esclusione sia adeguatamente e nei modi opportuni manifestata dall'attore, o "ab initio" o nel corso del processo. Infatti, il principio

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dell'infrazionabilità della richiesta di risarcimento va coordinato con il principio dispositivo della domanda (art. 99 e 112 CPC)...".

Orbene, nella fattispecie la società attrice aveva fin dall'atto di citazione richiesto la condanna della convenuta al risarcimento del danno non patrimoniale in forma generica e detta circostanza rendeva detta domanda ammissibile, sulla base dei criteri esposti nella citata pronuncia del Supremo Collegio, che erano stati confermati anche più recentemente nella sentenza n. 17873 del 22.8.2007.

Invero, a parere del Tribunale, il danno non patrimoniale era sussistente sotto due profili: come lesione del diritto, costituzionalmente garantito, ad un giudizio reso da un giudice imparziale; come lesione della propria integrità e della propria onorabilità e reputazione di persona giuridica.

Sotto entrambi i profili, il giudice di prime cure rammentava che le sentenze nn. 8827 ed 8828 del 2003 della Corte di Cassazione, così come, più di recente, la nota sentenza n. 26972 dell' 11.11.2008 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, avevano sancito il superamento del principio, fondato sulla lettura tradizionale degli artt. 2059 CC e 185 CPC, secondo il quale il danno non patrimoniale era risarcibile solo nei casi di fatto illecito costituente reato. Le predette sentenze avevano, infatti, affermato che il danno non patrimoniale è risarcibile tutte le volte che vengono lesi valori della persona, che trovano riconoscimento e tutela nella Costituzione. La giurisprudenza, ormai consolidata, della Corte di Cassazione aveva inoltre sancito il superamento del principio che solo la persona fisica possa essere titolare di danno non patrimoniale risarcibile, in quanto solo questa può avvertire la sofferenza psicologica, che costituisce l’essenza del danno morale.

Invero, una volta superata l'identificazione del danno non patrimoniale col danno morale e riconosciuto che anche la persona giuridica è titolare di diritti personali costituzionalmente garantiti, la cui lesione costituisce danno risarcibile (sent. Cass. n. 12929 del 4.6.2007), nessun ostacolo sussisteva alla affermazione che nella specie erano stati lesi i diritti costituzionalmente garantiti della persona giuridica CIR spa sotto i due profili già accennati: in primo luogo, era stato leso il diritto dell'attrice ad

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un giudizio reso da un giudice imparziale, diritto riconosciuto dalla Costituzione all'art. 24 (tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi) ed all’art. 111 (la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge).

In secondo luogo CIR era stata lesa nel suo diritto alla immagine ed alla reputazione, che erano state sicuramente danneggiate dall’ingiusta sentenza della Corte di Appello di Roma, frutto della corruzione del giudice Metta.

Infatti, della predetta sconfitta giudiziaria avevano dato notizia i giornali quotidiani (articoli di stampa a docc. L 34 e 35 CIR ), così come presumibilmente anche gli altri media, e ciò si era risolto certamente in un colpo alla reputazione ed all'immagine di CIR, quale compagine societaria che aveva cercato di creare la "Grande Mondadori".

Occorreva, pertanto, pronunciare condanna generica della convenuta al risarcimento del danno non patrimoniale derivato dal fatto illecito, con riserva da parte dell'attrice di chiederne la quantificazione in successivo giudizio.

Le spese del giudizio seguivano la soccombenza.

MOTIVI DI APPELLO DI FININVEST E DI APPELLO INCIDENTALE DI CIR

Della pronuncia del Tribunale di Milano n. 11786/2009, resa in data 3.10.2009, si doleva in principalità Fininvest, che, con atto di appello ritualmente notificato a controparte, svolgeva nove doglianze avverso la menzionata sentenza.

Il primo motivo consisteva nella erroneità della sentenza per violazione e falsa applicazione degli articoli 2043, 1223 e 2056 CC, nella parte in cui riconosceva il danno subito da CIR come danno da perdita di “chance”.

La seconda doglianza era relativa al fatto di avere ritenuto che CIR avesse avuto rilevanti possibilità di ottenere una sentenza di conferma del lodo Pratis e quindi al fatto di avere giudicato “ingiusta” la sentenza della Corte di Appello di Roma.

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Il terzo motivo di gravame consisteva nella prospettata erroneità della pronuncia nella parte in cui aveva ritenuto il preteso fatto illecito (corruzione del giudice Metta) idoneo a determinare il danno: a) per non avere considerato interrotto il nesso di causalità a seguito della rinuncia di CIR al ricorso per Cassazione avverso la sentenza della Corte di Appello di Roma, b) per avere respinto l’eccezione di transazione conseguente alla stipula dell’accordo transattivo; c) per avere respinto l’eccezione di giudicato.

Il quarto motivo di appello era riferito alla omessa applicazione della prescrizione estintriva del diritto azionato.

In quinta istanza, l’appellante si doleva del fatto che il primo giudice avesse ritenuto, ai fini civili, la sussistenza di un fatto di corruzione.

La sesta doglianza afferiva alla circostanza di avere ritenuto Fininvest responsabile del preteso fatto illecito, affermandone la responsabilità in riferimento ai comporatamenti ritenuti in capo a Silvio Berlusconi e Cesare Previti.

Il settimo motivo era relativo all’errore nella determinazione del danno risarcibile, 1) sia quanto al preteso danno da indebolimento della posizione negoziale, 2) sia per quanto atteneva alle spese legali, 3) sia in relazione alla lesione dell’immagine imprenditoriale. Contestualmente Fininvest lamentava anche l’erronea qualificazione del danno.

L’ottava doglianza consisteva nell’avere riconosciuto sull’ammontare complessivo di euro 312.917.463,26 la rivalutazione “addizionata di interessi compensativi medi”.

Infine, Fininvest lamentava, come nono motivo di appello, il fatto che il primo giudice avesse ingiustamente accolto la domanda di condanna generica per danno non patrimoniale.

Si costituiva CIR, che replicava alle doglianze di controparte e svolgeva appello incidentale relativo a quattro punti della sentenza.

In primo luogo, lamentava la ridotta quantificazione del danno patrimoniale da lesione dell’immagine imprenditoriale, avendo il giudice di prime cure fatto ricorso alla valutazione equitativa in modo riduttivo, poiché aveva fatto riferimento unicamente alla “vanificazione del progetto Grande Mondadori” con conseguente caduta dei titoli in borsa: il Tribunale non aveva considerato la conseguente ridotta capacità di CIR di reperire risorse proprio nel momento in cui era stata chiamata a compiere l’enorme sforzo finanziario per il pagamento

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del conguaglio impostole dalla spartizione corrotta; inoltre, il giudice di prime cure non aveva valorizzato il marchio di “perdente” di CIR davanti all’opinione pubblica.

In secondo luogo, CIR si doleva della reiezione della propria domanda principale relativa al riconoscimento di un nesso immediato e diretto fra la corruzione di Metta e l’annullamento del lodo; il Tribunale aveva errato nella applicazione delle norme sul nesso di causalità: la corretta applicazione del canone “più probabile che non” rendeva ampiamente provata l’esistenza di un nesso di causalità immediato, diretto e non interrotto, fra la corruzione di Metta e l’annullamento del lodo; infatti, il termine di riferimento della valutazione probabilistica non doveva rapportarsi ad una astratta figura di “giudice incorrotto”, come aveva fatto il Tribunale, ma alla figura di “Metta incorrotto”, con la conseguente sussistenza di un danno immediato e diretto per CIR a seguito della sentenza incriminata.

In terza istanza, in subordine al motivo di cui sopra, CIR si doleva della ridotta percentuale applicata per quantificare il danno da perdita di “chance”.

Come ultima doglianza CIR lamentava la quantificazione delle spese di giudizio liquidate in suo favore in misura inferiore ai minimi tabellari.

CIR svolgeva poi, precauzionalmente, appello incidentale condizionato; infatti, a fronte delle tesi per cui in primo grado CIR aveva sostenuto che i patti parasociali di cui all’accordo CIR – Formenton fossero stati validi e Fininvest che non lo fossero, il Tribunale, nella impugnata sentenza, aveva ritenuto la questione “opinabile”: l’appello era condizionato al fatto che potesse essere ritenuta giusta la sentenza Metta “ove i patti fossero stati realmente invalidi”.

CIR, inoltre, proponeva appello incidentale condizionato in relazione al ruolo di Cesare Previti, nel caso in cui la Corte non riconoscesse la sussistenza di un “mandato generale”, dovendosi in questo caso ritenere che svolgesse la funzione di amministratore di fatto per Fininvest.

Appello incidentale condizionato veniva, infine, svolto da CIR per il caso in cui la Corte non valutasse che Fininvest dovesse rispondere ex art 2049 CC dell’operato dei due autori della corruzione di Metta, o anche di uno solamente degli stessi, dovendosi ritenere il

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coinvolgimento diretto di Fininvest nella corruzione di Metta, a prescindere dalla commissione dell’illecito da parte di Previti e/o Berlusconi.

Appare necessario procedere ad affrontare in modo sistematico le doglianze, anche incrociate, di parte appellante ed appellante incidentale, seguendo uno schema organico, a prescindere dalla progressione prospettata dalle parti.

Si deve, poi, tenere presente che il principio devolutivo deve, quanto meno, essere commisurato alla norma di cui all’articolo 342 CPC, che prevede che l’appello deve contenere i motivi specifici dell’impugnazione; in questa prospettiva, i motivi dell’atto introduttivo (tale ed unicamente essendo l’atto devolutivo), pena la inammissibilità dell’appello, devono essere rivolti ad individuare non solo le singole questioni che delimitano l’oggetto del riesame, ma anche le concrete ragioni della censura, cioè gli asseriti errori di giudizio o di procedura commessi dal giudice di primo grado (Cass. 05/2041, Cass. 04/8926, Cass. 04/7773): in questa accezione non sono ammissibili doglianze generiche che si risolvano in mera riproposizione di difese già esposte in primo grado ed alle quali il Tribunale abbia già fornito risposta.

IL QUARTO MOTIVO DI APPELLO DI FININVEST

ECCEZIONE DI PRESCRIZIONE

Poste queste premesse, in primo luogo è opportuno prendere in considerazione il quarto motivo di appello di Fininvest, laddove si lamentava la mancata declaratoria della prescrizione delle pretese attoree per responsabilità extracontrattuale, azionate solamente in data 6.4.2004.

Ribadiva Fininvest che la prescrizione era decorsa dal giorno in cui il fatto illecito si era verificato, come testualmente dispone l’articolo 2947, comma primo, CC.

La conoscenza del fatto, secondo la prospettazione di CIR, coincideva con la produzione del danno: doveva quindi ravvisarsi nella sottoscrizione della transazione in data 29.4.1991.

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A ben guardare, a detta di Fininvest, la conoscenza del fatto si era verificata ancora prima, fra la fine del 1990 e l’inizio del 1991, in quanto sia l’ing. De Benedetti che l’avv. Vittorio Ripa di Meana avevano dichiarato (docc da 71 a 74 Fininvest) che in tale periodo avevano avuto conoscenza del fatto che la sentenza della Corte di Appello di Roma era stata “comprata”.

Certamente, la conoscenza del fatto non poteva ricondursi alla data del 15.12.1999, quando a CIR era stato notificato il rinvio a giudizio di Silvio Berlusconi e di Cesare Previti: ai fini della decorrenza della prescrizione il fatto doveva essere conosciuto in sé, a prescindere dalla circostanza che costituisse o meno reato.

Il giudice di prime cure aveva confuso gli elementi: se la conoscenza del fatto doveva coincidere con la qualificazione dello stesso come reato, essa doveva allora, per paradosso, decorrere dal passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna, avvenuta per Cesare Previti nell’anno 2007 e, dunque, addirittura dopo l’inizio della presente causa per risarcimento dei danni, la quale, quindi, non poteva ancora essere radicata ed avere corso.

Ad avviso di Fininvest, poi, il termine prescrizionale era quello quinquennale, in quanto la domanda di CIR era stata accolta in relazione al risarcimento del danno per perdita di “chance”; la pretesa corruzione del giudice Metta non si identificava quindi con il fondamento dell’azione civile: infatti, “la possibilità di invocare utilmente il più lungo termine di prescrizione stabilito dall’ultimo comma dell’articolo 2947 CC… non è invocabile nel caso in cui l’imputazione penale si riferisca a fatti connessi ma non identificabili con quello addotto a fondamento dell’azione risarcitoria in sede civile” (Cass. 21.3.1996 n. 2432).

Ma, anche se si fosse ritenuto di applicare il termine decennale, l’azione sarebbe stata comunque prescritta. Infatti, non era condivisibile l’argomentazione del giudice di prime cure, secondo il quale il termine prescrizionale sarebbe stato interrotto anche nei confronti di Fininvest con la costituzione di parte civile di CIR in data 28.2.2000 nei confronti di Silvio Berlusconi e di Cesare Previti in quanto, a detta del Tribunale, operava la norma di cui all’articolo 1310 CC, che prevedeva che “gli atti con i quali il creditore interrompe la prescrizione contro uno dei debitori in solido…hanno effetto riguardo agli altri debitori o

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agli altri creditori”; Fininvest non era debitrice in solido né con Silvio Berlusconi né con Cesare Previti: infatti, il primo “era, al tempo dei fatti (e fino al 29 gennaio 1994) presidente e legale rappresentante di Fininvest e dunque non legato alla società da un rapporto rilevante ex art 2049 C C” (così atto di appello pagina 73). A ciò si doveva aggiungere che Fininvest non poteva neppure in astratto essere considerata condebitore solidale con Silvio Berlusconi in quanto, come aveva ritenuto lo stesso Tribunale (sent. impugnata pag. 122), “la responsabilità della società di capitali per il fatto illecito del legale rappresentante o amministratore è responsabilità diretta e non responsabilità per fatto altrui: ciò perché la società avente personalità giuridica agisce attraverso i suoi organi sociali”.

Fininvest, inoltre, non era debitrice in solido neppure con l’avvocato Cesare Previti, che non poteva essere considerato mandatario generale in quanto mancava una “continuità di incarico” come invece richiedeva la giurisprudenza richiamata proprio dal giudice di prime cure. Tanto meno, si poteva ritenere che il mandato “generale” comprendesse l’incarico di corrompere un giudice, nella specie il dottor Metta: non si poteva dunque asserire, come aveva fatto il giudice “a quo”, che l’operato di Previti fosse stato posto in essere su incarico e nell’interesse di Fininvest (sent. appellata pag. 125).

Considerava l’appellante che il proprio presunto interesse (“cui prodest”), ritenuto dal giudice di prime cure, non poteva fondare una responsabilità ai sensi dell’articolo 2049 CC. In dottrina si riteneva, infatti, che nella gestione di affari (art 2028 CC, il cui tratto distintivo era l’inesistenza di un incarico) il beneficiario dell’attività non fosse responsabile per il fatto del gestore.

Considera questa Corte che, ai sensi della norma di cui all’articolo 2935 CC, la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere e, cioè, solo da quando il danneggiato può venire a conoscenza del danno ingiusto e della sua derivazione causale da un altrui fatto doloso o colposo, specifico in tutti i suoi elementi rilevanti: sul punto, appare correttamente citata dal giudice di prime cure Cassazione sent. n. 2645 del 21.2.2003.

In sostanza, il “dies a quo” del decorso della prescrizione del diritto al risarcimento del danno per responsabilità aquiliana deve essere rapportato al momento in cui il titolare del

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diritto sia in grado di disporre di tutti i dati in ordine agli elementi costitutivi del diritto azionato, senza la cui conoscenza l’attore non potrebbe dunque agire in giudizio: sul punto si confronti Cassazione SU 11 gennaio 2008 n. 581 e 583.

In proposito, si evidenzia che anche la domanda di CIR accolta dal giudice di prime cure, e cioè quella formulata in via subordinata, era così articolata: “accertare e dichiarare che, per l’insieme degli elementi di fatto e diritto esposti nella narrativa dell’atto di citazione CIR e nelle successive difese, e segnatamente in forza degli artt. 2043 e/o 1337 e/o 1440 CC, CIR Compagnie Industriali Riunite S.p.A. ha diritto nei confronti di Fininvest Finanziaria di Investimento S.p.A. al risarcimento del danno patrimoniale per perdita di “chance” subìto a causa dell’illecito, di cui l’attrice fu vittima, di corruzione in atti giudiziari, così come descritto negli atti di parte attrice e definitivamente accertato con sentenza della Corte d’Appello penale di Milano n. 737/2007, danno da quantificarsi in misura non inferiore all’87% dell’importo chiesto a titolo di danno patrimoniale in via principale…”

La corruzione in atti giudiziari, dunque, anche nella allegazione di CIR riferita alla domanda subordinata, anche a voler prescindere da quanto si dirà appresso in relazione al tipo di danno risarcibile, è elemento fondante della ingiustizia del danno subito.

Ne consegue che correttamente CIR indica in ogni caso il “dies a quo” del decorso della prescrizione nella data del 15.12.1999, coincidente con la notifica della richiesta di rinvio a giudizio e della fissazione dell’udienza preliminare a carico di Berlusconi, Previti, Acampora, Pacifico e Metta: infatti, solo in tale momento si appalesano i requisiti di certezza in ordine agli elementi costitutivi del diritto azionato, in quanto solo a questo punto il diritto appare corroborato dai riscontri costituiti dai risultati delle indagini svolte dall’autorità giudiziaria, che fornivano alla ipotesi di corruzione i crismi di una giustificata credibilità che non fosse costituita da mere “voci di palazzo”.

In questa prospettiva appare dunque irrilevante la circostanza che Carlo De Benedetti e l’avv. Ripa di Meana avessero dichiarato (docc da 71 a 74 Fininvest) che, fra la fine del 1990 e l’inizio del 1991, avevano avuto sensazione del fatto che la sentenza della Corte di Appello di Roma fosse stata “comprata”.

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Infatti, in data 4.12.1997, avanti ai pubblici ministeri di Milano, l'ing. De Benedetti, dopo aver detto che all'epoca non avrebbe mai pensato che si comprassero sentenze, si era limitato a riferire quanto segue: «ho successivamente cambiato la mia opinione ed è da tempo mia convinzione personale che un'altra sentenza che mi ha riguardato, quella relativa all'annullamento del lodo Mondadori da parte della Corte d'Appello di Roma sia stata comprata. Anzi, da parte degli avvocati addirittura si diceva già allora che la sentenza era stata battuta a macchina nello studio dell'avvocato Acampora. Questo mi è stato detto dall'avvocato Vittorio Ripa Di Meana. Voci analoghe mi arrivavano da Caracciolo, che mi diceva di averle apprese dai suoi avvocati e peraltro sono in grado di produrre una storia sulla vicenda Mondadori redatta dal mio ufficio, nella quale tra l'altro è riportato a pagina 28 che in data 25 gennaio 1991 "II Sole" definiva "annunciata" la sentenza con cui è stata annullato il lodo Mondadori. Preciso che l'avvocato Ripa Di Meana, che a sua volta riportava cose sentite nell'ambiente, credo, degli avvocati di Roma, disse che la sentenza della Corte d'Appello con cui è stato annullato il lodo era costata 10 miliardi, più la promessa della presidenza della Consob a Sammarco. Per prevenire questa nomina, o comunque per fare in modo che proprio non si arrivasse a completare lo scandalo, Visentini chiese a Giorgio La Malfa di fare un intervento in Parlamento contro la nomina di Sammarco alla Consob, nomina che a seguito di questo intervento non ebbe corso…».

Interrogato poi in data 11 dicembre 1997, l’avv. Ripa di Meana si limitava a precisare di aver appreso dal Presidente della Consob, Bruno Pazzi, “nel dicembre '90, cioè una ventina di giorni prima della decisione della Corte d'Appello”, l'esito sfavorevole del giudizio e che del "prezzo" della decisione avrebbe fatto parte la nomina del presidente Sammarco alla presidenza Consob in quanto "sponsorizzato dall'allora Presidente del Consiglio Andreotti…".

Come bene si può intendere, tali considerazioni rappresentano delle “mere voci” riferite ad “ambienti informati”, fatti distanti però dalla “prova certa” che l’attore avrebbe avuto l’onere di fornire per la tutela giuridica dei propri interessi (Cassazione SU 11 gennaio 2008 n. 581 e Cassazione sent. n. 2645 del 21.2.2003): rileva infatti questa Corte che De Benedetti e Ripa di Meana non sapevano neppure chi fosse in ipotesi il corruttore (Fininvest?, i Formenton?,

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altri soggetti interessati?) e chi il corrotto (Metta ?, un altro componente del collegio?, un diverso pubblico ufficiale?), con evidente impossibilità di adire l’autorità giudiziaria civile ai fini risarcitori.

Ciò detto, si deve aggiungere che - in relazione ai fatti specificamente individuati e qualificati come reato ex art. 319 ter CP – CIR indicava il termine prescrizionale, nella memoria ex art 170, comma secondo e 170, comma quarto, CC, in anni dieci ai sensi dell’articolo 2947 comma terzo CC: tale valutazione è condivisa da questa Corte dal momento che il reato di corruzione in atti giudiziari, contestato agli imputati, prevedeva una pena massima di anni otto, con la conseguenza che il delitto si prescriveva in anni dieci ai sensi dell’articolo 157 CP.

Comunque, a tutto voler concedere, dovendosi ritenere che il “dies a quo” per la decorrenza della prescrizione deve essere fatto decorrere dalla data del 15.12.1999, quando a CIR era stato notificato il rinvio a giudizio di Silvio Berlusconi e di Cesare Previti, considerato che la presente azione veniva iniziata in data 6.4.2004, qualunque fosse il termine, decennale o quinquennale, la prescrizione non era ancora maturata.

Tale conclusione è dunque assorbente di qualunque altra considerazione; ad ogni buon conto e per ogni effetto si procede alla valutazione degli ulteriori motivi svolti dall’appellante.

Obiettava Fininvest che il termine prescrizionale era quello quinquennale in quanto la domanda di CIR era stata accolta in relazione al risarcimento del danno per perdita di “chance”: la pretesa corruzione del giudice Metta non si identificava quindi con il fondamento dell’azione civile.

Considera questa Corte che l’argomento è fuorviante nel caso di specie, in quanto, a prescindere da quanto ci si accinge a dire in relazione al tipo di danno riscontrabile nella fattispecie in esame, anche nella domanda subordinata svolta da CIR ed accolta dal Tribunale, l’allegazione attorea era comunque quella per cui la perdita di “chance” derivava proprio dall’illecito di corruzione in atti giudiziari: in sostanza, anche nella domanda subordinata, come in quella principale, sussiste un nesso causale fra la corruzione del giudice Metta e la perdita della possibilità di avere una sentenza giusta

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che non avrebbe indebolito la posizione negoziale di CIR nel momento della transazione avvenuta in data 29.4.1991.

Fininvest, in comparsa conclusionale (pag 88), ribadiva l’inapplicablità del terzo comma dell’articolo 2947 CC invocando la pronuncia di Cassazione 16.12.2005 n. 27713 che, in motivazione, recita: ”la possibilità di invocare utilmente il più lungo termine di prescrizione stabilito dall'ultimo comma dell'art. 2947 CC, per le azioni di risarcimento del danno, se il fatto è previsto dalla legge come reato, è limitata alle sole ipotesi di azioni per responsabilità extracontrattuale (dovendo altrimenti trovare applicazione la disciplina generale della prescrizione o quella di volta in volta contemplata dalla legge per il singolo contratto) e presuppone che vi sia identità tra il fatto costituente reato e quello dal quale scaturisce la responsabilità dedotta in sede civile; con la conseguenza che l'indicato termine di prescrizione non è invocabile nel caso in cui l'imputazione penale si riferisca a fatti connessi, ma non identificabili con quello addotto a fondamento dell'azione risarcitoria in sede civile".

Sul punto, ribadito ancora una volta che la prescrizione per quanto sopra detto non è comunque maturata nel caso in esame sia che si consideri il termine decennale che quello quinquennale, questa Corte non può che considerare che l’azione svolta da CIR è proprio di responsabilità extracontrattuale e si basa sulla corruzione del giudice Metta, autore della sentenza della Corte d’Appello di Roma che cagionava a CIR un danno ingiusto: la corruzione è addotta, nella allegazione attorea, a fondamento dell’azione risarcitoria in sede civile.

Evidenziava poi Fininvest (comparsa conclusionale pag 89) che la citata sentenza Cassazione 16.12.2005 n. 27713 proseguiva ritenendo che "una volta assodato che i titoli di responsabilità degli obbligati in solido possono essere diversi (e addirittura possono concorrere titoli di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale) appare altresì palese che a tale diversità di titoli non può che corrispondere una diversità di disciplina dei medesimi; nel senso che, ferma restando la solidarietà, ciascun titolo è disciplinato dalle norme relative, anche in tema di prescrizione".

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Ribadisce questa Corte che il principio nulla sposta nel caso di specie: infatti, come già detto, CIR aziona un’ipotesi di responsabilità aquiliana fondata proprio sulla corruzione del giudice Metta.

Considerava, però, ancora Fininvest che in sede di costituzione di parte civile “CIR non aveva dedotto il risarcimento del danno civilistico o la responsabilità extracontrattuale (e tantomeno quelle ex artt. 1337 e 1440 CC) di Fininvest, ossia quanto poi posto a fondamento dell’azione risarcitoria decisa in questa sede, ma la diversa pretesa risarcitoria diretta derivante da reato” (comparsa conclusionale pag 89). In proposito citava il principio giurisprudenziale per cui “…la domanda giudiziale idonea ad interrompere la prescrizione agli effetti dell’articolo 2943 CC è soltanto quella avente ad oggetto il diritto della cui prescrizione si tratta” (Cass. SU 4.2.1997 n. 1049, Cass. 28.7.2004 n. 14240 ed altre).

Considera questa Corte che l’argomento è suggestivo, ma si basa sull’assioma non condivisibile per cui, a prescindere dal fatto che in quella sede veniva chiesto il risarcimento di tutti i danni, il danno risarcibile immediatamente connesso al reato debba essere unicamente quello non patrimoniale connesso alla commissione del reato stesso.

Così non è nello specifico, né può essere: tale assunto, tra l’altro, violerebbe il principio, evidenziato proprio da Fininvest, di unitarietà della liquidazione del danno, che trova la sua conseguenza nel risvolto processuale della c.d. infrazionabilità o inscindibilità di tale giudizio, il quale esige che alla liquidazione, di regola, si faccia luogo in un unico, complessivo contesto e quindi in un solo processo (Cass. n. 10702/98 e più recentemente Cass. 22.8.2007 n. 17873).

Nè può scalfire la conclusione alla quale si è pervenuti il fatto che Finivest invochi (comparsa conclusionale pag 91) il principio per cui “…la pretesa avanzata per chiedere l'adempimento di un'obbligazione risarcitoria ex art. 2043 CC non vale ad interrompere la prescrizione dell'azione successivamente esperita di risarcimento ex artt. 2049, 2050 o 2051 CC, difettando il requisito della pertinenza dell'atto interruttivo all'azione proposta (da identificarsi non solo in base al "petitum" ma anche alla "causa petendi"), in

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quanto le domande suddette si pongono in una relazione di reciproca non fungibilità e derivano da diritti cd. "eterodeterminati", per la cui identificazione, cioè, occorre far riferimento ai relativi fatti costitutivi, tra loro sensibilmente divergenti sul piano genetico e funzionale" (Così Cass. 16 dicembre 2006, n. 726).

In proposito osserva questa Corte che l’assunto non è pertinente alla fattispecie in esame, in quanto la “causa petendi” azionata da CIR è sempre rapportabile, in ogni caso, all’ipotesi di cui all’art 2043 CC (fatto illecito doloso o colposo che ha cagionato ad altri un danno ingiusto), laddove l’unica diversità, semmai, seguendo la censura di Fininvest, è il tipo di danno richiesto, non patrimoniale o patrimoniale (differenza peraltro in questo caso non rilevante, tanto più tenuto conto che corrobora la considerazione il principio appena sopra enunciato della unitarietà della liquidazione del danno - vedi ancora Cass. n. 7975 del 1997; Cass. n. 8216 del 1995, Cass. n. 1955 del 1995, Cass. n. 8787 del 1994; Cass. n. 4909 del 1996).

Ad ogni buon conto, non si può prescindere dal considerare che già il giudice di prime cure evidenziava che, comunque, anche a voler ritenere un termine diverso da quello decennale, dovendosi fissare il “dies a quo” alla data del 15.12.1999, la prescrizione era stata tempestivamente interrotta il 28.2.2000 per effetto della costituzione di parte civile di CIR nel menzionato procedimento nei confronti di Berlusconi e Previti: infatti “l’effetto interruttivo…ex art 1310 CC si dispiegò anche nei confronti di Fininvest, in quanto coobbligata in solido con le dette persone fisiche…” (cfr sent. impugnata pag 97).

Ribadisce ancora questa Corte che, comunque, tale essendo il dies “a quo”, e considerato che la presente azione veniva iniziata in data 6.4.2004, qualunque fosse il termine prescrizionale, anche a prescindere dalla sua interruzione intermedia, questo non era decorso.

Fininvest obiettava di non essere coobbligata in solido con Silvio Berlusconi e Cesare Previti. Dava atto che il primo “era, al tempo dei fatti (e fino al 29 gennaio 1994) presidente e legale rappresentante di Fininvest e dunque non legato alla società da un rapporto rilevante ex art 2049 CC”: Fininvest non poteva neppure in astratto essere considerata condebitore solidale di Berlusconi in quanto, come aveva ritenuto lo stesso Tribunale (sent. impugnata

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pag. 122) “la responsabilità della società di capitali per il fatto illecito del legale rappresentante o amministratore è responsabilità diretta e non responsabilità per fatto altrui: ciò perché la società avente personalità giuridica agisce attraverso i suoi organi sociali”.

Considera la Corte che nessuna contraddizione ipotizzata da Fininvest vizia il ragionamento del giudice di prime cure, in quanto questi, facendo evidentemente riferimento alla terminologia riferita all’ipotesi dottrinale della “immedesimazione”, descrive una situazione giuridica in relazione alla quale, anche a voler prescindere dalla norma di cui all’articolo 2049 CC, la società risponde addirittura direttamente per il fatto del legale rappresentante ovvero dell’amministratore: ciò risolve in radice la questione a prescindere dal riferimento alle norme di cui all’articolo 2049 e 1310 CC.

Correttamente nella sostanza, dunque, il Tribunale, dopo avere analizzato il comportamento tenuto da Berlusconi nella presente vicenda, conclude testualmente: “pertanto è da ritenere, incidenter tantum ed ai soli fini civilistici del presente giudizio, che Silvio Berlusconi sia corresponsabile della vicenda corruttiva per cui si procede, corresponsabilità che, come logica conseguenza, comporta, per il principio della responsabilità civile delle società di capitali per fatto illecito del loro legale rappresentante o amministratore commesso nell’attività gestoria della società medesima, la responsabilità della stessa Fininvest” (cfr sent. impugnata pag. 122).

Del resto, è opinione comunemente accettata dalla giurisprudenza che il fatto illecito commesso dalla persona fisica che operi come organo della società dia origine a responsabilità “in solido” fra persona fisica ed organo della società stessa: si confronti sul punto, ex plurimis, Cass. sez. lav. 16.4.2004 n. 7294 in ipotesi di risarcimento dei danni a seguito di infortunio sul lavoro cagionato dalla negligenza del datore di lavoro.

In questo senso e con tale ampiezza deve essere intesa la giurisprudenza già citata dal giudice di prime cure, secondo la quale “la costituzione di parte civile nel procedimento penale rientra fra gli atti interruttivi della prescrizione considerati dall’art. 2943 CC, e, come ogni altra domanda giudiziale, produce un effetto interruttivo permanente per tutta la durata del processo nei confronti tanto di coloro contro i quali venne rivolta espressamente la costituzione, quanto di tutti gli obbligati solidali, ancorché

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rimasti estranei al processo penale. Tale effetto interruttivo perdura finché non venga definito, con sentenza irrevocabile, il giudizio penale nel corso del quale sia avvenuta la detta costituzione di parte civile” (Cass. n. 15511 del 6.12.2000).

Tali considerazioni riferite alla figura di Silvio Berlusconi sono di per sé esaurienti al fine della reiezione del motivo di appello svolto da Fininvest.

E’ opportuno, però, prendere in considerazione anche la posizione di Cesare Previti, con il quale, parimenti, Fininvest assume di non essere debitrice in solido.

Orbene, Fininvest affermava che l’avv. Previti non poteva essere considerato mandatario generale, in quanto mancava una “continuità di incarico” come invece richiedeva la giurisprudenza richiamata proprio dal giudice di prime cure. Tanto meno si poteva ritenere che il “mandato generale” comprendesse l’incarico di corrompere un giudice, nella specie il dott. Metta: non si poteva dunque asserire, come aveva fatto il giudice “a quo”, che Previti avesse operato su incarico e nell’interesse della Fininvest (sent. appellata pag. 125).

Orbene, considera questa Corte che gli argomenti svolti dal primo giudice appaiono convincenti, in quanto il Tribunale, come sopra riferito, ricostruisce il ruolo di Cesare Previti evidenziando la riferibilità a Fininvest di tutto il comportamento dallo stesso tenuto con continuità e con assiduità in relazione alla gestione delle vicende di causa.

Valgano in proposito le considerazioni svolte già dal primo giudice a pag. 123 della sentenza impugnata, dove si evidenzia la sussistenza di un mandato generale in capo al predetto da parte di Fininvest, come emerge dalle testimonianze (non smentite né contestate dall’appellante) degli avvocati Vittorio Dotti (doc. F 1 ed F 8 CIR), Aldo Bonomo (doc. F 16 CIR), Carlo Momigliano (doc. F 18 CIR) e per il lavoro all’estero dal teste Angelo Codignoni, sentito nel dibattimento in appello (doc. 80 Fininvest), nonchè di Stefania Ariosto.

Infatti, come rilevato anche da CIR (vedi comparsa di costituzione pag. 121), è emerso che il contributo di Cesare Previti relativo alle questioni coinvolgenti Fininvest era del tutto atipico rispetto a quello di un mero difensore, considerato che egli non era investito di formali mandati professionali, ma era una sorta di "coordinatore a Roma, dei gruppi di lavoro formati di volta in volta dagli avvocati

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ufficialmente incaricati di seguire le controversie del gruppo " (deposizione Bonomo, doc CIR F16) o, come precisato dall'avvocato Dotti, "per disposizione di Berlusconi, era...il punto di riferimento su Roma", in quanto conoscitore degli ambienti giudiziari romani (deposizione Dotti, doc CIR F8, pag. 149; sentenza 737/2007, pag. 209)”.

A ciò si deve aggiungere la deposizione di Stefania Ariosto resa nel corso delle udienze dibattimentali del 21.5.2001 e 1.6.2001, confermativa delle dichiarazioni fatte nell'incidente probatorio del 25, 30, 31 maggio e 1 giugno 1996; la teste riferiva che durante una vacanza in barca aveva sentito parlare della questione Mondadori e Previti aveva detto che la "guerra di Segrate " era stata vinta da lui; aggiungeva che nell'ambiente si diceva che Dotti era l'avvocato degli affari leciti e Previti di quelli illeciti. Tali dichiarazioni trovano riscontro poi nelle testimonianze dell'Avv. Vittorio Dotti che, sentito alle udienze dibattimentali del 17.5.2001 (doc. F 1 CIR) e del 22.2.2002 (doc. F 8 CIR), aveva confermato che Stefania Ariosto, nel corso della loro relazione e prima dei suoi contatti con la Guardia di Finanza e la Magistratura, gli aveva parlato della "capacità" di Cesare Previti di intrattenere "rapporti di confidenza con i magistrati" e che "ciò gli serviva per ottenere risultati professionali". Sul punto, comunque, si veda anche quanto si dirà nel capitolo successivo.

Già il giudice di primo grado, dunque, evidenziava la sussistenza di una cura delle controversie legali ai massimi livelli senza delega, sulla base di un rapporto di assoluta fiducia con Silvio Berlusconi.

Ineccepibile è, dunque, la conclusione per cui “un rapporto giuridico di tal fatta non può essere qualificato come rapporto d’opera professionale, di cui manca anche il presupposto formale rappresentato dalla procura ad litem, e che esso deve essere meglio inquadrato nell’ambito del mandato generale, istituto che è più aderente e realistico per comprendere dal punto di vista giuridico le peculiarità della fattispecie”.

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A ciò si deve aggiungere una circostanza non smentita: a partire dal 1994, presso lo studio legale di Previti in Roma, Via Cicerone n. 60, si trovava una sede secondaria della Fininvest (docc. M 2 ed M 3 CIR) .

E’ corretto, dunque, a giudizio di questa Corte, rapportare tale attività di gestione, stante il suo carattere di continuità, al mandato generale: questo è istituto giuridico idoneo a configurare fra il mandante ed il mandatario proprio il rapporto di preposizione gestoria invocato da CIR a fondamento della responsabilità ex art. 2049 CC della convenuta per l’operato di Previti.

Assumeva Fininvest che non si poteva ritenere che il mandato “generale” comprendesse l’incarico di corrompere un giudice, nella specie il dott.Metta: non si poteva dunque asserire, come aveva fatto il giudice “a quo”, che l’operato di Previti fosse stato posto in essere su incarico e nell’interesse della Fininvest (sent. appellata pag. 125).

Considera questa Corte che l’affermazione appare in verità fuorviante: ciò che responsabilizza Fininvest ex art 2049 CC è la sussistenza del mandato in sé e non già il “mandato a compiere attività delittuosa”.

Considerava infine Fininvest che il suo presunto interesse (“cui prodest”) ritenuto dal primo giudice non poteva fondare una responsabilità ai sensi dell’articolo 2049 CC: in dottrina si riteneva infatti che nella gestione di affari (art 2028 CC), il cui tratto distintivo era l’inesistenza di un incarico, il beneficiario dell’attività non era responsabile per il fatto del gestore.

Ritiene in proposito la Corte, stante quanto sopra detto, che le indicate risultanze documentali evidenziano la sussistenza di un mandato generale in capo a Previti e non già una mera gestione di affari ex art 2028 CC, caratterizzata, invece, proprio dalla mancanza di alcun incarico.

Deve, pertanto, considerarsi superato il motivo di appello incidentale condizionato svolto da CIR, “per il caso in cui questa Corte non avesse concluso che Fininvest dovesse rispondere ex art 2049 CC dell’operato dei due autori della corruzione di Metta, o anche di uno solamente degli stessi, dovendosi in questo caso ritenere il coinvolgimento diretto di Fininvest nella corruzione di Metta, a prescindere dalla commissione dell’illecito da parte di

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Previti e/o Berlusconi”. Analogamente risulta assorbito l’appello incidentale condizionato di CIR in relazione al ruolo di Cesare Previti, nel caso in cui la Corte non avesse valutato la sussistenza di un “mandato generale”, dovendosi in questo caso ritenere, a detta di CIR, che Previti svolgesse la funzione di amministratore di fatto per Fininvest.

Alla luce di quanto detto, consegue che il motivo di appello di Fininvest relativo alla prescrizione del diritto azionato da CIR deve essere disatteso, dal momento che la prescrizione non era ancora maturata, poiché il relativo termine decorreva dal 15.12.1999, data in cui a CIR era stato notificato il rinvio a giudizio di Silvio Berlusconi e Cesare Previti e poichè la presente azione veniva iniziata in data 6.4.2004: dunque in tempo utile, quale che sia il termine di riferimento, decennale o quinquennale.

IL TERZO MOTIVO DI APPELLO DI FININVEST

ECCEZIONE DI TRANSAZIONE

Nel terzo motivo di appello, Fininvest, che lamentava l’erroneità della sentenza nella parte in cui aveva ritenuto il preteso fatto illecito (corruzione del giudice Metta) idoneo a determinare il danno, articolava due rilievi aventi carattere preliminare, e cioè il fatto che il giudice di prime cure avesse respinto l’eccezione di transazione conseguente alla stipula dell’accordo 29.4.1991 ed avesse altresì respinto l’eccezione di giudicato, motivi che è opportuno trattare in via pregiudiziale, stante il loro carattere potenzialmente dirimente dell’intera vicenda processuale.

In relazione alla prima eccezione, Fininvest puntualizzava che la transazione 29.4.1991 aveva eliso in radice il nesso causale tra la pretesa corruzione e la perdita di “chance” produttiva per CIR del danno lamentato. Infatti, nel testo dell’atto le parti si rendevano vicendevole dichiarazione di “nulla avere più reciprocamente a pretendere in relazione a tutte le vicende formanti oggetto delle varie procedure contenziose ed arbitrali in atto, nonché in relazione a tutti i contratti, accordi, impegni fra esse (o fra alcune di esse) stipulati, relativi e/o connessi alle rispettive partecipazioni in AME o AMEF, e che con la firma della presente scrittura si intendono consensualmente risolti, e di nulla avere più a

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contestarsi l’un l’altra – in qualsiasi sede e con qualsiasi mezzo – con riferimento alle parti e ai rispettivi Gruppi’’ (docc. Fininvest nn. 39 e 133, fascicolo di primo grado).

Assumeva l’appellante che, trattandosi di “transazione tombale”, estesa a tutte le vicende che avevano visto le parti contrapposte affrontarsi in sede giudiziaria, in essa rientrava anche ogni pretesa fatta valere da CIR nell’arbitrato e poi nel procedimento di impugnazione del lodo arbitrale innanzi alla Corte d’Appello di Roma.

Il Tribunale, dunque, in primo luogo, aveva “aggirato” la portata della transazione, avendo incongruamente opinato che dall’assenza dei rimedi negoziali (della quale si è ampiamente riferito in precedenza, allorché si è dato atto delle motivazioni in proposito esposte dal giudice di prime cure, v. sent. impugnata pagg. 52 segg) sarebbe “automaticamente” derivata la proponibilità di un’azione extracontrattuale; infatti, il giudice “a quo” non si avvedeva che “sia il punto di partenza sia quello di arrivo di un tale modo di ragionare sono privi di supporto normativo” (cfr. atto di appello pag. 62): i rimedi (di carattere contrattuale) erano astrattamente a disposizione di CIR che, evidentemente, non li aveva azionati perché consapevole della loro infondatezza.

In secondo luogo, era lampante l’errore del Tribunale, che aveva ritenuto l’azione di CIR fuori dal tema precluso dalla transazione in quanto, a detta del primo giudice, l’appellata “non aveva nozione sicura e legalmente azionabile della corruzione medesima e non può così avere transatto le proprie pretese su un fatto che non sapeva essere accaduto”. Ciò non corrispondeva al vero in quanto che la sentenza della Corte di Appello di Roma fosse stata “comprata” era stato dichiarato dal legale rappresentante di CIR (ing. De Benedetti) in sede penale nel corso dell’udienza del 28.1.2002, dove aveva sostenuto che verso la fine del 1990 l’avv. Ripa di Meana gli aveva detto di avere appreso dal presidente della Consob (dott. Pazzi) che la (futura) sentenza era stata comprata (doc. Fininvest n. 64, fascicolo di primo grado).

Il predetto, aggiungeva Fininvest, aveva riferito poi che anche il suo socio Caracciolo aveva “saputo” dai suoi avvocati di un mercimonio in ordine alla decisione della Corte di Appello, cosa – sempre a dire di CIR – confermata

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anche da Claudio Rinaldi, ex direttore del settimanale “Panorama” (doc. Fininvest n. 64, fascicolo di primo grado e doc. CIR F2, pagg. 106 e ss.). Inoltre, come già ricordato, anche in sede di deposizioni rese ai PM di Milano, gli stessi De Benedetti e Ripa Di Meana, nonché Carlo Caracciolo e Corrado Passera (docc. Fininvest da 71 a 74) avevano ripetuto che CIR già nel mese di gennaio del 1991 – e, quindi, ben prima della conclusione della transazione, avvenuta nell’aprile di quello stesso anno – aveva avuto contezza di un’avvenuta corruzione, sottesa alla sentenza della Corte d’Appello di Roma (sentenza impugnata pagg. da 66 a 68).

Su quest’ultimo punto la Corte ribadisce quanto ricostruito nel capitolo che precede e cioè che all’epoca della transazione CIR non aveva, né poteva avere una conoscenza giuridicamente significativa dell’avvenuta corruzione, ignorando persino l’identità dei corruttori e dei corrotti.

Peraltro, l’oggetto della transazione veniva, comunque, valutato dal giudice di prime cure, al fine di verificare se la lite portata dinnanzi al Tribunale si identificasse in tutto o in parte con le questioni litigiose transatte il 29.4.1991. La risposta fornita dal Tribunale era negativa in quanto nel 1991 le parti avevano concordato di transigere le proprie reciproche pretese relative solamente a “tutte le vicende formanti oggetto delle varie procedure contenziose ed arbitrali in atto, nonché in relazione a tutti i contratti, accordi, impegni fra esse (o fra alcune di esse) stipulati relativi e/o connessi alle rispettive partecipazioni in AME o AMEF” e non ad ipotesi ulteriori.

Ritiene questa Corte che la questione proposta dall’appellante sia di mera interpretazione del contenuto della sopra riprodotta clausola dell’atto transattivo 29.4.1991 e, come tale, l’operazione debba essere condotta alla luce dei principi di cui agli artt. 1362 segg. CC.

Considera la Corte che, anche dall’esame letterale della clausola, si evince che il contenuto della transazione era relativo a rapporti contrattuali, già contenziosi o meno, intercorrenti fra le parti, mentre l’oggetto del presente giudizio riguarda pretese di CIR aventi natura extracontrattuale, basate sulla corruzione del giudice

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Metta ed il conseguente indebolimento della posizione negoziale di CIR al tavolo transattivo.

In ogni caso, dunque, il rilievo che già prima della transazione CIR potesse avere contezza della corruzione in atti giudiziari non supera il limite e l’oggetto della transazione che, si ripete, è riferita unicamente ad ipotesi relative a procedure contenziose ed arbitrali, in atto al momento della transazione, nonché a “tutti i contratti, accordi, impegni fra esse stipulati relativi e/o connessi alle rispettive partecipazioni in AME o AMEF”: l’azione di responsabilità per fatto illecito determinato dalla sentenza “comprata” è pretesa diversa ed esula completamente dall’ambito della transazione, al punto che l’ipotesi in esame si sottrae alla considerazione di Fininvest per cui “la transazione copre il dedotto ed il deducibile in ordine all’oggettiva situazione di contrasto, quindi l’efficacia dell’accordo transattivo raggiunto si estende anche a quelle pretese che, ancorché inespresse, traggano comunque origine dalla vicenda transatta” (atto di appello pag. 64).

Considera in proposito la Corte che la transazione è un contratto con il quale le parti, nell’ambito della loro autonomia, si danno un assetto contrattuale che è legge fra le parti (art. 1372 CC); tale regolamento può essere intergrato solamente in casi tassativamente previsti (cfr. art. 1374 CC, art. 1339 CC ecc.), ma mai l’interpretazione può estendersi al punto tale da comprendere una regolazione degli interessi dei contraenti ulteriore rispetto alla loro volontà.

Per quanto possa occorrere, questa Corte ribadisce ancora una volta che le dichiarazioni “di consapevolezza” rese dall’ing. De Benedetti e dall’avv. Ripa di Meana non evidenziano una conoscenza della corruzione della sentenza della CdA di Roma che andasse oltre le “voci” di palazzo, fatti ingeneranti sospetti francamente insufficienti a giustificare qualsiasi conclusione o risoluzione di carattere giuridico: bene, dunque, ha fatto CIR ad azionare i suoi diritti solamente a fronte di una ragionevole certezza, dopo il provvedimento giudiziale di rinvio a giudizio dei presunti corruttori.

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Tanto premesso, non possono non essere comunque condivise nella sostanza le ragioni della difesa di CIR che, già in primo grado, per confutare l’eccezione, aveva richiamato il principio giurisprudenziale per cui “l’intervenuta transazione fra le parti della loro lite relativa ai danni da fatto illecito non ha effetto preclusivo sui danni non ancora manifestatisi” (Cass. 29.8.1995 n. 9101 e 5.8.1997 n. 7215) e cioè non conosciuti. (cfr. anche Cass. 31.5.2005 n. 11592)

Poiché, dunque, il contenuto della transazione era relativo a rapporti contrattuali intercorrenti fra le parti, mentre l’oggetto del presente giudizio riguarda pretese di CIR aventi natura extracontrattuale basate sulla corruzione del giudice Metta, non può essere neppure condiviso il riferimento che Fininvest fa all’articolo 1972 CC (transazione su un titolo nullo: è nulla la transazione relativa a un contratto illecito, ancorché le parti abbiano trattato della nullità di questo…), in quanto nel caso di specie non viene addotta alcuna invalidità riferita ad un contratto illecito, ma si agisce ai sensi dell’articolo 2043 CC.

Neppure coglie il segno (vedi comparsa conclusionale pag. 68) il riferimento all’articolo 1975 CC (non ammissibilità della annullabilità per scoperta di documenti ignoti alla parte al tempo della transazione, salvo che questi siano stati occultati dall’altra parte): infatti, si deve nuovamente evidenziare che l’azione svolta da CIR ha natura aquiliana. Essa non è preclusa dal mancato esperimento dell’azione contrattuale: uno stesso accadimento può configurare, ad un tempo, illecito contrattuale ed extracontrattuale, addirittura con relativo concorso delle pretese (Cass. SU 01/99, Cass. 00/6356, Cass. 95/2577; si veda sul punto, da ultimo, anche Cass. 16.12.2005 n. 27713, citata per esteso proprio da Fininvest a pag. 89 della comparsa conclusionale e riprodotta nel capitolo che precede).

Alla luce di quanto detto, consegue il rigetto dell’eccezione nella sua integralità, tanto più nella parte in cui Fininvest si doleva del fatto che il Tribunale avesse “aggirato” la portata della transazione, lamentando l’appellante che dall’assenza dei rimedi negoziali non poteva “automaticamente” derivare la proponibilità di un’azione extracontrattuale: ribadisce questa Corte che la transazione e l’azione di responsabilità

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azionata da CIR si collocano in un ambito diverso; ne consegue che l’azione di responsabilità extracontrattuale non è preclusa dalla sussistenza o meno di mezzi di impugnazione della transazione del 29.4 1991.

IL TERZO MOTIVO DI APPELLO DI FININVEST

ECCEZIONE DI GIUDICATO

Fininvest, poi, ribadiva l’eccezione di giudicato, fatto anch’esso astrattamente preclusivo della conoscibilità del merito da parte del giudice della presente causa, stante l’irrevocabilità della sentenza della Corte d’Appello di Roma 14 – 24.1.1991 n. 259, a seguito della rinuncia di CIR al ricorso per cassazione che era già stato introdotto. Il giudicato, evidenziava l’appellante, copriva il dedotto ed il deducibile “ed impediva a monte l’ammissibilità di un’azione che, come quella di CIR, mirava ad ottenere un risarcimento dei danni in contrasto con il giudicato stesso” (atto di appello – pag. 65).

Il Tribunale, poi, aveva errato nell’argomentare in ordine alla duplicità delle fonti regolatrici degli stessi rapporti giuridici, l’una giudiziale e l’altra contrattuale (cfr quanto sopra evidenziato sul punto): infatti, "poiché nel contratto di transazione la causa del negozio si fonda sul presupposto che la lite non sia stata ancora decisa con sentenza passata in giudicato, deve ritenersi che quando, nonostante l’intervenuta composizione transattiva della controversia, questa sia stata definita con sentenza passata in giudicato, senza che alcuna delle parti abbia invocato la transazione nel corso dell'iter processuale, la situazione così accertata diviene intangibile, in quanto il giudicato copre il dedotto ed il deducibile, con la conseguenza che detta situazione non potrà essere rimessa in discussione in un successivo giudizio nel quale voglia farsi rivivere l'effetto dell'accordo

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transattivo che rimane vanificato" (Cass. 25 agosto 1989, n. 3755). Ed ancora evidenziava Fininvest che la Corte regolatrice aveva statuito che "la rinuncia al ricorso per cassazione comporta l'estinzione del procedimento e questo, ai sensi dell'art. 338 CPC, il quale esprime un principio di carattere generale valido anche per il giudizio di cassazione, comporta l’effetto automatico del passaggio in giudicato della sentenza impugnata; né impedisce (in tutto o in parte) detto effetto la conciliazione della controversia intervenuta fra le parti al di fuori del procedimento e non fatta valere al suo interno, atteso che tale efficacia parzialmente o totalmente impeditiva è attribuita dal citato art. 338 CPC soltanto ai provvedimenti pronunciati nel procedimento estinto” (Cass. 20.2.2003 n. 2534): in pratica, sosteneva Fininvest, solo alla emanazione di una sentenza di cessazione della materia del contendere conseguiva la caducazione della sentenza impugnata e ciò "a differenza di quanto avviene nel caso di rinuncia al ricorso, che ne determina il passaggio in giudicato" (Cass. 3.3.2006 n. 4714; nello stesso senso Cass. 3.3.2003 n. 3122; Cass. 10 luglio 2001, n. 9332 ecc.).

Riteneva, quindi, Fininvest che il giudicato inibisse l'azione di CIR, perché preclusivo del riesame delle questioni già decise "anche nell’ipotesi in cui il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle costituenti lo scopo ed il petitum del precedente" (Cass. 5.6.1996 n. 5222; Cass. 23.2.1980 n. 1298; conf. Cass. 3.3.2004 n. 4352) e perchè "il giudicato formatosi con la sentenza intervenuta tra le parti, copre non solo il dedotto ma anche il deducibile in relazione al medesimo oggetto, e cioè non soltanto le ragioni giuridiche e di fatto fatte valere in giudizio (cioè il giudicato esplicito), ma anche tutte quelle che, sebbene non dedotte specificamente, costituiscono precedenti logici necessari della pronuncia (giudicato implicito)” (Cass.11.4.2008, n. 9544).

In comparsa conclusionale Fininvest ribadiva poi il concetto, facendo riferimento, fra le altre, anche a Cass. 3.10. 2007 n. 20723 e Cass. SU 18.5..2000 n. 368 ed evidenziava che CIR non aveva neppure ritenuto di avvalersi del rimedio tipico della revocazione per dolo del giudice ai sensi dell’articolo 395 CPC, restando così intonso il giudicato formatosi ex art 2909 CC. L’appellante precisava dunque che, “in presenza di un rimedio processuale tipico – nel cui ambito, a seguito di apposita

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fase rescindente, vanno fatte valere ex lege le pretese risarcitorie e restitutorie –,… fare ricorso all’azione generale risarcitoria ex art 2043 CC appare semplicemente arbitrario” (cfr. comparsa conclusionale pag. 80).

Questa Corte preliminarmente ricorda che la “medesima causa” è caratterizzata dall’identità di parti (in questo caso nessun problema si pone per Fininvest poiché questa società era intervenuta nel procedimento avanti la Corte d’Appello di Roma), causa petendi e petitum. Questa Corte territoriale condivide in astratto i principi giurisprudenziali sopra riportati, ma rileva che Fininvest trascura il fatto che il giudice di prima istanza ha evidenziato (ed il punto non è oggetto di impugnazione) che “in ogni caso, anche a volere ipotizzare che la sentenza Metta sia passata in giudicato, quest'ultimo non potrebbe essere invocato nel presente giudizio, dato che l'oggetto della presente causa non si identifica con quello della causa innanzi alla Corte romana: l’oggetto della causa di appello erano le pretese ex contractu radicate nel rapporto negoziale CIR – Formenton (nda con l’intervento di Fininvest), laddove quello del presente giudizio è la pretesa di risarcimento del danno derivato a CIR dalla corruzione del giudice Metta” (sent. impugnata pag. 54).

Considera questa Corte, in verità, che l’unico elemento in comune fra le due cause risiede nella presenza in giudizio delle stesse parti, essendo assolutamente diversi sia la causa petendi (validità del lodo Pratis a fronte di una azione per responsabilità aquiliana) che il petitum (annullamento del lodo per contrarietà a norme di ordine pubblico dei patti parasociali e per assoluta carenza di motivazione a fronte di richiesta di risarcimento del danno).

In questa prospettiva, dunque, deve essere letta la sentenza da ultimo indicata da Fininvest per cui "il giudicato formatosi con la sentenza intervenuta tra le parti, copre non solo il dedotto ma anche il deducibile in relazione al medesimo oggetto…” (Cass.11.4.2008, n. 9544), ipotesi che non ricorre nel caso di specie.

Alla luce di tali considerazioni non si può neppure riconoscere pregio alla eccezione (tardiva) proposta in comparsa conclusionale (pag. 79) da Fininvest, per cui CIR avrebbe dovuto agire con azione revocatoria ex art 395, n. 6, CPC a fronte

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dell’accertato dolo del giudice, come si rileva, del resto, già da Cass. 18.5.1984 n. 3060.

Anche il motivo di appello di Fininvest relativo alla eccezione di giudicato deve dunque essere disatteso.

IL QUINTO MOTIVO DI APPELLO DI FININVEST: LA

SUSSISTENZA DI UN FATTO DI CORRUZIONE

Venendo ora alle questioni afferenti il merito, in quinta istanza l’appellante Fininvest si doleva della erroneità della sentenza per avere ritenuto, ai fini civili, la sussistenza di un fatto di corruzione.

Occorre rammentare che il giudizio di responsabilità penale per la vicenda corruttiva è divenuto irrevocabile a seguito del rigetto del ricorso per cassazione proposto dagli imputati contro la sentenza n. 737/2007 della Corte di Appello di Milano che, in sede di rinvio, aveva sostanzialmente confermato il giudizio di responsabilità penale contenuto nella sentenza di primo grado, n. 4688 del 2003 (cd sentenza “Carfì”), revocando peraltro la condanna degli imputati al risarcimento in favore di CIR del danno liquidato in euro 380.000.000,00: infatti, la sentenza 737/2007, emessa nel giudizio di rinvio dalla Cassazione, pronunciava condanna generica a carico di Acampora, Metta, Pacifico e Previti al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti da CIR.

Il giudice “a quo” non aveva ritenuto immediatamente opponibile il giudicato a Fininvest. L’appellante dava atto della corretta applicazione del principio per il quale il giudicato formatosi in sede penale non la riguardava e non era a lei opponibile, con la conseguenza che competeva al giudice civile “procedere ad un autonomo giudizio sulla sussistenza della vicenda corruttiva e sulla responsabilità degli imputati già condannati in sede penale” (sent. impugnata pag 58).

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Il Tribunale, però, non aveva fatto altro che seguire il ragionamento della sentenza “Carfì” del 2003, senza tenere conto della possibilità di una diversa lettura del quadro probatorio (l’argomento veniva ribadito in comparsa conclusionale pag. 91). Il giudice di prime cure aveva utilizzato deposizioni rese in sede penale, con ciò non rispettando il principio del contraddittorio con Fininvest, disattendendone le richieste istruttorie. Per di più, aveva utilizzato le dichiarazioni rese dal rappresentante di CIR, ing. De Benedetti, con ciò, di fatto eludendo il divieto processuale della testimonianza della parte.

In particolare, per ciò che riguardava la posizione di Silvio Berlusconi, appariva incredibile all’appellante che il Tribunale avesse dedicato circa sessanta pagine al processo penale contro Previti per poi ipotizzare “ex abrupto” a pagina 119 una corresponsabilità della vicenda corruttiva da parte di Berlusconi “incidenter tantum ai soli fini civilistici del presente giudizio”.

Fininvest escludeva che il bonifico su conti esteri di lire 3 miliardi circa fosse una provvista per la ritenuta corruzione. Inoltre, lamentava che l’addebito mosso a Berlusconi circa la presunta consapevolezza del fatto che tale provvista fosse servita per pagare il giudice Metta rappresentasse un’applicazione dell’inaccettabile principio del “non poteva non sapere”. Il giudice di prime cure, tra l’altro, aveva effettuato un salto logico, perchè un conto, casomai, era sapere dell’esistenza di un pagamento ed altro conto era conoscere il suo impiego: inoltre, la conoscenza del versamento da parte di Silvio Berlusconi non era assolutamente provata e comunque, anche se lo fosse stata, non avrebbe costituito un indice di consapevolezza della corruzione, tenuto conto proprio della circostanza che il pagamento della somma ad un difensore era un fatto di per sé assolutamente legittimo ed era comunque modesta cosa nella gestione aziendale di Fininvest; a ciò si doveva aggiungere che solo una piccola parte della somma complessiva (400 milioni di lire su 3 miliardi), nell’ipotesi accusatoria, era finita al giudice Metta, ben quattordici mesi dopo la sentenza della Corte d’Appello di Roma. Inoltre, in sede penale (Cass. 33435/2006 e Cass. 35616/2007) il pagamento era stato ritenuto finalizzato alla corruzione per la vicenda IMI – SIR.

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Per quanto riguardava, poi, la posizione dell’avv. Previti, Fininvest sosteneva che non sussistessero neppure a suo carico prove civilmente rilevanti di un illecito commesso a danno di CIR.

Il Tribunale, infatti, aveva preso in considerazione una serie di anomalie che avrebbero evidenziato l’illecito: la prima stava nella designazione del giudice Metta, che sarebbe stato nominato contro ogni criterio predeterminato (argomento ripreso in comparsa conclusionale pag. 93). Ciò non era vero, tenuto conto del fatto che il Presidente della Corte (Sammarco) aveva correttamente individuato la sezione (prima civile) tabellarmente competente ed il Presidente di questa (Valente) aveva nominato il magistrato più anziano e più competente (docc. Fininvest 56 e 77): ciò era confermato dalle deposizioni in sede penale del magistrato Morsillo (doc. Fininvest n. 54) e del cancelliere Treglia (doc. Fininvest n. 55). A ciò si doveva aggiungere che non era vero che il consigliere Metta fosse particolarmente oberato in quanto, anche tenuto conto della sua funzione di segretario generale della Corte, aveva un carico di centoundici fascicoli rispetto ai trecento di media degli altri consiglieri (doc. Fininvest 58): per questo motivo Metta e Silvestri, vice segretario generale della Corte, erano destinatari delle cause più delicate.

La seconda presunta anomalia, secondo il Tribunale, era costituita dai tempi della stesura e della dattilografia della sentenza. Il giudice di prime cure, a detta di Fininvest, non aveva considerato che la Corte disponeva di macchine da videoscrittura e la segretaria Bruni (doc. 60 Fininvest), in certi giorni, dedicava anche 5 o 6 ore alla battitura delle sentenze: ne conseguiva che, stante la mole della sentenza e la velocità di dattiloscrittura (circa 25 pagine all’ora), la stessa sarebbe stata in grado di riprodurla in 5 o 6 giorni lavorativi. L’altra segretaria, signora Cherubini, che era più veloce (elaborava circa 35 pagine all’ora), era addirittura in grado di ricopiarla in 4 giorni (doc. Fininvest n. 61). Anche altre segretarie, specificamente le signore Vattolo e Greco, erano in grado di contribuire alla dattilografia (doc. Fininvest n. 147). A ciò si doveva aggiungere che l’urgenza del deposito era dovuta anche all’importanza della decisione.

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La terza anomalia valorizzata dal Tribunale era relativa alle asserite anticipazioni della decisione della Corte (argomento ripreso in comparsa conclusionale pag. 95). Secondo Fininvest il Tribunale aveva errato a dare credito alla deposizione dell’avv. Ripa di Meana (difensore di CIR) a fronte, invece, delle dichiarazioni rese dal presidente della Consob, dott. Pazzi, soggetto indifferente alle parti in causa.

Inoltre, a giudizio di Fininvest (con argomenti ripresi in comparsa conclusionale a pag. 95), l’esistenza di copie diverse dall’originale della sentenza della Corte d’Appello di Roma era un elemento che di per sé, oltre a non essere dimostrato, non aveva alcun valore.

Fininvest si doleva, poi, della ricostruzione effettuata dal giudice di prime cure dei rapporti fra imputati (argomento valorizzato in comparsa conclusionale a pag. 95): trattavasi di una mera riproposizione della sentenza “Carfì”. Inoltre, si utilizzavano tabulati telefonici successivi anche di due anni rispetto ai fatti di causa.

Osservava l’appellante che il Tribunale aveva riferito le dichiarazioni della teste Ariosto, che aveva indicato una serie di giudici che frequentavano la casa di Previti, ma non era un caso che fra questi non si menzionasse proprio Metta.

In relazione poi alle movimentazioni finanziarie tra gli imputati, lamentava Fininvest (con argomento ripreso in comparsa conclusionale a pagg. 96 e segg.) che il primo giudicante avesse ritenuto che "quantomeno i 400 milioni di lire in contanti utilizzati nell'aprile del 1992 dal giudice Vittorio Metta per pagare la caparra relativa all'acquisto di un appartamento sito in Roma... provengano dalla provvista di USD 2.732.868 bonificati nel febbraio 1991 dalla Fininvest di Silvio Berlusconi a Cesare Previti e che dunque rappresentino il prezzo, o quanto meno una parte di esso, promesso e pagato a Metta per la decisione favorevole a Fininvest della controversia Mondadori, decisione che abbiamo già visto essere caratterizzata da molteplici anomalie". L’appellante poneva in evidenza che, circa il versamento della somma a Metta, la Corte di Appello di Milano (“sentenza Pallini”) aveva riformato la “sentenza Carfì”, riconducendo i citati 400 milioni (di lire) alla corruzione per la vicenda IMI - SIR ed aveva escluso che riguardassero il caso Mondadori.

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Vi era inoltre un’anomalia evidente nella ricostruzione delle movimentazioni: a febbraio 1991 Fininvest (con Silvio Berlusconi che "non poteva non sapere") accreditava 3 miliardi di lire a Previti, il quale pochi giorni dopo girava 1,5 miliardi ad Acampora; nell’ottobre 1991 Acampora accreditava 425 milioni a Previti e Pacifico glieli portava in contanti; 400 milioni finivano, ad aprile 1992, a Metta; Fininvest evidenziava che “come i 400 milioni di aprile 1992 fossero collegabili ai 3 miliardi di 14 mesi prima era un mistero”, come era un mistero il perché di un simile giro di quei 400 milioni, "parcheggiati" per otto mesi da Acampora e per altri sei presso Previti prima di essere consegnati (quattordici mesi dopo) al "corrotto".

Inoltre, Fininvest lamentava che il Tribunale avesse escluso aprioristicamente e quindi non avesse ingiustificatamente ammesso le prove richieste per dimostrare che l’accredito di USD 2.732.868 in data 14.2.1991 dal conto Ferrido al conto Mercier, riconducibile a Previti, potesse essere giustificato dallo svolgimento dell’attività legale di quest’ultimo: Fininvest, dunque, riproponeva ancora in questa sede le istanze istruttorie disattese in primo grado (capitoli da 24 a 37 memoria istruttoria ex art 184 CPC in data 31.5.2006).

Inoltre, a detta dell’appellante, la sentenza impugnata strumentalizzava anche altre movimentazioni finanziarie, tra le quali un accredito, disposto per un investimento suggerito da Acampora, di lire 1.500.000.000 dal conto Mercier di Previti al conto Careliza, riconducibile all’avvocato Acampora, in data 27.2.1991: il Tribunale anche in questo caso smentiva le stesse sentenze penali che invocava, in quanto la Corte di Appello di Milano, sezione III Penale, aveva riconosciuto in sede di rinvio che Acampora aveva “fatto personalmente investimenti per la Mochi Kraft, tramite la documentazione bancaria in atti e quella sequestrata presso il suo studio”. Stessa distorsione interpretativa la sentenza appellata poneva in essere del bonifico di lire 425.000.000 dal conto Careliza al conto Mercier in data 1.10.1991: trattavasi di parte degli onorari spettanti all’avv. Previti (deposizione Bulgari 16.6.2002 - doc CIR F 19). Poi, in ordine al bonifico di circa lire 400.000.000 dal conto Mercier al conto

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Pavoncella in data 15 16.10.1991, ribadiva Fininvest che il Tribunale non aveva tenuto conto che la somma era stata ricondotta alla vicenda IMI SIR.

Fininvest, infine, lamentava le conclusioni del Tribunale per quanto atteneva alle disponibilità finanziarie del giudice Metta a partire dall’anno 1990: questi, infatti, aveva giustificato in sede penale le sue disponibilità di somme in contanti invocando donazioni a lui fatte dal magistrato Orlando Falco; il Tribunale, seguendo l’impostazione della “sentenza Carfì”, non aveva tenuto conto che il dott. Falco aveva disponibilità anche all’estero e somme liquide anche superiori al miliardo di lire erano state viste presso di lui dal teste Sanvitale.

Dà atto preliminarmente questa Corte che, stante il principio del quale è portatore l’articolo 675 CPP, la ricostruzione degli eventi che conducono alla prova della corruzione di Metta non può trovare giustificazione “tout court” sulla base del giudicato formatosi in sede penale.

Non rileva, allora, nemmeno il fatto che alcuni riscontri valutati dal giudice penale in prima istanza siano stati in tutto o in parte disattesi dal giudice dell’impugnazione, quanto invece la consequenzialità della motivazione del primo giudice, laddove riscontra la prova dell’assunto ai fini meramente civili. In questa prospettiva l’avere seguito l’iter della sentenza “Carfì” non è censurabile, se questa prospetta fatti documentati e consequenziali al punto di giungere ad una conclusione logica. In questa sede è, peraltro, legittima una diversa prospettazione dei fatti, che potrebbe essere seguita a condizione che, s’intende, risultasse più convincente.

Tanto premesso ed entrando nel merito delle censure dell’appellante, si deve esaminare il primo addebito di Fininvest al Tribunale, per avere utilizzato in sede civile le dichiarazioni rese dall’ing. De Benedetti avanti il giudice penale, sebbene si tratti di persona incapace di testimoniare in questa sede civile. Sul punto, ribadisce questa Corte che già il giudice di prima istanza dava correttamente atto del fatto che la dichiarazione veniva esaminata come mero documento, senza cioè la valenza probatoria di una prova assunta secondo il rito civile: la dichiarazione resa in sede

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penale dal legale rappresentante della società che è parte nel giudizio civile rileva qui unicamente in quanto corroborata da altri elementi che ne forniscano riscontro.

Ciò detto, questa Corte evidenzia che la doglianza svolta in atto di appello rimane una mera petizione di principio, in quanto non seguita da una contestazione specifica di Fininvest circa la incongruenza delle dichiarazioni rese dall’ing. De Benedetti rispetto all’insieme del quadro probatorio.

In relazione poi alla designazione del consigliere Metta come relatore della sentenza Mondadori, considera questa Corte che il Tribunale non ha contestato che non vi fu il rispetto dell’assegnazione tabellare “ratione materiae” alla prima sezione civile della Corte di Appello di Roma; l’anomalia risiedeva nella mancata osservanza di qualsiasi criterio oggettivo per l’assegnazione della causa al consigliere relatore (della prima sezione civile), tale non essendo quello indicato da Fininvest di avere aprioristicamente individuato due consiglieri (Metta e Silvestri) i quali, mutuando le parole dell’appellante (cfr. atto di appello pag. 84), “erano tenuti sempre in preallarme e anche per questa ragione a loro andavano sovente le cause più delicate”: una gestione siffatta del lavoro di un importante ufficio giudiziario non è, di per sé considerata, indicativa di fenomeni corruttivi, ma rappresenta il contesto più favorevole alla degenerazione del sistema e la circostanza ben può essere valutata, insiseme ad altri elementi sintomatici, per la prova del delitto di corruzione che interessa in questa sede.

Ciò precisato, questa Corte non può non rilevare che, come segnalato da CIR, Metta aveva provveduto ad abbreviare i termini in data 7.7.1990, quando addirittura non era stato investito formalmente della causa (doc. Fininvest n. 27). Inoltre, il presidente Valente sentito come teste dalla Corte d’Appello di Milano aveva smentito l’odierna tesi di Fininvest, parlando di una “assegnazione in parallelo” dei fascicoli ad ogni consigliere in ordine alfabetico e di anzianità (doc CIR D 34 – pag 155): evidentemente tale metodo era stato impropriamente disatteso nel caso in esame, come rilevato dalla stessa Fininvest (“Metta e Silvestri…erano tenuti sempre in preallarme e anche per questa ragione a loro andavano sovente le cause più delicate”)

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e tale circostanza avvalora ulteriormente le conclusioni che il primo giudice ha tratto dalla constatazione dell’anomalia della designazione del consigliere Metta quale relatore della causa sull’impugnazione del lodo Mondadori..

A ciò si deve aggiungere che, a prescindere dal dato numerico dei fascicoli, Metta era incontestatabilmente già oberato di gravose assegnazioni (causa IMI- SIR, causa Comune di Fiuggi -Terme di Fiuggi, fallimento Caltagirone ecc.). Si rammenta, poi, che risulta accertato in causa che Metta svolgeva le impegnative funzioni di segretario generale della Corte.

Trattasi, con tutta evidenza, di incongruenze che, si ripete, potrebbero non risultare decisive, se singolarmente valutate, ma che, collocate nel contesto più ampio, sono state correttamente prese in considerazione e valutate dal Tribunale ai fini della prova della corruzione di Metta.

Quanto alla anomalia costituita dai tempi della stesura e della dattilografia della sentenza, ribadisce questa Corte, a fronte delle ipotesi formulate da Fininvest sulle possibilità teoriche di dattiloscrivere la sentenza Mondadori, che è pacifico che la stessa fu decisa in camera di consiglio il 14.1.1991 e fu pubblicata il 24.1.1991. E non c’è neppur bisogno di ricorrere alle attestazioni dell’estratto del “registro brogliaccio” delle sentenze (doc G 9 CIR) circa le contestate “date intermedie” tra la camera di consiglio e la pubblicazione per escludere che la minuta asseritamente redatta a mano da Metta sia stata dattiloscritta presso la Corte d’appello.

Va, infatti, tra l’altro ancora riaffermato che tutte le segretarie avevano un compito preciso presso la Presidenza della Corte, diverso da quello della dattiloscrittura di sentenze per i consiglieri, e che tale incombenza era per loro supplementare e vi si dedicavano nei ritagli di tempo; sentite tutte dal PM nel 1998 le predette, che avevano parlato tra loro, come affermato dalla sig.ra Cherubini, non ricordavano di avere scritto la lunga sentenza sul lodo Mondadori, né, prima della camera di consiglio, la parte introduttiva di essa; la sig.ra Bruni ribadiva di non ricordare quella particolare minuta, né risultava aver svolto lavoro straordinario dal 14.1.1991 al 24.1.1991 (come emerge dalla certificazione della Corte d'Appello di Roma del 16.10.1998 a doc. G 7

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CIR); la sig.ra Servadei aveva rammentato di avere scritto varie sentenze di consiglieri ma, non avendo tempo, solo sentenze brevi, non complesse; la sig.ra Vattolo aveva affermato con certezza di non avere dattiloscritto la sentenza sul lodo o parte di essa, pur rammentando che giornalisti ed avvocati chiedevano insistentemente informazioni; la sig.ra Greco aveva ricordato di avere copiato sentenze nei tempi morti o di estate ma mai per Metta; la sig.ra Pippoletti aveva affermato di avere scritto poche sentenze, redatte da Silvestri e “non da Metta”; la sig.ra Cherubini, che aveva presente la sentenza IMI-SIR essendo insorto un problema tecnico, nell'assemblaggio tra le parti scritte da lei e quelle della sig.ra Bruni, riferiva di non avere alcun ricordo della sentenza sul lodo o di un periodo di lavoro dedicato solo alla dattiloscrittura di una sentenza, compito che svolgeva solamente nei “tempi morti” rispetto all'attività del Consiglio Giudiziario; comunque riferiva che un provvedimento così lungo si sarebbe potuto scrivere in tempi tanto brevi solo dedicandovisi, unitamente alla sig.ra Bruni, a tempo pieno; e ciò non era accaduto.

Queste considerazioni, relative a fatti concreti specificamente ricostruiti in base alla dichiarazioni concordanti rese dai testi sentiti in sede penale, sono tali da escludere in ogni caso non solo la rilevanza della querela di falso sollevata da Fininvest sul doc. CIR G 9, ma anche da superare gli argomenti dell’appellante sulla ipotetica possibilità di dattiloscrivere la sentenza in tempi compatibili, nonché la considerazione svolta da Fininvest in comparsa conclusionale (pag. 94), laddove si vorrebbe giustificare la celerità nel deposito della sentenza con “la dichiarazione d’urgenza apposta in calce all’atto di impugnazione (nda del lodo)”.

Tutti gli elementi testè proposti corroborano la ritenuta anormalità della redazione della sentenza della Corte romana: a questo proposito non ci si può esimere dall’evidenziare la gravità di questo indizio.

Il fatto che la sentenza non sia stata dattiloscritta presso la Corte ed a cura dell’Ufficio rende ancora più inquietante l’esistenza di più documenti incorporanti la stessa sentenza in originale: infatti, fu proprio Metta ad utilizzare una copia diversa da quella ufficiale nella fase della sua difesa avanti il Tribunale Penale di Milano che stava procedendo a suo

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carico (docc. D 10 e D 13 CIR); non è assolutamente condivisibile l’assunto di Fininvest per cui l’esistenza di copie diverse dall’originale della sentenza della CdA di Roma era un elemento che di per sé non aveva alcun valore: tale atto non reca le firme dei giudici, ha una numerazione diversa (pagg 16 bis, ter, quater ecc.) e contiene correzioni non conformi all’originale (vedi pagg. 17 e 49): se ne deduce il fatto che altri soggetti diversi dall’estensore provvidero a redigere il testo della sentenza poi “licenziato” da Metta.

Fininvest, poi, considerava inconsistente la “stranezza” ravvisata dal giudice di prime cure, costituita dalle anticipazioni della decisione della Corte.

Rileva questa Corte che il presidente della Consob dott. Pazzi aveva dichiarato in data 22.12.1997 (doc. 63 Fininvest) testualmente: “Non so per quale motivo Ripa di Meana riferisce cose inesatte. Io non seguivo le vicende del lodo Mondadori, non ero interessato alla questione e ricordo anche vagamente come andò a finire la controversia giudiziaria''; tale affermazione appare del tutto elusiva, come ritenuto anche dal Tribunale, tenuto conto del fatto che Pazzi era presidente della Consob e che questa fosse istituzionalmente interessata alla “guerra di Segrate" è confermato dal fatto che l'organo di vigilanza aveva sospeso le azioni ordinarie AMEF dal giugno 1989 a fine 1991 e le azioni AME, sia ordinarie che privilegiate, dalla fine del 1989 a tutto il 1991 (doc. Fininvest 137 e 138), quindi proprio in costanza dei fatti di causa.

Né si può ritenere non attendibile la dichiarazione resa dall’avv. Ripa di Meana per il fatto che questa abbia trovato riscontro solo nelle dichiarazioni rese da “uomini CIR”. Infatti, come rilevato dalla appellata (comparsa di costituzione pag. 112), era naturale che il legale comunicasse la notizia ad uomini della sua parte, quali erano all’epoca dei fatti (ma non più al momento delle dichiarazioni testimoniali) Corrado Passera ed Emilio Fossati, che, infatti, confermavano la circostanza (docc. CIR F6 pag. 159 e F 25 pag. 220).

Alla luce di tali elementi bene ha fatto il giudice di primo grado a ritenere anomala la redazione della sentenza della Corte d’Appello di Rom, anche tenuto conto delle anticipazioni della decisione prima della camera di consiglio.

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Fininvest si doleva, poi, della ricostruzione effettuata dal giudice di prime cure dei rapporti fra gli imputati: si trattava, a sua detta, di una mera riproposizione degli argomenti della sentenza “Carfì”; inoltre, il Tribunale aveva impropriamente utilizzato tabulati telefonici successivi anche di due anni rispetto ai fatti di causa.

Osserva la Corte che anche i singolari rapporti tra gli imputati costituiscono elementi indiziari gravi, precisi e concordanti: questi rapporti sono stati riportati dal Tribunale con puntigliosa precisione in fatto alle pp. 86 ss., alle quali per brevità si rinvia poiché i dati materiali ivi elencati non sono oggetto di censura se non nella loro complessiva interpretazione.

Infatti, i tabulati telefonici acquisiti al giudizio penale accertano comunicazioni fra Previti e Metta dall'aprile 1992, e cioè in corrispondenza del periodo nel quale quest’ultimo aveva acquisito la disponibilità della somma di 400 milioni di lire.

La prova della familiarità fra gli stessi emerge anche dal fatto che le telefonate erano dirette a un numero riservato (l'utenza della suocera di Metta, sig.ra Spera), nonchè dalla circostanza che avvenivano in giorni festivi e in orari non di ufficio, di prima mattina o di sera inoltrata (doc. CIR G1).

A ciò si deve aggiungere che nel 1993 Sabrina, figlia di Vittorio Metta, iniziò la collaborazione come praticante nello studio Previti (doc. Fininvest 78, pagg. 208 e 209). Infine, dopo le dimissioni di Metta dalla Magistratura, risalenti all'autunno 1994, lo stesso accettò la proposta di Previti di collaborare presso il suo studio in qualità di "supervisore" (doc. CIR E 3, pag. 7).

Tutti i fatti esaminati sono coerenti nel dimostrare che i rapporti fra Previti e Metta andavano ben oltre la dimensione professionale.

Comunque, a giudizio di Fininvest, il giudice di prime cure era incorso in una contraddizione, in quanto aveva valorizzato le dichiarazioni della teste Ariosto, che aveva indicato una serie di giudici che frequentavano la casa di Previti, ma non aveva considerato che fra questi non si menzionasse proprio Metta.

Evidenzia questa Corte che la doglianza appare infondata, solo che si tenga presente che la teste non ha inteso riferire altro che di un ambiente nel quale vi era

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circolazione sospetta di ingenti somme liquide fra avvocati e giudici: non rileva, quindi, che fra questi vi fosse fisicamente il dottor Metta e merita, casomai, una riflessione il fatto che tra i magistrati menzionati dalla sig.ra Ariosto in tale contesto figurassero il presidente del collegio giudicante della sentenza sul lodo Mondadori, dott. Valente e lo stesso Primo Presidente della Corte d’Appello romana, dott. Sammarco.

La parte più rilevante delle doglianze di Fininvest riguarda le movimentazioni finanziarie tra gli imputati.

Orbene, si rammenta che il Tribunale (sent. impugnata, pag. 95) riteneva sussistente, in termini di rilevante probabilità, la prova ai fini civili della circostanza che, quanto meno, i 400 milioni di lire in contanti utilizzati nell'aprile 1992 dal giudice Metta per versare la caparra relativa all'acquisto di un appartamento in Roma, via Casal di Merode, provenissero dalla provvista di USD 2.732.868 e fossero stati bonificati nel febbraio 1991 dalla Fininvest di Silvio Berlusconi a Cesare Previti: questi rappresentavano il prezzo, o quanto meno una parte di esso, promesso e pagato a Metta per la decisione favorevole a Fininvest della controversia Mondadori.

Il giudice di prime cure procedeva, quindi, ad una dettagliata analisi dei dati finanziari evidenziando il seguente percorso: a ) il 14 Febbraio 1991 sul c/c Mercier di Cesare Previti veniva accreditata la somma di USD 2.732.868, proveniente dal conto corrente Ferrido; b) il 25 Febbraio 1991, Cesare Previti dava ordine di bonificare la somma di lire di lire 1.500.000.000 al conto Careliza di Giovanni Acampora; c) in data 1 ottobre 1991 dal conto Careliza veniva riaccreditata al conto Mercier di Cesare Previti la somma di lire 425 milioni; d) con valuta 17 e 18 ottobre 1991 (con ordine dei giorni precedenti) i 425 milioni di lire venivano bonificati da Cesare Previti al conto Pavoncella di Attilio Pacifico; e) tra il 15 ed il 16 ottobre 1991 (prima ancora che maturasse la valuta) Pacifico prelevava la predetta somma in contanti; f) nell'aprile 1992 Vittorio Metta, alla firma del compromesso, pagava la somma di 400 milioni di lire in contanti.

Alle pagg. 95-118 della sentenza impugnata, alla cui diretta lettura si rimanda, il Tribunale si è impegnato nell’analisi dei sei momenti sopra enucleati, considerando

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nel dettaglio i singoli movimenti e le dichiarazioni variamente rese dagli imputati e dai testimoni in sede penale.

Evidenziava CIR in comparsa di costituzione in appello (pag. 118) che la provenienza, la sequenza e le modalità dei passaggi di denaro erano da ritenere pacifiche ed incontrovertibili, non solo perché definitivamente accertate dalla sentenza App. Milano 737/2007, confermata da Cass. 848/2007, ma anche perché non contestate da Fininvest nel giudizio di primo grado (cfr. pag. 58 della conclusionale in primo grado di CIR). Solo ora Fininvest contestava, tardivamente, la valenza probatoria delle accertate movimentazioni: CIR eccepiva, perciò, l'inammissibilità dei rilievi avversari, che contrastava, comunque, in via subordinata, confutandoli uno ad uno.

Considera questa Corte che si deve dare atto che Fininvest non ha contestato i dati documentali ed il loro succedersi, bensì l’interpretazione che di essi veniva data dal primo giudicante: in questi termini, la doglianza di Fininvest è legittima e tempestiva.

Orbene, l’appellante considerava che, in relazione al versamento della somma a Metta, la Corte di Appello di Milano (sentenza “Pallini”) aveva riformato la sentenza “Carfì”, riconducendo i citati 400 milioni (di lire) alla corruzione per la vicenda IMI- SIR ed aveva quindi escluso che riguardassero il caso Mondadori.

Considera sul punto questa Corte che proprio l’autonomia del processo penale da quello civile non consente “tout court” di ritenere imprescindibili le conclusioni alla quali è giunta la Corte di Appello di Milano (sentenza “Pallini”): ciò che rileva è il coerente e logico sviluppo degli argomenti. La tesi dell’appellante è, poi, particolarmente debole, perché trascura di considerare l’annullamento in cassazione proprio della sentenza “Pallini” (n. 2500/2005): dopo la cassazione della detta pronuncia ad opera di Cass. pen. 33435/06, la sentenza successivamente emanata dal giudice del rinvio (App. Milano 737/2007, passata in giudicato dopo il rigetto della sua impugnazione da parte di Cass. 848/2007) aveva dichiarato la sussistenza della "piena cognizione sull'intero capo B) anche avuto riguardo al prezzo corruttivo di L. 400.000.000" e, nell'esercizio di tale cognizione, ha ritenuto "dimostrato che

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considerevoli importi pervenuti a Metta nel 1992 discendevano direttamente dalla provvista Fininvest” (doc CIR D34).

Fininvest, invero, svolgeva anche una doglianza più sostanziale rilevando “come i 400 milioni di aprile 1992 fossero collegabili ai 3 miliardi di 14 mesi prima, fosse un mistero”: era un fatto misterioso, cioè, il “giro” di quei 400 milioni, "parcheggiati" per otto mesi da Acampora e per altri sei presso Previti prima di essere consegnati (quattordici mesi dopo) a Metta.

Ritiene, invece, questa Corte che la circolazione della somma segua un percorso lineare, nel quale è riscontrabile la provenienza della provvista, il suo passaggio tramite conti correnti, il prelievo dei contanti e la comparsa di una somma nella disponibilità del soggetto corrotto nel momento opportuno per l’acquisto della casa in Roma. Del resto, non si può non considerare con CIR che “le movimentazioni di denaro sono senza dubbio articolate e complesse, ma ciò non può certo stupire – ed appare anzi in qualche modo fisiologico – trattandosi del pagamento di un prezzo di corruzione da parte di una primaria società italiana a favore di un magistrato” (comparsa costituzione CIR pag 119).

Fininvest eccepiva che però il Tribunale non aveva immotivatamente ammesso le prove richieste circa il fatto che l’accredito di USD 2.732.868 in data 14.2.1991 dal conto Ferrido al conto Mercier, riconducibile a Previti, potesse essere giustificato dallo svolgimento dell’attività legale (nda: ovviamente in vicende diverse dal caso Mondadori): Fininvest, dunque, riproponeva in questa sede le istanze istruttorie disattese dal Tribunale (capitoli da 24 a 37 memoria istruttoria ex art 184 CPC in data 31.5.2006).

Evidenzia innanzitutto questa Corte che agli atti non risulta alcuna produzione documentale che sorregga l’allegazione di Fininvest: questa è una circostanza alquanto singolare anche tenuto conto dell’entità della erogazione.

Il giudice di prime cure disattendeva la richiesta di prove orali con ordinanza 27.2.2007, relativamente ai capitoli sopra richiamati, “perché generici ed altresì

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non concludenti anche alla stregua delle dichiarazioni rese dall’avvocato Cesare Previti nel parallelo processo penale”.

Ritiene la Corte che tale ordinanza debba essere confermata anche alla luce di una serie di elementi imprescindibili. Infatti, lo stesso direttore generale del gruppo Fininvest, Messina, sentito come teste in sede penale, aveva bensì confermato che Previti aveva svolto attività professionale all'estero per conto di Fininvest, ma aveva collocato tali prestazioni in periodi nettamente successivi al bonifico del 14 Febbraio 1991 sul c/c Mercier di Cesare Previti, sul quale era stata accreditata la somma di USD 2.732.868, proveniente dal conto corrente Ferrido riferibile a Fininvest (doc CIR FI7): in buona sostanza, Messina smentisce la versione di Previti circa la causale del versamento.

In relazione, poi, agli incarichi svolti in Italia, dalle deposizioni dei testimoni Bonomo (doc CIR F 16) e Momigliano (doc CIR F18) risulta che questa attività risaliva ad epoca di molto antecedente a tale data o ad epoca successiva.

Come evidenziato da CIR (v. comparsa di costituzione pag. 121), il contributo di Cesare Previti rispetto alle questioni coinvolgenti Fininvest era del tutto atipico, considerato che egli non era investito di formali mandati professionali, ma era una sorta di "coordinatore a Roma dei gruppi di lavoro formati di volta in volta dagli avvocati ufficialmente incaricati di seguire le controversie del gruppo" (deposizione Bonomo, doc CIR F16) o, come precisato dall'avv. Dotti, "per disposizione di Berlusconi, era...il punto di riferimento su Roma", in quanto conoscitore degli ambienti giudiziari romani (deposizione Dotti, doc CIR F8, pag. 149; sentenza 737/2007, pag. 209): le elencate acquisizioni probatorie sono tali da indicare in Cesare Previti, semmai, come sopra si è detto, il mandatario generale degli affari di Fininvest in relazione ai fatti di causa (sul punto si veda anche quanto appresso si dirà in relazione al sesto motivo di appello di Fininvest).

Alla luce di tali elementi e considerazioni, verificata la documentazione indicata, questa Corte rileva che la cronologia degli eventi, avuto riferimento al fatto che la sentenza Metta fu resa in data 14-24 gennaio 1991 (doc. C 3 CIR), non può che indurre a ritenere

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che il versamento della somma di USD 2.732.868 si riferisca proprio alla vicenda Mondadori. Infatti, non sfugge la sostanziale contestualità della sentenza (14 – 24 gennaio 1991) con il primo versamento (14 febbraio 1991) e l’ordinata distribuzione delle somme fra i vari soggetti protagonisti della vicenda, in una progressione temporale coerente con l’acquisto dell’immobile da parte di Metta, evoluzione degli eventi, del resto, conformemente valutata in sede penale fino al giudizio di legittimità.

La circostanza, poi, collima con il ruolo di Previti, come descritto nelle appena ricordate deposizioni di Bonomo e Dotti.

Tutte queste circostanze sono coerenti e sufficienti al fine di dimostrare che l’accredito di USD 2.732.868 in data 14.2.1991 dal conto Ferrido al conto Mercier, riconducibile a Previti, non era giustificato dallo svolgimento di un’attività professionale, con la conseguenza che questa Corte non può che confermare nella sostanza il contenuto dell’ordinanza istruttoria 27.2.2007.

A detta di Fininvest, inoltre, la sentenza impugnata strumentalizzava anche altre movimentazioni finanziarie, tra le quali un accredito, disposto per un investimento suggerito da Acampora, di lire 1.500.000.000 dal conto Mercier di Previti al conto Careliza, riconducibile all’avvocato Acampora, in data 27.2.1991: il Tribunale anche in questo caso aveva trascurato che la Corte di Appello di Milano, sezione III Penale, aveva riconosciuto in sede di rinvio che Acampora aveva “fatto personalmente investimenti per la Mochi Craft, tramite la documentazione bancaria in atti e quella sequestrata presso il suo studio”.

Rileva questa Corte che la sentenza 737/2007, resasi definitiva, espressamente afferma che per gli investimenti fatti da Acampora nella società Mochi Craft "non è stata usata la provvista Fininvest ma altre disponibilità di Acampora" (pag. 220) ed ancora che "la cifra bonificata da Previti ad Acampora fa parte, per tabulas, della provvista Fininvest (nda: non a caso la somma di lire 1.500.000.000 corrisponde esattamente alla metà in valuta italiana, di quella di USD 2.732.868, rapportata al cambio di allora), unico soggetto interessato all'annullamento del lodo; nessuna spiegazione logicamente credibile o supportata documentalmente è stata fornita sulla causale di

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detto bonifico, essendo il denaro rimasto sul conto fruttifero 577 Careliza e non utilizzato per fare investimenti nella Mochi Craft, effettuati da Acampora con altro denaro, in epoca temporale successiva ed ampiamente sfasata rispetto a quella del bonifico...'' (pag. 223).

In effetti, risulta un’operazione Mochi Craft, ma trattasi di un fatto successivo, in quanto a questa sono riconducibili due bonifici in data 28.6.1991 e 2.12.1991, quindi a distanza di mesi da quello ricevuto da Cesare Previti (febbraio 1991). In proposito, si osserva che la somma complessiva investita ammontava ad un miliardo e dieci milioni di lire, a fronte del miliardo e mezzo asseritamente "investito" da Previti: né Acampora né Previti avevano saputo spiegare al giudice penale la sorte del residuo mezzo miliardo (sentenza 737/2007, pag. 219 – doc CIR D34).

E’, quindi, proprio la sentenza invocata da Fininvest a concludere sul punto che: “il fatto che la somma bonificata da Previti ad Acampora, rimasta sul sottoconto fruttifero 577 di Careliza, non sia stata utilizzata per gli investimenti Mochi Craft non può che avere una sola spiegazione: è la metà della provvista Fininvest (proveniente dal conto Ferrido, comparto estero della Fininvest di Berlusconi, soggetto direttamente interessato ad acquisire il controllo della Mondadori, avendo già acquistato le quote azionarie che il lodo arbitrale imponeva ai Formenton di cedere alla CIR) di $ 2.732.868, parte della quale, per un evidente preventivo accordo tra gli imputati, doveva rimanere a Previti e parte essere girata a terzi" (App. Milano 737/2007, pag. 221 – doc CIR D34).

Fininvest, poi, lamentava che una stessa distorsione interpretativa la sentenza appellata avesse operato quanto al bonifico di lire 425.000.000 dal conto Careliza al conto Mercier in data 1.10.1991: trattavasi di parte degli onorari spettanti (deposizione Bulgari 16.6.2002 doc CIR F 19) come compenso per l’assistenza ricevuta da Gianni Bulgari nel corso di un arbitrato.

In atto di citazione in appello Fininvest si limitava ad evidenziare che “finita l'attività professionale, a fine settembre del 1991, l'Avv. Acampora aveva concluso l'accordo col Bulgari sull'ammontare degli onorari, determinati nell'importo di circa

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855.000.000 di vecchie lire, e poi il primo ottobre del 1991 aveva semplicemente fatto bonificare all'avv. Previti la parte di onorari a questi spettante (425.000.000 di vecchie lire). Di modo che tale movimentazione proprio nulla aveva a che vedere col presunto accordo corruttivo. E questo, d'altronde, era provato anche dalla documentazione prodotta in atti da Fininvest, e segnatamente dalla contabile della banca Attel e da una nota firmata dal Bulgari che confermavano puntualmente quanto sopra (cfr. ns. docc. nn. da 128 a 130, fascicolo di primo grado)”.

Tali affermazioni risultano prive di riscontro. Infatti, evidenziava CIR (comparsa di costituzione pag 127) a supporto della propria ricostruzione - e questa Corte riscontra - che Acampora aveva prodotto un fax, a suo dire diretto alla società Enigma di Bulgari, contenente una richiesta di versamento di 1.000.000 di franchi svizzeri a favore del conto Careliza (doc CIR H 4). Il documento in questione si era rivelato totalmente inattendibile, considerato che: a) dall'esame delle stampigliature impresse sul fax, esso risulta essere stato trasmesso proprio dall'apparecchio della società Enigma di Bulgari e cioè dal destinatario piuttosto che dal mittente, il cui numero di apparecchio non risulta dal fax; b) non reca sottoscrizione; c) non riporta il nominativo del mittente né quello del destinatario; d) ha una data posteriore rispetto al bonifico dal conto Careliza al conto Mercier (doc CIR H 9, nn. 98-100); e) non indica la causale del pagamento richiesto, cosicché, dati i pluriennali rapporti professionali intrattenuti da Acampora con Bulgari, potrebbe riferirsi a qualsiasi causale. A ciò si deve aggiungere che sul conto Careliza nessun bonifico di un milione di franchi svizzeri risulta registrato nei giorni successivi all'asserito invio del fax.

Anche la contabile della banca Attel, all’esito di un’approfondita valutazione, è stata ritenuta priva di autenticità ed efficacia probatoria dalla sentenza n. 737/2007 della Corte d’Appello di Milano, sulla base di dati di fatto ineccepibili; infatti, nella motivazione di quel provvedimento si legge: "Ritiene questo Collegio che la contabile Attel 6.12.1991, definita dalla Cassazione 'fotocopia informe' ed anche 'documentazione cartacea...priva di ogni garanzia di autenticità e firmata... dopo

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l'espletamento della corrispondente prova dibattimentale (testimonianza Bulgari)', nulla sposti rispetto alle considerazioni finora svolte ". In particolare, la Corte ha evidenziato che "rimane il dato di fatto incontrovertibile e provato che sul conto Careliza presso la BIL di Lussemburgo la somma indicata nella contabile 6.12.1991 con valuta 10.12.1991 non è mai pervenuta e che a fronte di una 'fotocopia informe' non può certo discendere la prova di un conto di Acampora presso la Attel Bank di Nassau di cui lo stesso imputato non ha ritenuto di provare la titolarità". Peraltro, "presso la società Careliza, oggetto di rogatoria, non è risultata la presenza di un conto estero a Nassau-Bahamas" (App. Milano 737/2007, pag. 230 – doc CIR D 34).

Questa Corte ritiene dunque che un esame della documentazione indicata condotto a lume di logica, non consenta una conclusione diversa da quella raggiunta dalla più volte citata sentenza irrevocabile della Corte penale milanese: "Acampora, amico di Metta, al quale ha già fornito parte della motivazione IMI/SIR, per il quale seguirà la successione estera di Falco, ha custodito fiduciariamente la somma di lire 425.000.000 che dovrà, tramite l’ulteriore intervento di Previti e l’utilizzo del ‘canale’ Pacifico, essere monetizzata e portata in Italia” (App. Milano 737/2007, pag. 231 – doc CIR D34).

Fininvest, infine, si doleva delle conclusioni del Tribunale per quanto atteneva alla valutazione delle condizioni finanziarie del giudice Metta a partire dall’anno 1990: questi, infatti, aveva giustificato in sede penale le sue disponibilità di somme in contanti invocando donazioni a lui fatte dal magistrato Orlando Falco; il Tribunale, seguendo l’impostazione della sentenza “Carfì”, non aveva tenuto conto che il dott. Falco aveva disponibilità anche all’estero e che somme liquide anche superiori al miliardo di lire erano state viste dal teste Sanvitale.

Obiettava CIR che trattavasi di argomento nuovo e, quindi, inammissibile, ma l’eccezione non ha pregio in quanto trattasi di argomento difensivo legittimamente svolto in atto di citazione in appello a fronte della ricostruzione dei fatti effettuata dal giudice di prime cure.

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Ad ogni buon conto, questa Corte nel merito considera che, come del resto evidenziato già dalla sentenza della Corte d’Appello di Milano 737/2007 a pagina 250 (doc CIR D34), appare inverosimile che Falco avesse conservato presso il proprio domicilio centinaia di milioni di lire in contanti, provenienti da conti svizzeri, allo scopo di elargirli poco alla volta a Vittorio Metta fra il 1990 ed il 1992.

Tale assunto appare inverosimile anche sotto un profilo temporale. Infatti, ha ragione CIR ad evidenziare in comparsa di costituzione (pag. 133) che “è a dir poco singolare che Falco abbia posto in essere le asserite donazioni esclusivamente in prossimità del periodo in cui Metta svolse il ruolo di relatore nei procedimenti (IMI/SIR e lodo Mondadori) in cui furono consumati i reati di corruzione e non per l'intero periodo della loro amicizia (App. Milano 737/2007, pag. 246 – doc CIR D34). Infatti, mentre l'amicizia fra Falco e Metta risale al 1981, le asserite donazioni sarebbero iniziate - nella prospettazione della difesa Metta, ripresa da Fininvest - solo nel febbraio 1990 e sarebbero terminate non in prossimità della morte di Falco (agosto 1994), bensì nel settembre 1992”: tali argomenti convincono questa Corte, soprattutto per i riferimenti temporali che si sovrappongono con le vicende della sentenza Mondadori, circa l’inverosimilianza della tesi prospettata da Fininvest a fronte, invece, della concludenza dei passaggi di danaro ricostruiti dal giudice di prime cure nel modo sopra indicato.

Quanto, poi, alla deposizione dell'avv. Sanvitale, che all'udienza del 8.3.02 aveva dichiarato che lo stesso Falco gli aveva mostrato, tra il novembre 1989 ed il gennaio 1990, una valigetta contenente un miliardo di lire (denari che poi, a poco a poco, secondo Fininvest, sarebbero stati almeno in parte consegnati a Metta), la Corte d'Appello di Milano in sede penale ha riscontrato che "a prescindere dalla inattendibilità delle dichiarazioni di Sanvitale, sentito ex art. 210 cpp, che si è avvalso della facoltà di non rispondere sulle disponibilità estere di Falco Orlando…, risulta dagli atti che una somma pari alla cifra indicata dal Sanvitale possa essere rientrata dall'estero, ma risulta altresì che è stata subito depositata in

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banca ed investita nell'acquisto di titoli di stato" (cfr. App. Milano 737/2007, pag. 248 – doc CIR D 34).

Del resto, la dichiarazione di Sanvitale appare generica e non tale da pregiudicare la meticolosa ricostruzione del “giro di danaro” fornita dal Tribunale.

Anche da tali argomenti questa Corte non può prescindere, in quanto sono puntuali, documentati e precisi: essi corroborano in modo lineare la riferita ricostruzione dei fatti effettuata dal giudice di prime cure, mentre quella di Fininvest è di tipo assertivo, in quanto basata su mere allegazioni, non confortate e spesso smentite dalle risultanze probatorie.

Ne deriva la reiezione del motivo di appello di Fininvest sotto tutti i profili sopra indicati, con la conseguenza che appare condivisibile la conclusione alla quale è giunto il Tribunale di Milano con la sentenza impugnata (pag. 118) e che così viene sintetizzata: “le anomalie della sentenza n. 259/1991 della Corte di Appello di Roma, i rapporti personali fra gli imputati, significativamente nascosti o minimizzati da alcuni di essi ed i rapporti economici fra gli imputati medesimi, culminati nella consegna a Vittorio Metta di 400 milioni di lire, provenienti dalla provvista del conto Ferrido di Fininvest, ed utilizzati per il pagamento di parte del prezzo dell'appartamento di via Casal de Merode - Roma, l'improvviso arricchimento del giudice Metta, sono tutti elementi che convergono verso la rappresentazione di un quadro probatorio certamente caratterizzato dalla presenza di indizi certi…, gravi, poiché trattasi di circostanze di consistente valore indiziario, precisi e concordanti, dato che essi elementi indiziari convergono univocamente verso la dimostrazione della sussistenza della corruzione del giudice Metta”.

IL SESTO MOTIVO DI APPELLO DI FININVEST

LA RESPONSABILITA’ DI FININVEST PER IL FATTO ILLECITO

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La sesta doglianza di Fininvest era relativa alla erroneità della sentenza impugnata, per averla ritenuta responsabile del preteso fatto illecito, affermandone la responsabilità in connessione con quella presunta di Silvio Berlusconi e di Cesare Previti.

Rileva questa Corte che già nel quinto motivo di appello Fininvest si era lamentata del fatto che, per ciò che riguardava la posizione di Berlusconi, “appariva incredibile che il Tribunale avesse dedicato circa sessanta pagine al processo penale contro Previti, per poi ipotizzare ‘ex abrupto’ a pagina 119 una corresponsabilità della vicenda corruttiva da parte di Berlusconi ‘incidenter tantum ai soli fini civilistici del presente giudizio’”.

Fininvest, ad ogni buon conto, escludeva nuovamente che il bonifico di lire 3 miliardi fosse una provvista per la ritenuta corruzione. Inoltre, lamentava che l’addebito mosso a Berlusconi circa la presunta consapevolezza di detto bonifico, servito per pagare il giudice Metta, altro non fosse che l’applicazione dell’inaccettabile principio del “non poteva non sapere”. Il giudice di prime cure, tra l’altro, aveva effettuato un salto logico perchè una cosa era conoscere l’esistenza di un pagamento ed altro era conoscere il suo impiego.

Per quanto riguardava, poi, la posizione dell’avv. Previti, Fininvest affermava l’inesistenza di prove civilmente rilevanti di un illecito commesso a danno di CIR.

Su tali questioni ci si riporta per il dettaglio a quanto già sopra argomentato.

Fininvest si doleva, nello specifico, delle argomentazioni del giudice di prime cure nella parte in cui giustificava l’affermata responsabilità civile in ragione dei rapporti intercorrenti all’epoca dei fatti fra la stessa Fininvest da un lato e Berlusconi e Previti dall’altro, in quanto “questi ultimi ritenuti dalla gravata decisione entrambi autori del reato di corruzione” (appello Fininvest pag. 96).

Puntualizzava Fininvest che la fonte della responsabilità ritenuta dal Tribunale era da rinvenirsi nell’art. 2043 CC per Silvio Berlusconi, essendo presidente del consiglio d’amministrazione e legale rappresentante della società e nell’art. 2049 CC per Cesare Previti, stante la sua posizione di “mandatario generale” di Fininvest.

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In relazione alla responsabilità per il preteso fatto illecito di Berlusconi, Fininvest lamentava che il giudice di prime cure, nonostante che non fosse stato effettuato alcun accertamento positivo in sede penale in ordine al reato di corruzione, purtuttavia avesse affermato “incidenter tantum…ai soli fini civilistici e risarcitori di cui si discute…” che “il Berlusconi ha commesso il fatto de quo” (sent. impugnata pag. 121). In definitiva, secondo il giudice di primo grado Silvio Berlusconi doveva essere considerato corresponsabile del reato di corruzione, penalmente accertato solo nei confronti di Previti, Acampora e Pacifico, potendosi affermare in via presuntiva che egli conoscesse ed avesse approvato il bonifico di USD 2.732.868 eseguito da Fininvest in favore di Previti.

Così individuata la “ratio” della gravata decisione sul punto, a Fininvest appariva macroscopico il vizio del ragionamento del giudice di prime cure. Faceva difetto, in primo luogo, la prova della circostanza che il bonifico di USD 2.732.686 fosse stato disposto per ordine di Silvio Berlusconi o che questi ne fosse a conoscenza. La sentenza sul punto si limitava ad un mero postulato ("la posizione di vertice di Silvio Berlusconi nella stessa Fininvest”), facendone discendere che ogni operazione di detta società, per ciò solo, avrebbe dovuto essere nota al suo legale rappresentante. Ma, anche volendo presumere, come faceva l'impugnata sentenza, che Berlusconi non potesse non conoscere (e non avere approvato) il bonifico eseguito da Fininvest a Previti, detta circostanza non sarebbe valsa comunque a provare alcun suo coinvolgimento nell'ipotetico reato di corruzione, giacché il bonifico venne eseguito dalla società in relazione alla notoria ed ampiamente dimostrata attività professionale svolta dall'avv. Previti in favore di Fininvest. Del resto era significativo, ma in senso contrario alle arbitrarie conclusioni cui era pervenuta l'impugnata sentenza, che il predetto bonifico di circa tre miliardi di lire (in ipotesi conosciuto ed autorizzato da Berlusconi) non corrispondeva in alcun modo al preteso "prezzo" della corruzione (pari a lire 400 milioni) ritenuto dall'impugnata decisione.

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Fininvest ribadiva poi che l’importo di Lire 400 milioni ricevuto da Metta era stato, in sede penale, qualificato anche come prezzo della corruzione nella vicenda IMI-SIR, vicenda alla quale Berlusconi e Fininvest erano totalmente estranei. Non comprendeva l’appellante perché Berlusconi avrebbe dovuto autorizzare una dazione di quasi tre miliardi di lire se la corruzione poi si era risolta con il pagamento di sole lire 400.000.000. Fininvest ribadiva che i movimenti bancari non giustificavano l’assunto e vi era uno sfasamento temporale fra il primo bonifico e la disponibilità della somma asseritamente consegnata a Metta. Comunque, il Tribunale non aveva dimostrato che Silvio Berlusconi aveva conoscenza dell’uso illecito del danaro, ma si era arroccato su un “indimostrato teorema”.

Con riferimento, poi, alla ritenuta responsabilità di Fininvest per il fatto illecito ascritto a Previti, che responsabilizza Fininvest ai sensi dell’art. 2049 CC, l’appellante contestava la sussistenza della preposizione gestoria del predetto che il primo giudice qualificava come “mandato generale”. Innanzitutto, era priva di fondamento l'affermazione del giudice di primo grado secondo cui l'attività prestata dall'avv. Previti nel caso di specie non sarebbe stata qualificabile come prestazione d'opera professionale, mancando un formale mandato ad litem: se un formale mandato all'avvocato era necessario per essere dallo stesso rappresentati in un giudizio, nulla di tutto ciò era necessario per l'attività stragiudiziale e/o di consulenza legale, che ben poteva essere affidata dal cliente ad un avvocato senza che per questo venisse meno la natura di prestazione d'opera professionale richiesta dal cliente allo stesso avvocato (Cass. 16 giugno 2006, n. 13963). Il Tribunale confondeva, invece, tra i concetti di assistenza e rappresentanza processuale. Non ricorreva dunque alcun mandato generale in capo a Previti, libero ed autonomo professionista, che si trovava quindi in una condizione analoga a quella dell’avv. Erede per CIR.

L’appellante segnalava che il preposto doveva essere un soggetto inserito nell’organizzazione dell’impresa del preponente e soggetto a poteri di

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controllo e vigilanza dello stesso preponente (Cass. 22.6.2007 n. 14578): tale non poteva essere un avvocato libero professionista.

Osserva la Corte che il Tribunale ha ritenuto la responsabilità di Fininvest sia sotto il profilo del ruolo svolto da Silvio Berlusconi sia in relazione all’attività posta in essere da Previti: anche uno solo dei collegamenti è sufficiente per ritenere ai sensi dell’articolo 2043 CC o dell’articolo 2049 CC, la responsabilità di Fininvest.

Appare opportuno, per una questione di consequenzialità logica nell’analisi degli eventi, procedere dalla seconda delle questioni e cioè dal ruolo svolto dall’avv. Previti.

Ritiene la Corte che la doglianza di Fininvest non prende in considerazione la complessità dei fatti analizzati dal Tribunale nel suo insieme.

Omette di prendere in considerazione (sent. impugnata pag. 93), ad esempio, le dichiarazioni rese dalla teste Stefania Ariosto nel corso delle udienze dibattimentali del 21.5.2001 e 1.6.2001, che è necessario qui richiamare.

La teste aveva riferito di avere conosciuto Cesare Previti negli anni Ottanta, attraverso Giorgio Casoli, magistrato ed amico di famiglia. Era diventata buona amica di Previti, che la invitava spesso a casa per ricevimenti e cene o colazioni e che le aveva confidato di avere fondi illimitati messi a disposizione da Silvio Berlusconi per corrompere magistrati. Aveva ricevuto tali confidenze non in una sola e precisa occasione, ma Previti aveva spesso fatto riferimento a questi fatti illeciti nel periodo in cui maggiormente lo aveva frequentato, vale a dire negli anni '86, '87 e '88. Facendole tali confidenze, il predetto le aveva parlato di un gruppo di magistrati corrotti, dei quali però, ad eccezione di Renato Squillante, la sig.ra Ariosto non sapeva indicare i nomi, in quanto Previti non era stato mai preciso sul punto. La testimone però indicava alcuni nomi di magistrati che le era capitato di incontrare a casa del predetto nelle occasioni in cui era stata invitata: Carnevale, Brancaccio, Mancuso, Sammarco, Verde, Valente, Mele e Izzo.

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La teste aveva affermato di aver visto consegnare denaro da Previti e dal suo "collaboratore" Pacifico al solo Squillante; Previti le aveva anche confidato che dall'inizio degli anni Ottanta Squillante era il "collettore" delle tangenti, ossia colui il quale si occupava di distribuire danaro tra gli altri giudici; aggiungeva che, probabilmente, Previti aveva anche accennato ai processi per i quali Squillante aveva offerto la sua "mediazione", ma certamente allora non era in grado di ricordarli. Nulla sapeva di preciso sugli altri magistrati, se non quanto proveniente dalle generiche affermazioni di Previti, secondo il quale scopo di questa "lobby" era quello di corrompere i giudici nell'interesse di aziende coinvolte in contenziosi giudiziari.

La teste riferiva inoltre due episodi specifici ai quali aveva assistito, concernenti dazioni di danaro direttamente a Renato Squillante: uno di questi si era verificato durante una colazione a casa Previti, alla quale avevano partecipato Squillante, Pacifico ed altri magistrati; la teste rammentava di essere stata l'unica ospite di sesso femminile e che si trattava di una colazione al tavolo. Ad un certo punto si era alzata per andare alla toilette o al telefono e, passando, aveva potuto vedere Previti, Squillante e Pacifico che erano riuniti attorno ad un tavolino accanto ad una libreria: aveva anche potuto scorgere denari sul tavolino; aggiungeva che Squillante aveva detto una frase del tipo "... ci penso io ..." ma non poteva dire perché il denaro fosse sul tavolo. Fra gli altri, le pareva di ricordare la presenza anche del Presidente Carlo Sammarco e di Gianni Letta.

Aggiungeva che nell'occasione vi era un'atmosfera gioiosa, condivisa da tutti i presenti, e che si festeggiava una vittoria giudiziaria: non sapeva dire in relazione a quale causa, ma Berlusconi stesso aveva telefonato a Previti durante la riunione.

La testimone Stefania Ariosto proseguiva nelle sue dichiarazioni affermando che durante una vacanza in barca aveva sentito parlare della questione Mondadori e Previti aveva detto che la "guerra di Segrate" era stata vinta da lui; aggiungeva che nell'ambiente si diceva che Dotti era l'avvocato degli affari leciti e Previti di quelli illeciti.

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Elementi di riscontro di quanto riferito dalla Ariosto si desumono dalle dichiarazioni rese dall'Avvocato Vittorio Dotti che, sentito alle udienze dibattimentali del 17.5.2001 (doc. F 1 CIR) e del 22.2.2002 (doc. F 8 CIR ), aveva confermato che la predetta, nel corso della loro relazione e prima dei suoi contatti con la Guardia di Finanza e la Magistratura, gli aveva parlato della "capacità" di Cesare Previti di intrattenere "rapporti di confidenza con i magistrati" e che "ciò gli serviva per ottenere risultati professionali". A seguito delle contestazioni del PM l’avvocato Vittorio Dotti aveva ammesso che il senso delle confidenze fattegli dalla Ariosto era che Squillante sarebbe stato destinatario di denaro da parte di Cesare Previti.

Il testimone Giorgio Casoli, poi, (sentenza n. 4688/2003 del Tribunale penale di Milano, pagg. 362 segg.) confermava le confidenze a lui rese sul punto dalla Ariosto affermando: "effettivamente ... ebbe a dirmi che aveva visto passaggio di denaro, di bustarelle, di una bustarella dall'avv. Previti a Squillante, è vero che lei ebbe a dirmelo... ".

Questa Corte non può che rilevare che l’avv. Previti giocava un ruolo non propriamente consono allo svolgimento della sua professione, né sotto il profilo della rappresentanza legale né sotto quello della assistenza.

Ma anche a non voler credere alle parole di Stefania Ariosto, non si può comunque prescindere dalla ricostruzione delle movimentazioni bancarie, nelle quali Previti ebbe un ruolo centrale nella gestione del danaro proveniente da un conto Fininvest.

La Corte, poi, non può che considerare che Cesare Previti curava gli interessi di Fininvest sia all’estero che in Italia, organizzando, suddividendo e supervisionando il lavoro di altri avvocati; ciò Previti quasi mai faceva a seguito di conferimento di procura ad litem da parte di Silvio Berlusconi. Tale circostanza faceva osservare al Tribunale (sent. impugnata pag. 123) che “egli, come è stato detto dai testimoni, non compariva in delega, ma aveva da parte di Fininvest e di Berlusconi un mandato generale a curare, ai massimi livelli, gli interessi legali della convenuta” (ciò trovava riscontro, per le vicende italiane, nelle testimonianze degli Avvocati Vittorio

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Dotti - doc. F 1 ed F 8 CIR -, Aldo Bonomo - doc. F.16 CIR -, Carlo Momigliano - doc. F 18 CIR – e, per il lavoro all'estero, soprattutto dalle dichiarazioni del teste Angelo Codignoni, sentito nel dibattimento in appello - doc. 80 Fininvest -).

Corretto, dunque, è ritenere che “un rapporto giuridico di tal fatta non può essere giuridicamente qualificato come rapporto d'opera professionale, di cui manca anche il presupposto formale rappresentato dalla procura ad litem, e che esso deve essere meglio inquadrato nell'ambito del mandato generale …” (sent. impugnata pag 123).

Ritiene la Corte che la mancanza delle singole procure alle liti veniva giustamente considerata dal giudice di prime cure come un mero elemento “ad colorandum”, in un contesto gestorio basato sulla “organizzazione, suddivisione e supervisione” di tutti gli affari legali di Fininvest.

Del resto, non si può non rammentare che, a partire dal 1994, presso lo studio legale dell’avvocato Previti in Roma, Via Cicerone n. 60, si trovava una sede secondaria della Fininvest (docc. CIR M 2 ed M 3).

La Corte ritiene allora che nella fattispecie, esclusa nel caso concreto la singolare ipotesi di una “difesa generale senza singole procure alle liti”, l’istituto giuridico che maggiormente si attaglia alla fattispecie sia il mandato generale (cfr art 1708 CC), atto a configurare fra il mandante ed il mandatario il rapporto di preposizione gestoria rilevante ai sensi dell’articolo 2049 CC.

Si coglie lo spunto per evidenziare che non si può ritenere che la giurisprudenza citata in punto dal giudice di prime cure - ed ampiamente riferita in fase di esposizione delle ragioni poste dal Tribunale a fondamento della sua motivazione - sia inconferente, come suggerito da Fininvest, in quanto la rassegna è tesa a dimostrare la ricorrenza dell’istituto di cui all’articolo 2049 CC in tutti i casi di preposizione gestoria (lavoro subordinato, agenzia, mandato ecc.), ivi compresa l’ipotesi del mandato generale per la gestione degli affari altrui, contratto tipico e nominato dall’articolo 1708 CC.

Tali argomenti sono sufficienti, dunque, a responsabilizzare Fininvest, con riferimento alla condotta del condannato Previti, in relazione alle conseguenze inerenti la corruzione del giudice Metta.

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Le considerazioni svolte assorbono le ragioni di CIR, che ha svolto appello incidentale condizionato in relazione al ruolo di Cesare Previti, nel caso in cui la Corte non avesse ritenuto la sussistenza di un “mandato generale”, dovendosi in questo caso ritenere, a giudizio di CIR, che Previti svolgesse la funzione di amministratore di fatto per Fininvest.

Posto che tale argomento è sufficiente per ritenere la responsabilità di Fininvest, non ci si può tuttavia esimere dal prendere in considerazione anche l’altro profilo prospettato dal giudice di prime cure e relativo alla posizione giuridica di Silvio Berlusconi.

Sul punto, come si è detto, Fininvest lamentava che il giudice di prime cure, nonostante che non fosse stato effettuato alcun accertamento positivo in sede penale in ordine al reato di corruzione, purtuttavia affermava “incidenter tantum…ai soli fini civilistici e risarcitori di cui si discute…” che “il Berlusconi ha commesso il fatto de quo” (sent. impugnata pag. 121).

Ritiene la Corte che, se il rilievo intende lamentare che “non fosse stato effettuato alcun accertamento positivo in sede penale in ordine al reato di corruzione”, la censura non ha pregio, stante la separatezza più volte ribadita dei due riti (art 675 CPP) e stante la motivazione autonoma svolta dal giudice di prime cure.

Va poi aggiunto che il Tribunale fa buon uso delle categorie logico giuridiche, senza “appiattirsi” sul “non poteva non sapere”, in quanto analizza i fatti avvalendosi di categorie civilisticamente rilevanti ai fini della prova e ciò fa secondo l’insegnamento ormai ampiamente codificato della Suprema Corte di Cassazione.

Infatti, il giudice di prime cure prende in considerazione il notorio (“è noto che Fininvest spa è società appartenente alla famiglia Berlusconi, il cui azionariato è suddiviso all’interno di una cerchia ristretta di soci…” - sent. impugnata pag. 119) e lo coniuga con dati documentali: Silvio Berlusconi era all'epoca dei fatti di causa Presidente del consiglio di amministrazione di Fininvest e tale rimase fino al 29.01.1994 (vedi visura camerale Fininvest - doc. CIR M2). Lo stesso era inoltre legale rappresentante della società convenuta.

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Ciò premesso, il Tribunale è conseguente nell’affermare la sussistenza della responsabilità civile della società di capitali per il fatto anche penalmente illecito del legale rappresentante o dell'amministratore della stessa società, quando il comportamento sia posto in essere nel compimento di una attività connessa a quella aziendale.

La considerazione trova fondamento nel rapporto di immedesimazione organica che sussiste fra la società e l'amministratore o legale rappresentante (nda teoria dell’immedesimazione, tesi preferita dal giudice di prime cure) ovvero, alternativamente, nella responsabilità di cui all'art. 2049 CC (teoria della rappresentanza: l’amministratore ed il legale rappresentante agiscono a nome o per conto della società e comunque pongono in essere atti di gestione per quella).

Ad ogni buon conto, come già più sopra si è evidenziato, qualunque sia la soluzione teorica individuata, resta comunque il fatto che la soluzione del giudice di prime cure appare confermata già dalla sentenza n. 12951 del 5.12.1992 della Corte di Cassazione (sul punto si veda anche Cass. 26.10.2004 n. 20771 e Cass. 1.4.2009 n. 7961) che così insegna: "L'azione civile per il risarcimento del danno, nei confronti di chi è tenuto a rispondere dell'operato dell'autore del fatto che integra una ipotesi di reato, è ammessa - tanto per i danni patrimoniali che per quelli non patrimoniali - anche quando difetti una identificazione precisa dell'autore del reato stesso e purché questo possa concretamente attribuirsi ad alcune delle persone fisiche del cui operato il convenuto sia civilmente responsabile in virtù di rapporto organico, come quello che lega la società di capitali al suo amministratore". Prosegue dunque la sentenza affermando: "accertata incidenter tantum dal giudice di merito la responsabilità penale dell’amministratore nell'ambito dell'attività gestoria, la società risponde delle conseguenze civilistiche dell'illecito, ivi compreso il risarcimento del danno non patrimoniale.”

Il principio appare chiaro e condivisibile, a prescindere dall’ipotesi teorica di riferimento: l’organo di vertice della società responsabilizza quest’ultima per comportamenti di tipo gestorio posti in essere dalla persona fisica.

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Nel merito, però, l’appellante Fininvest si doleva anche del fatto che il giudice di primo grado avesse ritenuto Silvio Berlusconi corresponsabile del reato di corruzione, delitto penalmente accertato solo nei confronti di Previti, Acampora e Pacifico, sul presupposto che egli conoscesse ed avesse approvato il bonifico di USD 2.732.868 eseguito da Fininvest in favore dell’avv. Cesare Previti.

A Fininvest appariva evidente il vizio del ragionamento del giudice di prime cure finalizzato a ritenere la responsabilità di Silvio Berlusconi: faceva difetto, in primo luogo, la prova della circostanza che il bonifico di USD 2.732.686 fosse stato disposto per ordine del predetto o fosse a sua conoscenza; la sentenza sul punto si limitava ad un mero postulato ("la posizione apicale nella stessa Fininvest”), facendone discendere che ogni operazione di detta società, per ciò solo, avrebbe dovuto essere nota al suo legale rappresentante.

Osserva la Corte che, in verità, il giudice di prime cure svolge un ragionamento più ampio che è possibile così sintetizzare (pag 120): la Corte di Appello di Milano, con sentenza e decreto del 12.5.2001, depositati il 25.6.2001, dispose il rinvio a giudizio di Previti, Metta, Acampora e Pacifico per il reato di corruzione in atti giudiziari e pronunciò nei confronti di Berlusconi sentenza di non doversi procedere per il reato di corruzione ordinaria, così modificata l'originaria imputazione di corruzione in atti giudiziari perché, concesse le attenuanti generiche, il reato era estinto per intervenuta prescrizione (doc. D 11 CIR).

Contro tale sentenza Berlusconi propose ricorso per cassazione chiedendo il proscioglimento con formula piena di merito, ma il ricorso venne rigettato dalla Suprema Corte con sentenza n. 3524 del 16.11.- 19.12.2001 (doc CIR D 12).

Affermava testualmente il Tribunale: “…il sistema processuale penale italiano contiene la regola, posta dall'art. 129 CPP, secondo la quale il giudice, una volta rilevata la sussistenza di una causa estintiva del reato, non può compiere alcun ulteriore accertamento probatorio sulla responsabilità dell'imputato, ma deve senz’altro dichiarare la causa estintiva del reato, a meno che dagli atti già emerga la prova evidente che il fatto non sussiste o l'imputato non l'ha commesso, poiché in tal

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caso il giudice è tenuto a pronunciare il proscioglimento nel merito del prevenuto. Pertanto, se il Berlusconi non è stato prosciolto nel merito dalla Corte nella predetta sede, è perché, ad avviso della medesima, non vi era l'evidenza, alla stregua del materiale probatorio allora disponibile, dell'innocenza dell'imputato”.

Tale affermazione è giuridicamente corretta e del resto questa Corte pone in evidenza che su tale principio giuridico non vi è stata contestazione specifica: se ne deduce che, alla stregua del materiale probatorio disponibile, non è emersa in sede penale l’evidente innocenza dell’imputato.

La Corte, poi, considera che il proscioglimento fu disposto dal giudice penale solo a seguito della concessione delle attenuanti generiche, il che comporta necessariamente la seguente progressione logica: la Corte, che in sede penale procedeva al proscioglimento di Berlusconi doveva aver messo in relazione un fatto storico costituente reato attribuito all’imputato con le valutazioni di cui all’articolo 62 bis CP (concessione delle attenuanti generiche); si evidenzia che il primo elemento è logicamente precedente al secondo e, per svolgere l’operazione logica, non si può che postulare la sussistenza del reato come ascritto all’imputato.

Rileva, peraltro, la Corte che, a ben guardare, la “non innocenza processuale” non costituisce ancora di per sé un elemento di prova civilisticamente rilevante circa la responsabilità di Silvio Berlusconi nel fatto di corruzione, ma è un elemento che serve per svolgere il successivo ragionamento.

E’ dunque metodologicamente corretta l’affermazione del giudice di prime cure (sent. impugnata pag. 121) per cui “trattasi quindi di pronuncia che - ovviamente - preclude l’assoggettamento del Berlusconi medesimo a giudizio di responsabilità penale ed a sanzione penale per il fatto per cui è causa ma, trattandosi di sentenza non emessa a seguito di giudizio di merito, ma solo a seguito di applicazione di causa estintiva del reato, essa non esclude in alcun modo che, nella presente sede, venga ritenuto "incidenter tantum" che il Berlusconi ha commesso il fatto ‘de quo’, ai soli fini civilistici e risarcitori, di cui qui si discute”.

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A questo punto il giudice di prime cure svolge il ragionamento censurato dall’appellante, che qui non si può non riproporre per intero: "A questo proposito, vale osservare che i conti All Iberian e Ferrido erano conti correnti accesi su banche svizzere e di cui era beneficiaria economica la Fininvest. E’ quindi assolutamente (im)pensabile che un bonifico dell'importo di USD 2.732.868 (circa 3 miliardi di lire) potesse essere deciso ed effettuato senza che il legale rappresentante, che era poi anche amministratore della Fininvest, lo sapesse e lo accettasse”.

In altre parole, il Tribunale ritiene di potere fare uso della prova per presunzioni, che nel giudizio civile ha la stessa dignità della prova diretta: come è noto, la presunzione è un argomento logico, mediante il quale si risale dal fatto noto, che deve essere provato in termini di certezza, al fatto ignoto (artt. 2727 sgg CC); orbene, nella fattispecie si hanno i seguenti fatti conosciuti: la provenienza della somma di USD 2.732.868 bonificati, in vista delle già dimostrate finalità corruttive, a Previti dai conti All Iberian e Ferrido, dei quali è accertata l’appartenenza a Fininvest e la posizione di vertice di Silvio Berlusconi in Fininvest.

Da tali circostanze note è lecito e conseguente risalire al fatto ignoto, e cioè alla consapevolezza ed all'accettazione dell'inoltro a Previti della provvista corruttiva da parte di Silvio Berlusconi, e ciò in base ad un criterio di "normalità": vale a dire che, ai fini che qui interessano, il Tribunale ha correttamente ritenuto rientrare “nell'ordinario svolgersi degli accadimenti umani che un bonifico di quella entità potesse essere inoltrato solo sulla base della preventiva accettazione da parte di chi nella compagine sociale, da cui proveniva la somma destinata alla condotta attiva, ricopriva una incontrastata posizione di vertice.”

Questo ragionamento del giudice di prime cure non presenta alcun vizio logico o giuridico. Del resto Fininvest non contesta l’uso del “criterio di normalità” in sé, e non indica che cosa sarebbe “più normale” nel caso di specie, limitandosi a postulare l’entità risibile della somma di USD 2.732.868 nel complesso della gestione della società.

Fininvest non contesta neppure il principio ribadito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, in materia di prova del danno, nella sentenza n. 26972 dell'11.11.2008

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(citata proprio dal primo giudice), in cui si afferma che “il ricorso alla prova presuntiva è destinato ad assumere particolare rilievo, e potrà costituire anche l'unica fonte per la formazione del convincimento del giudice, non trattandosi di mezzo di prova di rango inferiore agli altri (v. tra le tante, sentenza 9834/2002). Il danneggiato dovrà tuttavia allegare tutti gli elementi che, nella concreta fattispecie, siano idonei a fornire la serie concatenata di fatti noti, che consentano di risalire al fatto ignoto".

Né l’appellante si duole dell’argomento in diritto per cui ancora di recente la Cassazione ha affermato: "il convincimento del giudice può ben fondarsi anche su sola presunzione, purché grave e precisa, nonché su una presunzione che sia in contrasto con altre prove acquisite, qualora la stessa sia ritenuta di tale precisione e gravità da rendere inattendibili gli elementi di giudizio ad essa contrari. Né occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva nessità causale, essendo sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità, cioè che il rapporto di dipendenza logica fra il fatto noto e quello ignoto sia accertato alla stregua di canoni di probabilità, con riferimento ad una connessione possibile e verosimile di accadimenti, la cui sequenza e ricorrenza possano verificarsi secondo regole di esperienza " (Cass. n. 16993 del 1.8.2007).

Corretto, allora, è affermare (come fa il Tribunale - sent. impugnata pag 122) che nel giudizio civile la prova presuntiva è pienamente utilizzabile facendo uso dei criteri di ragionevolezza e di normalità e che, addirittura anche nel giudizio penale, la regola per cui la responsabilità dell'imputato deve essere provata "al di là di ogni ragionevole dubbio" è stata ed è interpretata nel senso che le possibilità "remote" possano essere escluse dal giudice penale” (Cass. n. 23813 del 8.5.2009).

In questa prospettiva è esatta e coerente con i fatti sopra rappresentati l’affermazione per cui “facendo buon uso dei principi come sopra riferiti della Suprema Corte, è da dire che sarebbe assolutamente fuori dell'ordine naturale degli accadimenti umani che un bonifico di circa 3 miliardi di lire sia disposto ed eseguito, per le dimostrate finalità corruttive, senza che il dominus della società, dai cui conti il bonifico

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proviene, ne sia a conoscenza e lo accetti. Pertanto è da ritenere, incidenter tantum ed ai soli fini civilistici del presente giudizio, che Silvio Berlusconi sia corresponsabile della vicenda corruttiva per cui si procede, corresponsabilità che, come logica conseguenza, comporta, per il principio della responsabilità civile delle società di capitali per il fatto illecito del loro legale rappresentante o amministratore commesso nell'attività gestoria della società medesima, la responsabilità della stessa Fininvest”.

Alla luce di tali argomenti l’appellante non ha neppure obiettato che era più probabile che Silvio Berlusconi “non sapesse del bonifico e della sua destinazione piuttosto che lo sapesse”, ma si è limitata alla contestazione generica per cui “faceva difetto, in primo luogo, la prova della circostanza che il bonifico di USD 2.732.686 fosse stato disposto per ordine dell'On. Silvio Berlusconi o fosse a sua conoscenza: la sentenza sul punto si limitava ad un mero postulato ("la posizione apicale di Silvio Berlusconi nella stessa Fininvest”), facendone discendere che ogni operazione di detta società, per ciò solo, avrebbe dovuto essere nota al suo legale rappresentante”.

Aggiungeva ancora Fininvest che, anche volendo presumere, come faceva l'impugnata sentenza, che Berlusconi non potesse non conoscere il bonifico eseguito da Fininvest all'avv. Previti, detta circostanza non sarebbe valsa comunque a provare alcun suo coinvolgimento nell'ipotetico reato di corruzione (“presumptio de presumpto”, come ritenuto in comparsa conclusionale pag 100), giacché il bonifico, di cui qui si discute, venne eseguito dalla società in relazione alla attività professionale svolta dall'avvocato Previti in favore di Fininvest, la dazione a Metta (lire quattrocento milioni) non corrispondeva all’entità del bonifico, questa, semmai, era riferita alla vicenda IMI-SIR ed inoltre i movimenti bancari non giustificavano l’assunto (vi era uno sfasamento temporale fra il primo bonifico e la disponibilità della somma asseritamene consegnata a Metta). Comunque, il Tribunale non aveva dimostrato che Silvio Berlusconi aveva conoscenza dell’uso illecito del danaro, ma si era arroccato su un “indimostrato teorema”.

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Pressoché tutti gli argomenti evidenziati da Fininvest sono stati sopra analizzati nel quinto motivo di appello e ad essi si rimanda.

Resta l’argomento per cui, a tutto voler concedere, la conoscenza del bonifico non dimostra il coinvolgimento di Silvio Berlusconi nel suo utilizzo a fini corruttivi.

Ritiene la Corte che questo convincimento trova invece conforto in una serie di altri elementi (già esaminati ma che è necessario qui riproporre).

In primo luogo, si ribadisce il fatto storico per cui la Corte di Appello Penale di Milano, con provvedimento del 12.5.2001, depositato il 25.6.2001, dispose il rinvio a giudizio di Previti, Metta, Acampora e Pacifico per il reato di corruzione in atti giudiziari e pronunciò nei confronti di Silvio Berlusconi sentenza di non doversi procedere per il reato di corruzione ordinaria, così modificata l'originaria imputazione di corruzione in atti giudiziari, perché, concesse le attenuanti generiche, il reato era estinto per intervenuta prescrizione (doc. D 11 CIR) ed il ricorso con il quale Berlusconi chiedeva il proscioglimento con formula piena di merito venne rigettato dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 3524 del 16.11.- 19.12.2001 (doc CIR D 12). In detta sentenza, che vagliava gli atti sotto il profilo della sufficienza della prova ai fini penali (e quindi utilizzando addirittura il parametro più garantista del “ragionevole dubbio”), si legge che: "il pubblico ministero appellante non aveva certo motivo di lamentarsi di alcunché, avendo il GUP avuto cura di precisare che, ove fosse stata raggiunta la prova della corruzione passiva, il ruolo e le responsabilità rivestite nella Fininvest dall'imputato, il suo interesse alla causa, i suoi rapporti con Previti ed il bonifico di oltre tre miliardi operato a favore di quest'ultimo costituivano elementi ampiamente sufficienti a imporre il rinvio a giudizio"; e più oltre: "la Corte di Appello ha positivamente affermato che gli elementi raccolti nel corso delle indagini avrebbero legittimato il rinvio a giudizio, pervenendo però a una decisione liberatoria per il ritenuto riconoscimento delle attenuanti generiche, determinanti l'estinzione del reato per prescrizione" (doc CIR, D 12, pagg. 13 e 20).

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In secondo luogo risultano le dichiarazioni rese da Stefania Ariosto, sopra ampiamente esposte e confermate dai testimoni Vittorio Dotti, sentito alle udienze dibattimentali del 17.5.2001 (doc. F 1 CIR) e del 22.2.2002 (doc. F 8 CIR), e Giorgio Casoli (sentenza n. 4688/2003 del Tribunale penale di Milano, pagg. 362 sgg.).

Inoltre, non si può prescindere dalla cronologia dei versamenti dei bonifici che partono da Fininvest per giungere, scorporate le competenze altrui, a Vittorio Metta nei modi sopra indicati.

Ed anche se si volesse accedere alla considerazione dell’appellante per cui la somma di tre miliardi di lire non fosse così eccezionale nel bilancio di Fininvest al punto di ritenere che l’organo di vertice ne fosse necessariamente a conoscenza, rimane il fatto che la somma era per l’epoca certamente importante; a ciò si deve comunque aggiungere che essa fu versata per una causale tutt’altro che irrilevante, essendo finalizzata, mediante la corruzione di un magistrato, alla “miglior spartizione” della Mondadori, vicenda che aveva una rilevanza evidente non solo negli assetti economici, ma anche politici generali (si vedano gli interventi del Presidente del Consiglio dell’epoca): tali considerazioni escludono che l’organo di vertice di Fininvest non fosse a conoscenza della dazione e delle sue finalità.

In altri termini, i “due fatti” analiticamente scomposti dalla appellante (conoscenza della somma bonificata e partecipazione all’accordo corruttivo), altro non sono, per quanto sopra detto, che un unico fatto storico: infatti, alla luce dei principi di giurisprudenza sopra enucleati, è assolutamente improbabile, anzi fuori da ogni plausibile logica, che nel febbraio '91 una qualsiasi persona fisica abbia versato tre miliardi di lire di Fininvest a Previti, in mancanza di una obbligazione debitoria nei suoi confronti, perché li gestisse nell'interesse della medesima Fininvest anche e soprattutto a fini corruttivi, tenendo il proprietario della società pagatrice e beneficiaria all'oscuro dell'esistenza o anche solo del fine di questa operazione; com'è ovvio che sia, nessun gestore o collaboratore, neppure al più alto livello, avrebbe mai assunto su di sé la decisione, la responsabilità ed il rischio di un'iniziativa di tale portata in mancanza di un'univoca direttiva del dominus. Salvo,

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appunto, elucubrare di corruttori intraprendenti ed audaci che in autonomia sottraggono tre miliardi di lire a Fininvest per consumare una corruzione "clandestina" rispetto allo stesso (per "immedesimazione organica") soggetto pagatore e beneficiario dell'illecito, è certo, essendo il contrario addirittura irreale, che il dominus della società in persona abbia promosso ovvero consentito la condotta criminosa, concretamente realizzata con denaro suo ed a suo illecito profitto attraverso esecutori materiali a lui strettamente legati.

Le conclusioni alle quali si è così pervenuti in ordine al ruolo svolto da Previti e da Berlusconi consentono di ritenere assorbite le ragioni contenute nell’appello incidentale condizionato svolto da CIR, per sostenere il coinvolgimento diretto di Fininvest nella corruzione di Metta, a prescindere cioè dalla commissione dell’illecito da parte dei predetti, per il caso in cui la Corte non avesse ritenuto che Fininvest dovesse rispondere ex art 2049 CC (nda ovvero ex art 2043 CC per quanto riguardava Silvio Berlusconi nella ritenuta ipotesi di “immedesimazione”) dell’operato dei due autori della corruzione di Metta, o anche di uno solamente degli stessi.

IL SECONDO MOTIVO DI APPELLO DI FININVEST E IL PRIMO MOTIVO DI APPELLO INCIDENTALE CONDIZIONATO DI CIR: IL LODO PRATIS E LA SENTENZA DELLA CORTE D’APPELLO DI ROMA N. 259/91

Il secondo motivo di appello di Fininvest, ripreso in memoria conclusionale alle pagine 10 e seguenti, è complesso e necessita di analisi dettagliata.

L’appellante sosteneva che CIR avrebbe dovuto dimostrare che: 1) essa aveva una rilevante possibilità di ottenere una sentenza di conferma del lodo, 2) la sentenza della Corte d’Appello di Roma era ingiusta, mentre giusto era il lodo Pratis e che 3) tale sentenza era frutto della corruzione. Perchè fosse fondata la pretesa di CIR doveva ricorrere la prova di ognuna delle tre allegazioni.

Tali assunti, però, non erano veri e, comunque, non erano dimostrati: ciò spezzava il nesso eziologico - come evidenziato dall’appellante nel primo motivo di appello trattato al

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capitolo seguente - che doveva ricorrere per poter coltivare l’ipotesi risarcitoria ex art 2043 CC.

In relazione al nesso di causa, Fininvest aggiungeva (il tema veniva affrontato specificamente nel quinto motivo di gravame al quale si rinvia) che, anche a voler ritenere non giusta la sentenza della Corte d’Appello di Roma, il nesso di causalità si era comunque interrotto per fatto di CIR e cioè per comportamenti aventi una valenza causale assorbente (nda: rinuncia al ricorso per cassazione ed intervenuta transazione).

Tanto premesso, l’appellante esordiva sostenendo che la sentenza della Corte d’Appello di Roma era conforme al diritto: tra l’altro, faceva rilevare “ad colorandum” (argomento poi ripreso in comparsa conclusionale a pagina 18) che delle cinque sentenze penali emesse sul lodo Mondatori, solo quella del Tribunale di Milano del 29.4.2003 aveva sostenuto che la sentenza della Corte d’Appello di Roma n. 259/91 era stata frutto “per il suo contenuto” della corruzione.

Secondo l’appellante (il concetto veniva ribadito in comparsa conclusionale, a pagg. 13 e 14, con segnalazione delle posizioni dottrinarie all’epoca asseritamente dominanti), detta pronuncia era giusta anche solo se si considerava che “la nullità di uno dei capi del lodo dichiarata nella fase rescindente si estendeva anche agli altri, invalidando l’intero giudizio e tutta la sentenza arbitrale”, come emergeva dal principio di indivisibilità del lodo contenuto in Cass. 13.10.1986 n. 5983 e in Cass. 9.5.1985 n. 2876.

Fininvest, poi, lamentava che nessuna parola il giudice di prime cure aveva speso in relazione al fatto che nel processo avanti la Corte d’Appello di Roma erano intervenuti gli altri soci del patto AMEF (Fininvest, famiglia Mondadori, Find, Moratti) per far dichiarare l’inefficacia del lodo Pratis: non soltanto, dunque, la sentenza romana aveva giustamente annullato la pronuncia arbitrale in accoglimento dell’impugnazione dei Formenton ma, anche se avesse respinto quell’impugnazione, il lodo non sarebbe “sopravvissuto” alle censure degli intervenuti.

Entrando nello specifico, per quanto atteneva alla questione della validità o nullità dei patti parasociali contenuti nella convenzione 21.12.1988, Fininvest assumeva che, in riferimento alle clausole 2 e 5 (delle quali si è ampiamente riferito nella parte iniziale), lo stesso lodo

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Pratis, che aveva ritenuto il patto sindacale “nel suo complesso valido ed efficace”, aveva espresso perplessità sulla “validità di qualche clausola”. Il Tribunale, che aveva recepito unicamente le ragioni di CIR, aveva sorvolato (pag. 77 sent. impugnata), secondo le parole dell’appellante, “sulla (in)validità dei patti della convenzione, benché l’annullamento di tale parte del lodo avrebbe automaticamente comportato l’annullamento totale del lodo stesso (art 830 CPC), e ciò anche a prescindere dalla questione della inscindibilità delle clausole del patto Formenton - CIR”.

In verità, la sentenza della Corte d’Appello di Roma n. 259/91 era senz’altro giuridicamente corretta per ciò che riguardava la ritenuta invalidità delle seguenti pattuizioni: a) predeterminazione della composizione degli organi sociali; b) ingerenza dei soci nelle competenze degli organi di gestione; c) obbligo dei soci di votare in conformità delle proposte dei consigli di amministrazione dell'AMEF e della Mondadori e, per alcune materie (fusioni, aumenti di capitale, conferimenti, acquisti/cessioni di aziende), in conformità alle determinazioni di un collegio di tre esperti; d) obbligo di astenersi dal voto per le delibere sottoposte alle assemblee Mondadori riguardanti determinate materie (fusioni, aumenti di capitale, conferimenti, acquisti/cessioni di aziende, nonché modifiche dell'oggetto sociale e aumenti di capitale con esclusione del diritto di opzione dei soci), obbligo il cui adempimento era stato assicurato attraverso il trasferimento di azioni Mondadori ad una fiduciaria (cd. sindacato ad "efficacia reale").

Infatti, per quanto riguardava il punto a) (predeterminazione della composizione degli organi sociali), la Corte romana giustificava le sue conclusioni richiamando Cass. 25.1.1965 n. 136, per la quale era nullo, in quanto contrario alle norme imperative, il patto con cui venivano predeterminati dai soci, anziché dall’assemblea, i criteri di nomina degli amministratori: a detta di Fininvest, la sentenza era perfettamente in linea con la prevalente giurisprudenza e dottrina dell’epoca.

Per quanto atteneva al punto b) (ingerenza dei soci nelle competenze degli organi di gestione), la sentenza in esame aveva correttamente ritenuto che "poiché gli amministratori, in ossequio a tale fondamentale principio di ordine pubblico, sono tenuti

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ad agire nell'esclusivo interesse sociale e non secondo le disposizioni che loro provengono dagli azionisti di maggioranza, le parti hanno dedotto in contratto un patto illecito" (doc. Fininvest n. 97, fascicolo di primo grado, pag. 124): a supporto di tale convincimento la Corte d’Appello di Roma aveva richiamato il precedente di Cass. 10 aprile 1965 n. 635 (in Foro it., 1965, I, 1214), che aveva escluso che l'amministratore potesse essere obbligato ad attenersi a particolari direttive dategli da soci od estranei, in contrasto con gli interessi della società o dei singoli soci, o comunque lesive dei diritti e delle facoltà riconosciute dalla legge o dallo statuto alla società o ai soci.

In relazione al punto c) (obbligo dei soci di votare in conformità delle proposte dei consigli di amministrazione di AMEF e di Mondadori e, per alcune materie - quali fusioni, aumenti di capitale, conferimenti, acquisti/cessioni di aziende -, in conformità alle determinazioni di un collegio di tre esperti) la Corte d’Appello di Roma, dato atto che sul punto "non consta(va)no precedenti giurisprudenziali”, aveva correttamente osservato che la dottrina era "unanime nel riconoscere l'illiceità di una convenzione siffatta, non foss'altro che per evitare che gli amministratori ed azionisti padroni della società abusassero del loro potere, con rischio di sacrificio dell'interesse sociale"; inoltre aveva fatto riferimento all'art. 35 della V Direttiva CEE nella "proposta modificata" del 19 agosto 1983 (in Giur. comm., 1983, I, 960) che affermava in termini inequivocabili lo stesso principio (doc. Fininvest n. 97, fascicolo di primo grado).

Per quanto riguardava il punto d) (obbligo di astenersi dal voto per le delibere sottoposte alle assemblee Mondadori riguardanti determinate materie - fusioni, aumenti di capitale, conferimenti, acquisti/cessioni di aziende, nonché modifiche dell'oggetto sociale e aumenti di capitale con esclusione del diritto di opzione dei soci -, obbligo il cui adempimento era stato assicurato attraverso il trasferimento di azioni ad una fiduciaria - cd. sindacato ad "efficacia reale" -), la Corte romana aveva correttamente osservato, secondo Fininvest, in primo luogo che nel senso della nullità si era appena prima espresso il Tribunale di Milano adito da CIR per sentir

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dichiarare l'illiceità della Convenzione di voto AMEF del 26 gennaio 1986 (ord. 28 marzo 1990, in Giur. It, 1990,1, 2, 337); in secondo luogo aveva affermato che "quando il vincolo sul voto acquista i caratteri della realità... il voto perde il suo indefettibile carattere di autenticità e l'organo assembleare viene irrimediabilmente svuotato della funzione che le norme inderogabili di diritto societario gli assegnano" (doc. Fininvest n. 97, fascicolo di primo grado). La questione afferiva al ben noto dibattito, ancor oggi non concluso, circa la validità o meno dei sindacati di voto aventi c.d. "efficacia reale" per assicurare in forma specifica l'attuazione dei patti relativi all'esercizio del diritto di voto. Certo era che all'epoca il tema era scarsamente trattato ed era divenuto di attualità proprio dopo la sentenza dell'Appello di Roma. L’appellante rammentava che proprio CIR, all'epoca del procedimento avanti il Tribunale di Milano, aveva invocato la nullità dei sindacati di voto aventi efficacia reale con riferimento al patto di sindacato AMEF e la sua eccezione era stata accolta dal Tribunale di Milano.

Ciò consentiva a Fininvest di considerare che alla luce di tutti tali elementi, CIR non aveva serie probabilità di ottenere una conferma del lodo: la soccombenza di CIR su tali punti era sufficiente (ex art. 830 cod. proc. civ. nel testo ante novella n. 25 del 1994) per determinare automaticamente l'annullamento dell'intero lodo.

Per quanto riguardava, poi, le questioni del vizio di motivazione e della “inscindibilità”, riteneva Fininvest che CIR avesse una ancor minore probabilità di ottenere una conferma del lodo quanto al dedotto vizio di motivazione, dal momento che non era vero, come aveva affermato a torto la sentenza “Carfì” (sent .Tribunale penale di Milano n. 4688 del 2003), che la motivazione sarebbe stata "del tutto congrua e comprensibile” e comunque che “non poteva assolutamente essere qualificata come motivazione talmente carente e contraddittoria da non consentire la individuazione della ratio decidendi" (cfr. sentenza pag. 81). Era vero il contrario: “era la motivazione del lodo sul punto

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della scindibilità dei patti di sindacato rispetto alle residue parti della convenzione tra Formenton e CIR ad essere del tutto carente”.

Rammentava, poi, Fininvest che nella convenzione Formenton-CIR in data 21.12.1988, all'articolo 9, si prevedeva che: "la Famiglia Formenton e la CIR si danno atto che le pattuizioni della presente convenzione costituiscono un insieme inscindibile ed equilibrato di diritti e di doveri e vanno di conseguenza considerate ed attuate nella loro interezza" (doc. Fininvest n. 2).

Si trattava di una clausola valida, perché le parti erano libere di stabilire che, se una pattuizione tra loro concordata fosse risultata nulla, tutto il contratto era invalido, e ciò in quanto una clausola siffatta non limitava gli effetti della nullità, ma li estendeva, e quindi non derogava alla disciplina legale della nullità: l'esistenza di una clausola siffatta precludeva ogni indagine sulla volontà delle parti di considerare scindibili o inscindibili le diverse pattuizioni che componevano il loro accordo, perché sul punto le parti si erano già inequivocabilmente espresse.

Ed invece il lodo, sottolineava Fininvest, a fronte del disposto dell'art. 9, statuiva in modo del tutto apodittico che “l’affermata inscindibilità non preclude affatto l’indagine tendente ad accertare se talune clausole della convenzione che singolarmente fossero colpite da nullità siano da considerarsi parte obiettivamente scindibile del regolamento negoziale” (doc. Fininvest n. 25, fascicolo di primo grado). Qui era palese la totale assenza di motivazione ed era del tutto ovvio che la sentenza della Corte d'Appello di Roma avesse censurato il lodo sotto questo profilo (doc. Fininvest n. 97, pag. 105).

Aggiungeva l’appellante che del tutto carente era anche la motivazione che conduceva il lodo Pratis a discettare di scindibilità: bastava pensare che l’elaborato arbitrale a pag. 83 argomentava sostenendo che i patti parasociali, ove nulli, sarebbero stati sostituiti di diritto dalla disciplina legale e quindi non avevano carattere essenziale; trattavasi di argomentazione priva di ogni fondamento, perché le parti avevano stipulato i patti parasociali proprio per derogare alla disciplina legale (doc. Fininvest n. 25, fascicolo di primo grado).

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In ogni caso, la presenza nel lodo di un duplice contestuale profilo oggetto di fondata censura (la inopinatamente ritenuta validità dei patti parasociali e il difetto di motivazione sulla scindibilità) faceva venir meno l'argomento dell'appellata sentenza, secondo la quale sarebbe stata molto più facile una conferma del lodo che non un suo annullamento, perché si sarebbe potuto avere un annullamento della parte relativa alla validità dei patti parasociali ed una conferma relativa alla scindibilità della promessa di permuta.

Ancora una volta, secondo Fininvest, non si poteva valutare una possibilità di conferma o di annullamento in termini astratti, ma occorreva farlo in concreto: se un lodo era censurabile sotto due profili contemporaneamente, la “chance” di una sua conferma si azzerava.

L’appellante, poi, riteneva che fosse completamente inventato il limite alla sindacabilità della motivazione, e cioè che il sindacato della Corte d'Appello dovesse intendersi, come ritenuto dal Tribunale, "non nel senso alquanto esteso in cui esso è rilevabile nel ricorso per cassazione": infatti, considerava Fininvest, se era vero che dopo la riforma del 1994 la giurisprudenza era divenuta più rigorosa, era incontestabile che all'epoca vigesse un principio opposto a quello affermato dal Tribunale. Infatti, si leggeva testualmente dalla motivazione di Cass. 25 ottobre 1986 n. 6264: "È necessario che il lodo sia motivato proprio per consentire al giudice della impugnazione di controllare se gli arbitri hanno tenuto presenti i quesiti loro esposti e se a questi hanno dato adeguata risposta. È, d'altronde, giurisprudenza consolidata l’affermazione per cui il difetto di motivazione del lodo va apprezzato dalla Corte d'Appello nella sua qualità di giudice della impugnazione del lodo con gli stessi criteri che adotta la Corte di Cassazione quando valuta la motivazione delle sentenze dei giudici ordinari; che, in specie, può essere causa di nullità del lodo, ex n. 5 art. 829 CPC, non solo la totale mancanza dei motivi della decisione ma anche la loro insufficienza e soprattutto la loro totale inadeguatezza rispetto ai quesiti posti agli arbitri stessi.”

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Fininvest riteneva dunque che la sentenza della Corte di Appello di Roma fosse giusta e che CIR non avesse alcuna “chance” di ottenere una pronuncia di conferma del lodo.

L’appellante, poi, ribadiva che tale pronuncia non era stata frutto di corruzione: la sentenza appellata cadeva in errore nel ritenere che la pretesa corruzione del giudice Metta avesse avuto come conseguenza la ingiustizia della sentenza della Corte di Appello (sentenza, pag. 84). Osservava Fininvest, innanzitutto, che la decisione conteneva una palese contraddizione laddove, da un lato (a pag. 126), riteneva che "una sentenza ingiusta avrebbe potuto essere emessa da un collegio nella sua interezza non corrotto" e, dall'altro, statuiva che la sentenza della Corte di Appello era “in toto” frutto della pretesa corruzione del giudice Metta.

Così affermando, il Tribunale negava la sussistenza di un nesso fra corruzione ed ingiustizia della sentenza; infatti, se si ammetteva che la sentenza della Corte d'Appello di Roma avrebbe comunque potuto avere un determinato contenuto (nda: annullamento del lodo), non si poteva al tempo stesso sostenere che essa aveva quel contenuto soltanto perché frutto della pretesa corruzione del giudice Metta.

A parte questa contraddizione logica, l’appellante rilevava anche che le argomentazioni specifiche che avevano portato il Tribunale a sostenere che il risultato della sentenza romana fosse stato frutto della pretesa corruzione del giudice Metta erano prive di consistenza. Infatti, l'argomento centrale della pronuncia era che il Collegio non sarebbe stato orientato dal relatore Metta "sull'esame del problema dei vizi motivazionali del lodo concretamente censurabili dai giudici di appello in quella sede" (cfr. sentenza pag. 83), tenuto conto del fatto che l’arbitrato oggetto di impugnativa era di equità e non di diritto: ciò era assurdo, stante la competenza e l’esperienza dei magistrati della prima sezione civile della Corte di Appello di Roma.

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Per le stesse ragioni di professionalità dei magistrati, all’appellante era incomprensibile la parte della motivazione della sentenza impugnata in cui si asseriva che il giudice Metta - nonostante che "camera di consiglio vi fu (fosse stata) e non fu (fosse stata) formale" - non aveva "orientato il Collegio sull'esame del problema dei vizi motivazionali del lodo concretamente censurabili dai giudici di appello" e cioè su una questione di carattere elementare.

Era, poi, strano che il giudicante di prime cure avesse osservato che "nulla è stato detto da alcuno dei testi ascoltati circa il problema dei poteri decisori della Corte d'Appello": il Tribunale aveva il potere, in sede di audizione dei testi Valente e Paolini, di "rivolgere d'ufficio... tutte le domande che riteneva utili a chiarire i fatti medesimi (art. 253 CPC)…” L’assunto, comunque, non era vero nello specifico, in quanto il teste Paolini aveva riferito che erano state esaminate “tutte le questioni giuridiche che l'appello poneva” ed il teste Valente non solo lo aveva ribadito, ma aveva aggiunto che aveva voluto, come Presidente del Collegio, che "fossero fissati tutti i punti particolari che il collegio riteneva dovessero essere trasfusi nella motivazione della sentenza" e che aveva letto "attentamente la sentenza verificando che la motivazione corrispondesse agli appunti scritti in camera di consiglio”.

Concludeva Fininvest evidenziando che il Tribunale non poteva avventurarsi in presunzioni che, anche secondo il buonsenso, erano assolutamente inconsistenti: era insostenibile l’operazione logica svolta dal Tribunale che aveva cercato “un appiglio” per andare oltre l'insuperabile dato della piena ed effettiva collegialità della decisione.

Infine, dimenticava il primo giudicante che i testi, da lui ritenuti affidabili, avevano riferito di aver letto tutti gli atti di parte, e quindi anche quelli nei quali CIR, consapevole della inconsistenza del lodo nella parte in cui aveva affermato la scindibilità, aveva sostenuto che quella (inconsistente) parte della "motivazione" del lodo non fosse sindacabile dalla Corte d'Appello.

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Ad ogni buon conto, l’appellante ribadiva che, per quanto atteneva ai vizi di motivazione, non vi era alcuna differenza tra il lodo pronunciato secondo diritto e il lodo di equità, per entrambi essendo necessario che vi fosse una motivazione che permettesse di cogliere la “ratio decidendi”.

In relazione alla complessa doglianza di Fininvest, come appena riferita, CIR nella comparsa di costituzione svolgeva precauzionalmente appello incidentale condizionato sul tema della validità dei patti parasociali, ritenuta “opinabile” dal Tribunale.

A fronte della complessità dei motivi esposti da Fininvest, appare logicamente opportuno invertirne l’ordine e procedere in primo luogo all’analisi dell’ultima parte della seconda doglianza, laddove Fininvest riteneva, al fine di dimostrare l’insussistenza di un nesso causale e quindi di sconfessare gli argomenti a fondamento della sua responsabilità, che la sentenza della Corte di Appello di Roma non fosse conseguenza della corruzione (nda: in quanto Metta non era corrotto e, in ogni caso, gli altri due componenti del collegio erano giunti a quelle medesime conclusioni).

Questa Corte non può che ribadire quanto sopra detto in ordine alla corruzione di Metta. Resta, invece, da verificare la valenza causale di tale fatto, tenuto conto della collegialità della decisione.

In sostanza, come si vedrà, ritiene questa Corte che una sentenza “normale”, non condizionata dalla presenza di un componente corrotto che aveva alterato tutto l’iter decisionale, certamente non sarebbe giunta alle conclusioni alle quali pervenne la Corte d’Appello di Roma; ciò che stabilisce il nesso fra corruzione e contenuto della pronuncia.

Sul tema, non si può, anzitutto, prescindere dal porre nuovamente in evidenza il principio enucleato in Cass. Pen. n. 35525 del 16.05.2007 che così decideva: "La presenza di un componente dell'organo giurisdizionale privo del requisito di imparzialità, perché partecipe di un accordo corruttivo che lo delegittima in radice dalla funzione, infirma la validità dell'intero iter decisionale, per sua natura dialettico e sinergico. In sostanza in quel collegio non sedeva un giudice, quanto

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piuttosto una parte, in violazione non di un generico precetto di legge ma della stessa Grundorm della giurisdizione, che costituisce il fondamento etico - giuridico del suo esercizio, consentendo alla collettività di accettare perfino l'eventuale erroneità o ingiustizia sostanziale delle sentenze emesse. In tesi generale, tale è l'effetto inquinante del vizio di costituzione del giudice - dovendosi assimilare, sotto questo profilo, l'ipotesi del giudice corrotto (patologia, fortunatamente rarissima) a quella del non giudice per vizi di nomina - che il difetto di legittimazione invalida, per giurisprudenza costante, l'atto giudiziario emanato...In ogni caso spetterà al giudice civile… di valutare se la decisione sia comunque conforme a giustizia, nel merito. Sotto il profilo penale che qui rileva, si deve escludere che sia da ritenere irrilevante la corruzione di un membro del collegio, sul presupposto che comunque la maggioranza residua sia immune da qualsiasi condizionamento nella formazione della decisione...".

In questa sede civile si può dunque fin d’ora affermare che la sentenza della Corte d’Appello di Roma è “tamquam non esset”: già per la sola presenza nel collegio del giudice corrotto, a prescindere dal merito della decisione e dal convincimento degli altri componenti del collegio.

Questo principio, come enucleato dalla sentenza appena citata, è di per se stesso sufficiente a smentire l’essenza della censura di Fininvest, nella parte in cui svolgeva una sorta di “prova di resistenza”, affermando che, comunque, gli altri componenti del collegio erano giunti alle stesse conclusioni del corrotto Metta.

Ma quand’anche, invece, si ritenesse necessario, in tema di nesso di causalità, valutare in concreto l’incidenza dell’intervento di Metta sul tenore finale della decisione della Corte, non si potrebbe prescindere dalle dichiarazioni rese dagli altri due componenti del collegio in sede penale, oltretutto, in qualche modo, obbligate ed evidentemente elusive, stante il rischio di affermare circostanze contra se.

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Infatti, il presidente Valente, come già ricordato, sentito in sede penale non già come testimone ma come imputato di reato connesso, con le garanzie dell’art. 210 cpp e senza l’obbligo di dire la verità, all’udienza del 24.3.2005 (doc. 77 Fininvest, pag 28), in relazione alle vicende del lodo Mondadori dichiarava testualmente: “io mi pigliai…il compito di andare a verificare gli articoli di dottrina che erano stati pubblicati alcuni proprio dai difensori della CIR, nello stesso contesto di tempo, sulla validità dei patti di sindacato azionario. Li lessi attentamente ma non mi convinsero perché, come è stato detto su Giurisprudenza Italiana, il lodo Mondadori aveva seguito un indirizzo che era contrastante con quello della Corte di Cassazione (nda: evidentemente il dott. Valente si riferiva ai precedenti giurisprudenziali relativi alla metà degli anni ’60 indicati poi da Metta nella sentenza). E io, leggendo questi articoli, che naturalmente provenivano da persone di eccezionale competenza, non mi convinsero gli argomenti di questi qua, di modo che io mi feci la convinzione che l’orientamento della Corte di Cassazione doveva essere confermato…”.

Il teste, dunque, si limitava a proclamare un approfondito studio sulla questione generale e teorica della validità dei patti di sindacato.

La posizione di Paolini appare poi alquanto defilata e non particolarmente partecipativa. Infatti, lo stesso, avanti il Tribunale Penale di Milano, all’udienza del 25.2.2002 (doc Fininvest n. 57 pag. LG/79), alla domanda se avesse letto gli atti di causa, rispondeva “…mi fecero leggere, dopo che la causa fu presa a sentenza, mi fecero leggere quelli che si chiamano gli atti regolamentari, cioè citazioni, comparse e cose del genere, che sono messi a disposizione del terzo componente del collegio…”; più avanti (pag. LG/81) dichiarava, rispondendo alla domanda di che cosa ricordasse della camera di consiglio, che: “Vittorio Metta espose la sua tesi circa l’invalidità del lodo…tutto considerato, il collegio si convinse e pronunciò sul lodo come pronunciò…”.

Tale dichiarazione di Paolini con le indicate sfumature (“Metta espose la sua tesi… tutto considerato, il collegio si convinse…”), nonchè lo studio del quale si era fatto

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protagonista il Presidente Valente sui patti parasociali, questione interessante, ma non centrale per la decisione della Corte, evidenziano la dinamica decisionale di un collegio che vedeva la presenza decisiva e fuorviante del giudice corrotto Vittorio Metta.

Dopo aver notato che le dichiarazioni sopra sintetizzate, rese nelle condizioni soggettive richiamate, sono sufficientemente generiche da rendere arduo il problema di valutare la loro genuinità, può dirsi che l’informazione che con maggiore evidenza e concretezza se ne ricava concerne l’“appiattimento” del presidente Valente e del consigliere Paolini sulla esposizione del relatore corrotto, alla quale i componenti del collegio, chi in un modo e chi nell’altro, anche tenuto conto del loro ruolo e dei reciproci rapporti, si rimisero (“…tutto considerato, il collegio si convinse…).

Avendo presente la già citata Cass. Pen. n. 35525 del 16.5.2007, si deve, peraltro, ulteriormente riconoscere che le rese dichiarazioni rilevano anche alla stregua dei più severi criteri posti da un noto precedente della Cassazione penale, per ritenere sussistente in concreto il vizio dell’iter formativo della volontà collegiale. Infatti, le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione hanno affermato nella sentenza n. 22327 del 30.10.2002, ric. Carnevale, che: "…mentre nei giudizi monocratici è necessariamente inevitabile riferire la deliberazione esclusivamente al giudizio dell’unico magistrato deliberante, in quelli collegiali, invece, la decisione è un atto unitario, alla formazione del quale concorrono i singoli componenti del collegio, in base allo stesso titolo e agli stessi doveri: sia essa sentenza, ordinanza o decreto, non rappresenta la somma di distinte volontà e convincimenti, ma la loro sintesi – operata secondo la regola maggioritaria - la quale rende la decisione impersonale e perciò imputabile al collegio nel suo insieme. Tanto comporta che allorché, in punto di contestazione accusatoria, si sostenga che una determinata decisione collegiale, anziché il prodotto di una autonoma scelta collettiva, imputabile all'organo collegiale nel suo complesso, rappresenti invece il risultato, raggiunto attraverso l'alterazione del regolare procedimento formativo della volontà collegiale,

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addebitabile ad un singolo soggetto, occorre fornire prova rigorosa di una condotta, da parte di quest'ultimo, se non di vera e propria coartazione e prevaricazione, almeno di concreto condizionamento esercitato sulla volontà dei componenti del collegio o di qualcuno di essi, che si siano perciò orientati ad operare proprio in funzione di quell’illecito intervento..." .

Ribadisce allora questa Corte che nel caso di specie le modalità ed i limiti della discussione interna al collegio inducono a ritenere integrata anche la prova così come richiesta dalla appena citata sentenza della Cassazione penale a Sezioni Unite: si ripete, infatti, che le sfuggenti dichiarazioni del consigliere Paolini e lo studio solo teorico e monotematico da parte del presidente Valente evidenziano la dinamica decisionale di un collegio che ha visto la presenza decisiva del giudice relatore corrotto, il quale ha in concreto condizionato le determinazioni degli altri due componenti.

La natura solo formalmente collegiale della sentenza della Corte d’Appello di Roma non interrompe quindi – trattandosi nella specie di collegialità abnorme e sostanzialmente fittizia – il nesso di causalità materiale tra la corruzione di Metta ed il contenuto della decisione.

LA SENTENZA SULL’IMPUGNAZIONE DEL LODO DOVUTA SECONDO DIRITTO

Ma la sentenza della Corte di Roma è ingiusta anche nel merito, poiché una sentenza giusta avrebbe inevitabilmente respinto l’impugnazione e confermato il lodo.

Per verificare questa conclusione – nella logica della citata Cass. Pen. (“in ogni caso spetterà al giudice civile… di valutare se la decisione sia comunque conforme a giustizia, nel merito…") - non si può che partire dall’analisi specifica della situazione concreta di fronte alla quale si sarebbe trovato un relatore non corrotto

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(ovvero “Metta non corrotto”, nel lessico di CIR), affiancato da componenti del collegio sinergicamente partecipi all’iter decisionale di una sentenza “normale”.

In altri termini, rimossa sul piano logico-giuridico la sentenza Metta, occorre, immedesimandosi nella situazione giuridico processuale concretamente azionata dalle parti, chiedersi non tanto o non solo quali fossero gli eventuali errori della motivazione della sentenza della Corte d’Appello di Roma, quanto, propriamente, quale sarebbe stata la sentenza che giudici terzi, mediamente preparati della Corte di Roma, preposti “ratione materiae” alla decisione in quel momento storico, normativo e giurisprudenziale, avrebbero emesso nel caso di specie secondo il canone di "normalità", cioè escludendo le ipotesi astratte e quelle eccezionali (quali gli errori giudiziari, la distrazione o la particolare ignoranza dei giudicanti…), fatti che in rerum natura possono anche darsi, ma che per l'appunto (fortunatamente) non sono "normali". E’ evidente, peraltro, che una ricostruzione della sentenza “giusta” porti per converso a riscontrare gli errori e le forzature della sentenza “Metta”.

La prospettiva, allora, seguendo il “suggerimento” di Cass. Pen. 35525/07, è quella di ricostruire che cosa avrebbe deciso un "collegio normale" dopo un percorso decisionale anch’esso "normale" ed “impregiudicato” nelle opinioni di tutti i suoi componenti (cioè di un collegio non solo senza “Metta corrotto”, ma anche che operasse con gli altri due componenti non condizionati dalle opinioni di un relatore corrotto).

Il collegio, occorre premettere, si sarebbe trovato di fronte all'impugnazione di un lodo pacificamente riconosciuto anche dagli impugnanti come "rituale di equità" e, dunque, in linea di principio, impugnabile non su questioni di fatto, né per violazione delle norme di diritto sostanziale o in generale per “errores in iudicando”, ma solo per uno dei vizi in procedendo di cui al primo comma dell'art. 829 CPC, ovvero per violazione delle norme fondamentali e cogenti di ordine pubblico, essendo anche gli arbitri di equità tenuti in ogni caso ad osservare queste norme dettate in vista di interessi generali e come tali non derogabili.

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Basti richiamare sul punto, tra le tante dell’epoca, Cass., 8 novembre 1984, n. 5637 (non a caso richiamata da entrambe le parti principali del giudizio d’impugnazione), secondo la quale “quando gli arbitri sono stati autorizzati a pronunciare secondo equità, essi sono svincolati, nella formazione del loro giudizio ai fini della decisione della controversia, dalla rigorosa osservanza delle regole del diritto oggettivo, avendo facoltà di far ricorso a criteri, principi e valutazioni di prudenza e di oppor-tunità che risultino i più adatti e i più equi, secondo la loro coscienza, per la risoluzione del caso concreto, e ciò necessariamente importa, ai sensi dell'art. 829, 2° comma, ultima parte, CPC (nel testo vigente prima della riforma introdotta con legge 5.1.1994 n.25), che sia preclusa l'impugnazione per nullità del lodo di equità per violazione delle norme di diritto sostanziale, o in generale per errores in iudicando; il lodo, tuttavia, resta pur sempre impugnabile per i vizi in procedendo indicati nel 1° comma dell'art. 829 CPC, ed inoltre la pronuncia secondo equità non implica assoluta libertà ed arbitrio: anche gli arbitri di equità sono tenuti in ogni caso ad osservare le norme fondamentali e cogenti di ordine pubblico, dettate in vista di interessi generali, e come tali non derogabili dalla volontà delle parti né suscettibili di formare oggetto di compromesso” (questo orientamento era già all’epoca stabilizzato ed è rimasto, come noto, costante anche nella giurisprudenza successiva: Cass. SU 10827/93, Cass. 4330/94, Cass. 8231/00, Cass. 10215/2010).

Quanto al tema della motivazione del lodo, il principio (anche) all’epoca vigente può essere in prima battuta riassunto con Cass. SS. UU. 21-3-87, n. 2815: “la nullità del lodo arbitrale per carenza di motivazione, ai sensi dell'art. 829 n. 5) CPC, in relazione al precedente art. 823 n. 3 CPC, è ravvisabile solo in presenza di una radicale mancanza delle ragioni della decisione, che non consenta di ricostruire e quindi di controllare il pensiero degli arbitri”. In buona sostanza, per quel che qui rileva, il lodo rituale di equità, dunque, era (ed è) impugnabile solamente nel caso in cui gli arbitri non abbiano osservato le norme fondamentali e cogenti di ordine pubblico e quando abbiano reso una motivazione della quale non si intenda la “ratio decidendi”.

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Quanto al concetto di “questione di ordine pubblico”, si può in generale ricordare che, ora come allora, è questione di tal genere quella che riguardi principi di diritto che riflettono i valori fondamentali dell’ordinamento che connotano l’organizzazione politica ed economica della società in una determinata epoca storica; si tratta di norme che, accanto a quelle imperative, operano quindi come ulteriore limite negativo dell’agire negoziale.

Quanto, poi, alla validità, all’epoca, dei patti parasociali, si può per ora premettere che già Cass. 2422/58 prevedeva che “in tema di contratti cosiddetti parasociali, la nullità o meno dei patti che vincolano la libertà di voto deve essere risolta contemperando le opposte esigenze della pratica e della buona fede, in base alle singole statuizioni, avendo presente che la limitazione di ordine pubblico sul vincolo del voto può riguardare soltanto quei casi nei quali può sussistere un confitto di interessi fra i soci e la società in quanto solo a protezione di questa si vuole evitare che il voto vincolato prima della riunione sociale possa formare artificialmente una maggioranza.”

Sulla scorta di queste premesse una Corte “normale” avrebbe dunque affrontato la concreta impugnazione sottoposta al suo esame.

Ora, nel caso di specie, l'atto di citazione dei Formenton allegava tre articolati motivi di nullità del lodo: da essi e dalla loro formulazione occorre muovere, dal momento che l'impugnazione di una sentenza arbitrale ha (aveva) pacificamente "struttura chiusa" ai soli motivi allegati. Infatti, “nel procedimento di impugnazione del lodo arbitrale ai sensi dell’art. 829 CPC non è consentito al giudice prendere in considerazione motivi di nullità diversi da quelli specificamente dedotti dalle parti” (Cass. 21.1.1986 n. 398).

1) Il primo motivo consisteva nella nullità del lodo per (testualmente) “violazione dell'art. 819 CPC avendo il Collegio arbitrale giudicato di una questione pregiudiziale che a norma dell’art. 806 non avrebbe potuto costituire oggetto di accordo compromissorio”.

2) Il secondo stava nella nullità “per violazione di norme di ordine pubblico in materia di limiti ai sindacati azionari di voto. Nullità per violazione dell’art. 823, n. 3, in relazione

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all’art. 829, n. 5”. A tale proposito, l'impugnazione richiamava appunto Cass. 5637/84 cit. e sosteneva che "le norme di ordine pubblico che gli arbitri hanno violato concernono le disposizioni e i principi giuridici che rendono indisponibile l'assetto organizzativo e il funzionamento degli organi delle società di capitali e che assumono il principio maggioritario..." (pagg. 30 ss.); tali norme di ordine pubblico sancivano la nullità dei "patti che svuotano permanentemente l'assemblea di funzione o di contenuto ovvero, sopprimendo la libertà del voto in assemblea, consentono la formazione di maggioranze fittizie o, infine, quando il vincolo imposto al voto risulti in contrasto con l'interesse sociale"; le norme di ordine pubblico sancivano la nullità dei "sindacati a maggioranza dotati di efficacia cd. reale" (pag. 34).

In ordine a queste norme fondamentali il lodo aveva, in tesi, "contrastato l'orientamento del S.C. "con "argomenti inconsistenti" che gli impugnanti commentavano criticamente. Gli stessi consideravano (pag. 37) che il lodo aveva ritenuto la validità dei sindacati di voto ad efficacia cd. reale ed aveva ammesso che le determinazioni dell'assemblea si potessero ridurre a mero simulacro. Di seguito (pagg. 38-39), gli stessi impugnanti tuttavia ricordavano che anche la Cassazione affermava la validità dei sindacati di voto quando ricorressero due requisiti: la temporaneità del patto e la limitatezza del suo oggetto.

Successivamente i Formenton consideravano che gli arbitri avevano in fatto accertato (errando) la ricorrenza di questi due requisiti e che gli stessi - sempre sbagliando - avevano ritenuto che quel patto sottoposto al loro giudizio "non comportasse svuotamento delle funzioni dell'organo assembleare"; inoltre, gli arbitri avevano errato quando avevano "negato l'efficacia cd. reale del patto".

Così facendo gli arbitri avevano commesso un primo "errore giuridico", consistente, pare di capire, nell'affermare la prevalenza dell'autonomia privata sulla cogenza dei principi di ordine pubblico (pagg. 40-41): evidenzia questa Corte già da ora, comunque, che questo errore "giuridico" è inesistente, perché di quell'affermazione di "prevalenza" non c'è traccia nella motivazione del lodo.

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A pag. 42 la citazione Formenton aggiungeva che gli arbitri avevano omesso "quella concreta verifica suggerita dal criterio del 'caso per caso' al quale hanno dichiarato di volersi attenere".

Gli impugnanti "interpretavano", poi, il patto Formenton-CIR in modo diverso dagli arbitri (sottolineavano il dato della prevista segretezza, ritenevano che la durata del patto fosse di sette e non di cinque anni –argomento ripreso ancora oggi in comparsa conclusionale - , che l'oggetto del patto fosse esteso a deliberazioni assembleari più importanti di quanto non avessero apprezzato gli arbitri): in definitiva (pag. 45) l'impugnazione contestava l'interpretazione del patto-contratto e la ricostruzione dei fatti (intesi come vicenda storica sottostante il contratto di cui occorreva tener conto per interpretarlo) offerte dagli arbitri. Circa appunto il senso e la funzione complessivi del patto ritenuti dagli arbitri, a pagg. 47-48 veniva denunciata una contraddizione tra due passi della motivazione, cioè - si noti - una contraddizione "interna alla motivazione". A pag. 49 veniva stigmatizzata l'errata interpretazione della clausola del patto di cui all'art. 2, lett. b): in tesi la lettura offerta dagli arbitri (che la clausola si riferisse agli amministratori delle sole società controllate) non era motivata.

A pagg. 52 ss. la citazione Formenton riconosceva anche che, secondo il lodo, il sindacato di voto in esame non era né a maggioranza, né ad efficacia reale ("tipo di sindacato che il collegio ha mostrato nonostante tutto di non voler ritenere valido"), ma contestava ancora l'interpretazione del patto di sindacato fatta sul punto dagli arbitri.

A pag. 53 veniva denunciato come vizio di nullità del lodo il mancato esame della circostanza per cui i pacchetti azionari in capo ai Formenton ed a Persia fossero distinti (si precisa da subito però che si tratterebbe comunque di un difetto di "omessa argomentazione" - gli arbitri non avrebbero risposto a questo argomento addotto dai convenuti nelle loro memorie - non certo di "omessa pronuncia").

A pagg. 55 ss. veniva poi evidenziato un ulteriore profilo di nullità; il patto di sindacato ledeva le competenze degli organi di gestione, la cui "libertà" era garantita da norme inderogabili: l'impugnazione dava atto, però, che il lodo negava che fosse violata tale libertà (non affermava, cioè, che fosse valido un patto che la ledesse), e quindi ne faceva ancora

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una volta un problema di interpretazione delle clausole del patto di sindacato. Analogamente si considerava (nel paragrafo 7), per la clausola che rimetteva alcune deliberazioni ad un comitato di esperti, che essa fosse contraria alla norma fondamentale che vietava l'usurpazione dei poteri del CdA.

Anche il par. 8 dell'atto di citazione concerneva dichiaratamente un profilo di "qualificazione del contratto" o, meglio, di interpretazione del suo senso complessivo (gli arbitri avrebbero trascurato la circostanza di fatto per cui CIR apportava al sindacato solo il 40% delle azioni).

Il par. 9 denunciava il mancato ricorso all'equità (se era nullo il precedente sindacato AMEF, per equità doveva dirsi nullo anche il patto Formenton-CIR).

Il par. 10 - pur inserito all'interno del motivo 2 - denunciava un diverso profilo di nullità del lodo (quindi, a differenza di quanto sosteneva CIR, il motivo di censura c'era, anche se non "catalogato" ovvero qualificato con chiarezza): non si trattava della violazione di norme fondamentali di ordine pubblico, ma della sua "contraddittoria" ed "oscura" motivazione circa la scindibilità del patto, che per un verso (errore di diritto, 829, 2° comma) aveva violato la regola di cui all'art. 1419 CC che impediva di indagare sulla scindibilità in presenza di una contraria volontà delle parti e, per altro verso, era così contraddittoria da "rendere oscuri gli stessi fondamenti dell'argomentare"; gli specifici punti contraddittori della motivazione (che avrebbero dovuto renderla addirittura solo apparente) erano individuati dai Formenton rispettivamente alle pagg. 64 e 82 del lodo.

3) II terzo motivo di nullità del lodo denunciava la “violazione dell’art. 829, n. 4 e 5 c.p.c. anche in relazione all’art. 823, n. 3, c.p.c.” e riguardava la statuizione di accertamento dell'obbligo dei Formenton di trasferire le azioni - che, in tesi, non poteva essere pronunciata avendo il lodo negato la richiesta statuizione ex art. 2932 c.c. (errore di diritto, forse inteso come violazione dell’art. 112 CPC) - e l'errato rigetto della domanda riconvenzionale di risoluzione dei Formenton a causa di un'asserita "considerazione atomistica dell'inadempimento della CIR". Infine (pag. 75), veniva allegata la nullità del lodo ex art. 829, n. 4, per aver omesso di giudicare secondo equità.

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Intervenivano poi anche soggetti terzi, fra i quali Fininvest, che facevano valere due distinte posizioni soggettive: il proprio diritto convenzionale a che i titoli AMEF “vincolati” all’accordo 6.1.1986 non venissero “dagli attuali titolari alienati sotto qualsiasi forma o per qualsiasi titolo…”, nonché il diritto di prelazione in ordine ai titoli azionari AMEF. In virtù di tale assunta lesione svolgevano azione risarcitoria “per il solo fatto che le controparti avessero posto in essere un contratto che aveva vanificato il patto AMEF svuotandolo di contenuto e di significato…” (note di replica pag. 38 – doc. Fininvest 92). Affermavano la ammissibilità dell’intervento, citando a loro favore, a fronte della copiosa giurisprudenza contraria, unicamente Cass. 28.9. 1984 n.4820 e Cass. 24.11.1976 n. 4431. Ponevano in evidenza l’insufficienza di autonome azioni per tutelare la loro posizione. Chiedevano, nella sostanza, la caducazione del lodo stante la sua inopponibilità a loro stessi.

A fronte di siffatta impugnazione del lodo, CIR aveva replicato sottolineando i limiti del giudizio della Corte su un lodo di equità (comparsa di cost., pagg. 28 ss.): ne conseguiva che era precluso il sindacato sugli errori di diritto, salvo che per l'osservanza delle norme fondamentali; erano precluse le censure che investissero l'accertamento e la valutazione della concreta volontà contrattuale, che evocassero pretesi errori di diritto sulle norme "interpretative", che riguardassero l'accertamento o la valutazione degli inadempimenti contestati tra le parti.

Secondo CIR comunque era insindacabile quel giudizio di scindibilità formulato dagli arbitri (con comprensibile e coerente motivazione), giudizio sufficiente a reggere le loro statuizioni: l'unico errore "di diritto", non di fatto, evocato sul punto - che tra l'altro non sussisteva – riguardava, in tesi, l'art. 1419 CC e non una noma fondamentale di ordine pubblico; in ogni caso, esclusa la "assenza" di motivazione, la contraddizione segnalata - che comunque non sussisteva - era solo interna alla motivazione.

CIR proseguiva poi contestando congiuntamente le prime due censure avversarie: ricordava l'autonomia della clausola compromissoria, ribadiva la competenza degli arbitri (a pagg. 40-41 era ben chiarita la diversità di piani tra quello della nullità della clausola compromissoria, quello della questione di competenza degli arbitri e quello della eventuale nullità del lodo per aver considerato valido un contratto "illecito"). Solo nella valutazione

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della liceità/illiceità del contratto, evidenziava CIR, gli arbitri di equità dovevano pronunciare "secondo diritto". Seguiva un esame in dettaglio di tutte le pattuizioni parasociali di cui agli artt. 2 e 5, per ribadire, in sostanza, che ciascuna di esse era lecita in quanto non contrastante con le norme fondamentali.

CIR contestava anche il terzo motivo avversario, in nome della insindacabilità delle valutazioni del lodo di equità in tema di adempimenti/inadempimenti e loro importanza. Inammissibile e comunque manifestamente infondata era la censura del preteso errore di diritto (violazione dell’art 112 CPC) per cui, secondo i Formenton, la domanda di accertamento del loro obbligo non poteva essere neppure esaminata dopo aver respinto la domanda ex 2932 CC.

Sul tema dei limiti del giudizio d'impugnazione del lodo, CIR svolgeva ancora rilievi nella conclusionale (pag. 77: non erano ammissibili censure relative a pretese violazioni da parte degli arbitri delle norme sull'interpretazione dei contratti) e nella replica (pagg. 18 segg.: anche gli arbitri di equità erano tenuti al rispetto delle norme imperative; il controllo del giudice dell'impugnazione sull'osservanza delle norme imperative da parte degli arbitri non si estendeva però alla qualificazione della fattispecie - se non "nei limiti in cui era investita dalla censura di violazione di principi di ordine pubblico" -, non investiva anche il giudizio di fatto, nella specie non investiva comunque il giudizio di scindibilità).

CIR insisteva, poi, in più passi sulla compiutezza, logicità, comprensibilità delle motivazioni del lodo. Sottolineava che l'atto d'intervento di Fininvest ed altri era inammissibile ed infondato.

Orbene, a fronte di tali argomenti, una Corte d'Appello scevra da anomale patologie non avrebbe potuto che decidere, alla luce della normativa all’epoca vigente e dei riferimenti giurisprudenziali disponibili, nei termini che seguono.

Il primo motivo (nullità del lodo - violazione dell'art. 819 CPC nella formulazione allora vigente- per aver giudicato di una questione pregiudiziale che doveva essere rimessa al giudice ordinario) era radicalmente infondato. Infatti, pur ammesso che la violazione dell'art. 819 CPC (in tema di “questioni incidentali” esorbitanti dalla competenza arbitrale) costituisse ammissibile motivo di nullità del lodo (la dottrina dell'epoca

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peraltro ne dubitava, giacché l'inosservanza dell'art. 819 CPC non era richiamata nell'elenco dei casi di nullità dell'art. 829 CPC), la Corte si sarebbe chiesta quale fosse la "questione che a norma dell'art 806 CPC ( “compromesso”) non può (poteva) costituire oggetto di giudizio arbitrale": infatti, l'impugnazione dei Formenton sul punto non era chiarissima. Questione di tal genere non era certo quella relativa alla competenza degli arbitri, né quelle concernenti la validità della clausola compromissoria, né quelle relative all'applicazione delle norme fondamentali che, anzi, gli arbitri, anche di equità, dovevano appunto osservare: era infatti pacifico che questi potessero esaminare e decidere eccezioni o questioni attinenti alla loro competenza e/o alla validità della clausola compromissoria, senza necessariamente doverle rimettere pregiudizialmente al G. O. Infatti, come sottolineava la giurisprudenza proprio della Corte di Appello di Roma (26.2.1979 - in archivio giuridico arbitrato 1979 II 396) “l'art. 819 c.p.c., nell'escludere che gli arbitri possano giudicare anche solo incidentalmente su una questione che non può formare oggetto di giudizio arbitrale, si riferisce chiaramente alle questioni incidentali o pregiudiziali, dalla cui soluzione dipende il merito della controversia, e non alle questioni di rilevanza esclusivamente processuale, la cui valutazione è riservata agli arbitri al pari di ogni altro giudice, che deve premettere alla decisione di merito la valutazione delle eccezioni sulla regolare prosecuzione del giudizio stesso”.

Il punto, del resto, appariva scontato, tenuto anche conto del principio dell’autonomia della clausola compromissoria: vale appena aggiungere che la questione è stata affrontata anche dalla stessa sentenza “corrotta” della Corte d’Appello di Roma e che la censura è stata disattesa perfino da questa.

Ad una Corte “normale” anche il secondo articolato motivo d’impugnazione sarebbe risultato palesemente infondato: gli arbitri, secondo la prospettazione dei Formenton, avrebbero infatti violato norme fondamentali di ordine pubblico - anche a voler ammettere che tutte quelle evocate dai Formenton fossero veramente tali, ciò che non era certo neppure per l'epoca, come si è già accennato - se avessero affermato che, ad esempio, erano validi i sindacati di voto ad efficacia reale, o quelli che svuotavano

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l'assemblea, o quelli che negavano il principio maggioritario etc.: il lodo aveva invece espressamente riconosciuto l'esistenza, la portata, l'inderogabilità di tutte le norme fondamentali evocate dai Formenton in tema di struttura e funzionamento delle società di capitali (con un rigore che alla sensibilità odierna appare fin eccessivo); aveva solo negato, il che è cosa ben diversa, che nel caso di specie quel concreto patto ne violasse anche solo una.

Esaminando infatti il provvedimento impugnato, si rilevava che, dopo aver compiutamente e fedelmente riportato i rilievi mossi dai convenuti Formenton in ordine agli artt. 2 e 5 del patto, il lodo (par. III) esponeva e commentava i "principi dottrinali e giurisprudenziali in tema di sindacati azionari", dando conto dell'evoluzione più "liberale" della dottrina, cui dichiarava di aderire, dottrina che aveva precisato ed attenuato il rigore dei principi dell'indisponibilità del diritto di voto e dell'inderogabilità del metodo assembleare: si trattava di un brillante ed anche lungimirante panorama sul tema, che tuttavia - si badi - non sorreggeva ancora nessuna concreta statuizione. Difatti, all'inizio del par. IV il lodo precisava che "quanto testé detto non è certo sufficiente per ritenere legittimo qualsiasi sindacato di voto...la validità o meno di quei patti deve essere verificata in relazione alle specifiche fattispecie...occorre esaminare caso per caso il contenuto dei singoli accordi per verificare se, e in quali limiti, essi si pongano in conflitto con norme inderogabili dell'istituto azionario o in contrasto con l'interesse sociale".

Assunto ineccepibile – avrebbe approvato una Corte non corrotta - conforme al pacifico insegnamento della S.C. ed evocato anche, come si è visto, dagli stessi Formenton in sede di impugnazione.

Altrettanto ineccepibile era l'altro criterio dichiarato dal lodo come premessa all'esame del caso specifico, e cioè che bisognava poi comunque valutare "se l'eventuale invalidità del patto di sindacato o di taluna delle sue clausole si comunichi all'intera convenzione o se invece questa rimanga salva nella parte non coinvolta nell'invalidità".

In proposito, il richiamo al principio di conservazione appariva più che giustificato: una clausola in ipotesi accessoria e secondaria del patto, che violasse una norma fondamentale di ordine pubblico, non comportava la caducazione “tout court” di tutto il patto. I Formenton (in replica) avevano sostenuto che il principio di conservazione del contratto non si sarebbe

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applicato in questo caso di "illiceità" e non di nullità, traendone argomento dall'art 1424 CC: in questo caso, però, non si trattava di "convertire" alcunché, ma semplicemente, in tesi, di dichiarare nulle alcune clausole, ablare quelle illecite e conservare le altre.

Il lodo forniva quindi una "lettura complessiva" del patto, individuandone lo "scopo principale" secondo gli interessi e le intenzioni delle parti, per dedurne subito che "se anche per mera ipotesi si dovessero ritenere nulle alcune delle pattuizioni previste nell'art. 2 della convenzione (quelle relative al periodo transitorio) nessuna influenza ciò avrebbe sulle rimanenti pattuizioni della convenzione", dal momento che le parti avrebbero egualmente concluso la convenzione pur senza quella parte in ipotesi nulla.

A ciò non si opponeva la dichiarata inscindibilità (art. 9), che propriamente (secondo lettera e collocazione) si riferiva unicamente alla connessione tra le clausole da art. 3 ad art. 6 (quelle dell'art. 5 erano considerate autonomamente in quanto disciplinavano i rapporti “a regime” dopo la permuta, successivi quindi alla fase transitoria) che riguardavano la regolazione dei rapporti per il periodo successivo alla scadenza del patto di sindacato AMEF e, dall'altro lato, la pattuizione di permuta.

Una Corte “normale” avrebbe dunque preso atto di tali affermazioni del lodo, per un verso tutte ampiamente, logicamente, comprensibilmente motivate, nella legittima, anzi dovuta, interpretazione del contratto sottoposto agli arbitri e, per altro verso, tutte espressamente ipotetiche, giacché ancora di nessuna clausola del contratto, neppure secondaria o accessoria, era stata rilevata la nullità.

Solo una volta poste queste premesse, il lodo iniziava (pp. 66 ss.) l'esame delle singole clausole di cui all'art. 5 ed all'art. 2: tutte queste clausole, come indicate lettera dopo lettera, nessuna esclusa, erano considerate valide in quanto recavano previsioni contenute entro limiti di tempo e di oggetto “convenienti”; infatti, quelle contenute nell'art. 2 della convenzione erano state previste dalle parti in vista della scadenza della convenzione AMEF del 6.1.1986 e quindi avevano una durata limitata (fino al 31.12.1990) ed erano destinate a dissolversi al momento in cui (31.12.1990) il patto di sindacato AMEF sarebbe cessato e avrebbe avuto esecuzione la promessa di permuta di cui all'art. 3 della convenzione. Anche le clausole di cui all'art. 5 avevano una durata

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massima limitata e, comunque, dal patto i Formenton potevano liberarsi con un preavviso di sei mesi (art. 5, comma 8), mentre CIR poteva sciogliersi dal patto cedendo in tutto o in parte la sua partecipazione azionaria. Anche l’oggetto, e cioè le delibere per cui vigeva il sindacato, era circoscritto: infatti le delibere, di cui alle lettere c), d), e) f) e g) dell'elenco di cui all'art 2, richiamate dall'art.5, erano estranee alla competenza dell'assemblea ordinaria ed erano invece relative a delibere di competenza dell'assemblea straordinaria di rara verificazione; quelle di cui alle lettere a) e b) concernevano materie estranee “all’inderogabile ordine di competenze e funzioni degli organi sociali” (p. 77).

Rinviando alla lettura integrale del lodo per gli ulteriori, specifici argomenti di merito partitamente addotti a sostegno delle validità delle singole clausole, la Corte chiamata a giudicare dell’impugnazione avrebbe poi messo in evidenza che il Collegio arbitrale aveva, inoltre, accertato il carattere meramente obbligatorio delle pattuizioni che la convenzione conteneva, nel senso che essa obbligava solo le due parti contraenti fra loro ed in nessun modo influiva sulla struttura ed il funzionamento delle società; era vero che le parti si obbligavano a consegnare le azioni sindacate ad una società fiduciaria, la Plurifid, ma questa avrebbe potuto esprimere il voto in assemblea solo a seguito di "indicazioni congiunte" dei paciscenti, nessuno dei quali veniva ad essere espropriato del suo diritto di voto e della influenza determinante di questo: infatti, in caso di difetto di indicazioni congiunte, e cioè della concorde espressione della decisione da parte dei due contraenti, la società fiduciaria avrebbe dovuto astenersi dal voto. Non ricorreva pertanto, secondo il Collegio arbitrale - che aveva svolto una valutazione di fatto – un’ipotesi di sindacato di voto ad efficacia c.d. reale.

Il lodo aveva poi osservato che tutta la "ratio" del patto stava nell'intento delle parti di attribuire garanzie alla famiglia Formenton nel quinquennio successivo alla esecuzione della permuta, allorché CIR avrebbe avuto oltre il 50,01 % delle azioni ordinarie AMEF e quindi il controllo tanto di quest'ultima come della Mondadori, mentre alla famiglia Formenton sarebbe rimasto circa il 10 % delle azioni ordinarie

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Mondadori: i patti non facevano altro che conferire alla minoranza facoltà e garanzie “maggiori” che qualsiasi statuto societario avrebbe ben potuto prevedere.

Pertanto il Collegio arbitrale ravvisava, dopo una loro analisi in fatto, la piena validità dei contestati patti di sindacato contenuti agli artt. 2 e 5 della convenzione 21.12.1988. Tali clausole, dunque, non erano nulle, perché in concreto non violavano nessuna norma fondamentale.

E va sottolineato che i "principi" (le norme fondamentali) che il lodo assumeva come parametri per misurare su di essi la validità delle clausole erano così dichiarati: "deve ritenersi ammesso e lecito il sindacato di voto che non porti allo svuotamento permanente del contenuto e della funzione dell'organo assembleare e che non comprometta sostanzialmente la libertà del voto...; la temporaneità (ed anche la previsione della "discrezionale libertà di recesso dei contraenti in qualunque momento") e la limitatezza dell'oggetto (del patto) sono elementi idonei a conciliare i principi dell'ordinamento societario con l'autonomia negoziale... ; (deve ritenersi ammesso e lecito il sindacato di voto che) non crei o non legittimi fittizie maggioranze assembleari... non abbia efficacia cd. reale, cioè non contempli un meccanismo che in via automatica trasferisca in assemblea, come volontà di tutti i soci sindacati, la decisione presa a maggioranza nel gruppo...; che rispetti l'assemblea come luogo nel quale la volontà dei soci si esprime, anche se ha potuto altrove formarsi...; sono valide le pattuizioni destinate ad accrescere il ruolo della minoranza, purché non ne risulti impedito il funzionamento della società nelle assemblee ordinarie..., (come anche quelle pattuizioni) che apprestano un regolamento di interessi non lesivo delle ragioni di terzi e non pregiudizievole per l'interesse sociale...; (devono altresì ritenersi ammessi e leciti i sindacati di voto) che non prevedano assunzioni di obblighi da parte degli amministratori nei confronti delle parti stipulanti..., non prevedano delega in bianco operata senza determinazione di durata..., non comportino la preventiva e generale rinuncia al diritto di voto..., non precostituiscano maggioranze apparenti o fittizie..., non costringa(no) nessuna parte ad un voto in assemblea contrario alla volontà manifestata nell'ambito del patto..., (non contemplino) un vincolo direttamente assunto dai soci nei confronti degli amministratori...di seguirne (cioè) le indicazioni nel deliberare in assemblea...".

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Una Corte non corrotta avrebbe dunque constatato che il lodo ricostruiva le norme fondamentali (che costituivano i parametri di riferimento per l’analisi in concreto) in modo rigoroso e severo, assolutamente conforme all'orientamento della S.C. di allora, a meno di sostenere, ma neppure i Formenton lo sostenevano, che ogni e qualsiasi sindacato di voto fosse ritenuto all'epoca illecito: da anni la giurisprudenza si era evoluta nel senso indicato nel lodo (cfr già Cass. 2422/58). E può essere significativo notare come la dottrina dell’epoca (prodotta dalla stessa Fininvest, doc. 26), nel commentare il lodo, in buona sostanza osservasse che la “montagna” della premessa riflessione teorica avesse partorito il classico “topolino”di un riconoscimento assai ristretto e conservativo circa la validità dei patti di sindacato.

E sta di fatto soprattutto che anche gli impugnanti - dopo aver apoditticamente affermato l'avvenuta violazione di norme fondamentali da parte degli arbitri ed in particolare che gli stessi avevano ritenuto la validità dei sindacati ad efficacia reale e lecito lo svuotamento dell'assemblea (ciò che era esattamente il contrario di quanto era testualmente scritto nel lodo) - condividevano le stesse definizioni, significati e portata di tutte le singole norme fondamentali come intese dagli arbitri e non affermavano che questi ne avessero trascurata alcuna. Sulla "ricognizione" delle norme fondamentali, in altri termini, non c'era doglianza. Nell'impugnazione i Formenton sostenevano piuttosto che nell'applicare quelle norme fondamentali al caso di specie gli arbitri avrebbero commesso degli errori di diritto (sostanziale).

Tuttavia, - anche ammettendo che tali errori fossero rilevanti in un lodo di equità quando esso abbia ad oggetto norme fondamentali -, una Corte non corrotta avrebbe rilevato che di tali errori "giuridici" non c'era neppure traccia: non era vero che gli arbitri avessero affermato la prevalenza dell'autonomia privata rispetto alla cogenza delle norme fondamentali; non era vero che gli arbitri non avessero esaminato in concreto, con il criterio del "caso per caso", il patto di sindacato sottoposto al loro esame, perché la motivazione del lodo non era altro che lo specifico esame di quel concreto patto; non era vero che gli arbitri, nell'interpretare quel patto, non avessero tenuto conto del contesto fattuale in cui si collocava; non era vero che non avessero preso in esame la lettera del contratto, né che

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avessero fatto una considerazione "atomistica" delle singole clausole, in quanto avevano invece espressamente interpretato tutte e ciascuna delle clausole alla luce del loro senso complessivo e delle ricostruite intenzioni delle parti.

La verità era che l'impugnazione non indicava neppure chiaramente quale norma giuridica in tema di interpretazione dei contratti (da 1362 a 1371 CC) il lodo avesse violato.

Una Corte “normale” avrebbe poi recisamente negato che nell'uno o nell'altro passaggio interpretativo del contratto il lodo mancasse di una motivazione o ve ne fosse una contraddittoria: senza tralasciare di ricordare il noto principio per cui non sono (e non erano) rilevanti le contraddizioni interne alla motivazione di un lodo, non sussisteva infatti – avrebbe osservato la Corte - la contraddizione denunciata a pagg. 47-48 della citazione, dove, non a caso, veniva citato il passo di pag. 70 del lodo circa la funzione principale del patto, ma non l'eventuale altro passo che sarebbe stato in contraddizione con lo stesso. Né vi era contraddizione tra l'affermazione che ai soci di minoranza Formenton si intendeva assicurare una "incidenza maggiore di quella corrispondente all'entità della partecipazione" e la successiva esatta individuazione della tipologia ed oggetto di quelle determinate delibere a tal fine sindacate. Non sussisteva neppure l'omessa o contraddittoria motivazione denunciata a pag. 49 della citazione: in tema di clausole concernenti la nomina e revoca degli amministratori, ampia e coerente era la motivazione portata dal lodo a sostegno della loro validità, laddove distingueva le diverse clausole rispettivamente concernenti la Mondadori e le altre "società", laddove precisava che il patto atteneva alla designazione e non già alla nomina, laddove, infine, chiariva che i futuri amministratori non assumevano vincoli e sottolineava che non vi era specifico rinvio sul punto dall'art. 5 all'art 2.

Una Corte non corrotta avrebbe insomma constatato che ogni singola asserzione degli arbitri era ancorata alla lettera del patto di sindacato di volta in volta richiamata: ogni asserzione appariva motivata e coerente.

Infine, non sussisteva quella che veniva indicata come la principale carenza o contraddittorietà della motivazione, in tema cioè di scindibilità del patto di sindacato.

Ma, prima ancora di constatare come tale vizio del lodo non sussistesse, una Corte "normale" avrebbe rilevato che questa censura attingeva un passaggio della motivazione del

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lodo non essenziale, denunciava, cioè, un vizio relativo ad un argomento introdotto dagli arbitri solo ad abundantiam. Infatti, al termine della puntuale e diffusa valutazione di tutto il contenuto del patto, il lodo concludeva in termini lapidari: "l'esame della disciplina voluta dalle parti per i loro rapporti durante il periodo successivo alla scadenza del patto di sindacato AMEF o, comunque, in vista della situazione che allora si sarebbe verificata" (quindi, dell'intera disciplina, in ogni sua parte) "conduce, in definitiva, a ritenere che, anche volendo ravvisare, all'interno di tale disciplina, l'esistenza di un patto di sindacato azionario, si tratterebbe tuttavia d'un patto di sindacato nel suo complesso valido ed efficace".

Nessuna clausola del patto, in altri termini, né principale, né accessoria, veniva giudicata invalida (sicché dovesse ritenersene la scindibilità per salvare il patto): con il che la motivazione fin qui offerta poteva dirsi (sul tema) conclusa e certamente sufficiente a sorreggere di per sé la conseguente statuizione.

Ed in effetti il prosieguo della motivazione era introdotto da un "se" e veniva aggiunto - comprensibilmente, nella logica di un lodo di equità - in evidente, non necessario subordine, al fine di convincere dell'esattezza della statuizione finale anche chi volesse "dubitare della validità di qualche clausola".

Orbene, ad una Corte “non pregiudicata” sarebbe bastato fermarsi a queste riflessioni per respingere il motivo di nullità concernente la pretesa violazione di norme fondamentali.

E del resto, esclusa la diretta violazione delle ben individuate norme fondamentali, esclusi errori di diritto sostanziale nell'interpretazione od applicazione di quelle norme o di quel patto, esclusi vizi di omessa o carente motivazione sulle clausole del patto, a ben vedere tutte le sparse censure dell'impugnazione relative all'interpretazione del contratto offerta dagli arbitri si riferivano a pretesi errori di fatto.

Trattavasi però di ipotetici errori certamente irrilevanti rispetto ad un lodo d'equità, il cui giudizio circa i presupposti di fatto dell'applicazione delle norme di ordine pubblico, se appunto motivato logicamente e sulla scorta di "regole giuridiche" corrette, rimaneva incensurabile da parte della Corte dell’impugnazione (limite di sindacato della Corte a fronte di un lodo rituale di equità - Cass., 8 novembre 1984, n. 5637).

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Per superare questo evidente ostacolo o comunque forzare questo limite espressamente posto dal legislatore, gli impugnanti Formenton sostenevano - rispondendo a CIR nelle loro conclusionale e replica - che, invece, in un giudizio d'impugnazione di un lodo rituale, ancorché di equità, quando si facesse questione di nullità per violazione delle norme fondamentali di ordine pubblico, fosse possibile per la Corte d'Appello "un accertamento senza limitazioni, che spazia dal fatto alle valutazioni, compresa l'interpretazione del contratto e della clausola compromissoria".

La tesi, che qualsiasi Corte avrebbe percepito a prima vista come “audace”, richiamava anzitutto a sostegno le massime di Cass. 14.7.83, n. 4832 e Cass. 5.2.83, n. 963.

E però, la prima di queste due massime affermava solo che "la Corte di Cassazione nei giudizi di impugnazione per nullità delle sentenze arbitrali è giudice del fatto in ordine alle questioni di competenza ed alle relative valutazioni concernenti l'esistenza e l'interpretazione della clausola compromissoria": il riferimento non appariva pertinente al caso.

Anche la seconda sentenza si riferiva all'impugnazione di un lodo per nullità derivante da incompetenza degli arbitri ed evocava i più ampi poteri riconosciuti alla Cassazione quando si trattasse di giudicare di vizi in procedendo; questa stessa sentenza (Cass. 963/83) ricordava peraltro l'irrilevanza degli “errores in iudicando” nell'impugnazione dei lodi di equità.

Sempre in conclusionale i Formenton sostenevano che il lodo avrebbe eluso l'applicazione delle norme di ordine pubblico per il mancato apprezzamento di queste; questa sarebbe stata, in astratto, una censura ammissibile, ma non era esatta nello specifico, perché anzi il lodo, come si è visto, aveva "apprezzato" le norme fondamentali rilevanti intendendole appieno e con rigorosa severità.

Inoltre, sempre in conclusionale, i Formenton lamentavano un'errata interpretazione del contratto in ordine alla portata dei singoli patti: questi errori, se di diritto, pur ammettendo in astratto che fossero rilevanti in quanto confliggenti con norme di ordine pubblico, comunque non sussistevano perché, come visto, non veniva evocata nessuna norma di interpretazione del contratto in tesi violata (quelle degli artt. 1362 ss.); se, invece, trattavasi di errori di fatto,

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di "opinioni di merito", certamente non sarebbero state censurabili trattandosi di un lodo di equità.

Alle pagg. 50-52 della conclusionale i Formenton insistevano ancora, assumendo che "...è vulnerato l'art 806 CPC" (affermazione in sé poco comprensibile, atteso l’oggetto di questa norma) "non solo quando gli arbitri escludano che una disposizione attenga a principi di ordine pubblico, ma anche quando gli arbitri, stravolgendo il contenuto e il significato del contratto, affermano non venire in considerazione le suddette norme di ordine pubblico, laddove era invece proprio di queste che si doveva fare applicazione per risolvere la controversia...; essendo la materia dei diritti indisponibili un limite alla competenza arbitrale operante anche nei giudizi di equità, non c'è alcuna differenza tra giudizi di fatto e giudizi di diritto, tra accertamenti normativi e qualificazioni dei contratti.... La protezione dei principi fondanti del nostro sistema giuridico è protezione piena, che postula un controllo esterno sull'operato dei giudici privati e che attribuisce all'autorità giudiziaria il compito di accertare che la soluzione contenuta nel lodo non contravvenga a quei principi. E poco importa se il contravvenire derivi dal mancato apprezzamento dell'ipercogenza di tali principi ovvero da erronei giudizi espressi dagli arbitri sulla natura o sul contenuto del contratto, che siano valsi a distogliere questo dall'ambito di operatività di quei principi... Quando entra in campo l'ordine pubblico il controllo dell'A.G. si estende su tutto l'ambito delle valutazioni spettanti ai giudici: interpretazione delle norme di ordine pubblico, ma altresì qualificazione della fattispecie, accertamento del fatto, identificazione della volontà dei contraenti e del contenuto del contratto e quant'altro necessita alla definizione, in concreto, dell'operatività di quelle norme".

Solo sulla scorta di una tale postuma ricostruzione gli impugnanti Formenton affermavano, insomma, l’ammissibilità delle loro censure.

Ma si tratta di un’impostazione insostenibile, che conduce all’assurdo di ritenere che, sol che gli impugnanti facciano questione di norme fondamentali, l’ambito di impugnabilità di un lodo di equità diverrebbe per ciò stesso automaticamente ancor più ampio della normale impugnazione di un lodo di diritto, più ampio di un giudizio di legittimità, equivalente ad un ordinario gravame d'appello.

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A sostegno di questa singolare tesi veniva in pratica invocato essenzialmente il già allora risalente precedente di Cass. 3001/73, che però nulla affermava – se ne legga il testo integrale in Foro It. 1974, I, 2427, anche per verificare la radicale diversità del caso concreto ivi esaminato - di quanto gli impugnanti (e poi, pedissequamente, la sentenza Metta) avrebbero voluto dedurre, ma ribadiva solo il vecchio e noto principio per cui anche una sentenza di equità doveva avere una motivazione non talmente abnorme nelle sue premesse o contraddittoria nel suo sviluppo logico da risultare incomprensibile. Questo ammissibile, anzi doveroso, controllo di "logicità" non comporta, ed all’evidenza non voleva significare, la sindacabilità di "logici" apprezzamenti in fatto.

Neppure era vero (come sostenevano i Formenton) che su questo anche CIR si sarebbe detta d'accordo alle sue pagg. 40-41 della comparsa di costituzione. In quel contesto, CIR affermava una cosa diversa, e cioè che nel giudicare della validità di un contratto "illecito" (non semplicemente nullo) anche gli arbitri di equità dovessero pronunciare "secondo diritto" e non che fosse censurabile la loro interpretazione del fatto.

A pagg. 57 ss. della loro conclusionale, poi, i Formenton, nell'insistere nella tesi, finivano per esporla in termini ambigui e contraddittori: "...l'accertamento dei limiti alla competenza arbitrale, laddove venga in rilievo l'incidenza, in riferimento alla concreta fattispecie, di norme di ordine pubblico, comporta una cognizione piena del giudice dell'impugnazione sugli stessi presupposti di fatto della dedotta nullità del contratto per illiceità; sia perché, in generale, anche quando il lodo è di equità, sono tuttavia censurabili le incongruenze e le contraddizioni che inficiano la motivazione; sia perché in ogni caso, anche quando gli arbitri sono autorizzati a pronunciare secondo equità, il loro giudizio deve essere sempre secondo diritto per ciò che attiene agli aspetti che coinvolgono principi dell'ordine pubblico, sicché risultano sempre censurabili, in siffatti giudizi, per incongruenza, illogicità e incompletezza, gli accertamenti in fatto compiuti sul punto dagli arbitri ...; per pervenire ad una diversa qualificazione dei fatti (è) necessario dimostrare che quella operata dalla maggioranza del collegio arbitrale sia contraddittoria, illogica e carente".

Come si vede, anche gli impugnanti si riducono ad oscillare tra rivalutazione del fatto e controllo di logicità della motivazione: le stesse tesi, con le stesse “oscillazioni”, erano

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ribadite alle pagg. 9-14 della loro replica; alla fine, in verità, neppure gli impugnanti giungevano però ad affermare che la Corte d'Appello potesse riconsiderare senza limiti il merito degli accertamenti/ valutazioni in fatto degli arbitri, cioè sostituire un convincimento ad un altro, un argomento (logico) ad un altro.

Insomma – a differenza della sentenza Metta, che a sua motivazione riproduce per esteso, pressoché alla lettera, i riportati passi delle memorie Formenton - una Corte non corrotta avrebbe risposto che, se era vero che anche gli arbitri di equità erano tenuti ad osservare le norme e i principi di ordine pubblico, non era affatto vero che in questi casi non vi fosse nessuna differenza tra giudizi di fatto, accertamenti normativi e qualificazione del contenuto del contratto, giacché la protezione dei diritti fondamentali risultava comunque piena e totale (nel senso che non si creava nessun vulnus all'ordinamento) quando il lodo, ricostruiti correttamente detti principi ed osservate le regole giuridiche nell'interpretazione del contratto, affermasse che esso non violava dette norme fondamentali.

Con ciò una Corte "normale" avrebbe respinto il secondo motivo di nullità proposto dagli impugnanti.

La stessa Corte, in quanto "normalmente" puntuale e rigorosa, avrebbe poi anche aggiunto che non era affatto vero che quella motivazione offerta ad abundantiam dagli arbitri circa la scindibilità del patto pur a fronte della clausola n. 9, fosse talmente contraddittoria da non lasciare intendere le ragioni del loro convincimento. Si poteva al limite sostenere che questo convincimento fosse in fatto errato, ma di certo era logicamente spiegato. Infatti, gli arbitri in sostanza ritenevano che la pattuita clausola di inscindibilità (art. 9) si riferiva - data la sua collocazione, la funzione del contratto e le convergenti intenzioni delle parti - al nesso tra il complesso delle clausole ex art. 5 (tutte insieme) e la permuta (le pattuizioni degli artt. da 3 a 6), non tra clausole ex art. 2 ed ex art 5, non tra clausole ex art. 2 e permuta, non tra ciascuna clausola dell'art. 5 rispetto all'altra. Anche se queste considerazioni fossero state in fatto errate, non sussisteva comunque alcuna contraddizione o addirittura incomprensibilità della motivazione: non si comprendeva, infatti, perché dovesse ritenersi contraddittorio usare entrambi i criteri - temporale e tematico - per valutare l’esistenza di un nesso tra le diverse clausole di un contratto.

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In ogni caso, i limiti del giudizio d'impugnazione su un lodo di equità erano quelli ordinari (con esclusione, cioè, degli “errores in judicando”) quando si trattasse del diverso tema (non più della validità delle clausole parasociali per violazione delle norme fondamentali, ma) del rapporto (scindibilità o meno) tra le clausole del patto: questa valutazione degli arbitri, che appunto non aveva nulla a che vedere con l'ipotizzata violazione dei principi di ordine pubblico (fermo restando che non era essenziale alla decisione per quanto sopra detto), avrebbe potuto essere sindacata solo ove la relativa motivazione fosse stata talmente contraddittoria o carente da non lasciare intendere la “ratio decidendi” (Cass. Sezioni Unite n. 2815 del 21.03.1987).

Detto in altri termini, l'obbligo, anche per un lodo di equità concernente questioni di violazione di norme fondamentali, di giudicare secondo diritto poteva riferirsi solo alle valutazioni attinenti l'interpretazione e l'applicazione di dette norme, non a tutte le (altre) valutazioni eventualmente sottoposte al giudizio degli arbitri.

Ne conseguiva che il convincimento della scindibilità delle clausole della convenzione CIR-Formenton motivatamente raggiunto dagli arbitri, ed avente ad oggetto la ricostruzione della volontà dei contraenti, non era suscettibile di rivalutazione in sede d'impugnazione.

Per mera completezza, la Corte avrebbe peraltro anche osservato che nel giudizio di scindibilità gli arbitri non avevano commesso neppure errori di diritto sostanziale: l'art. 1419 CC non vietava affatto il tipo di esame fatto dagli arbitri (basti evocare l’art. 1362 CC, che impone di non limitarsi al senso letterale delle parole).

La ricostruzione della volontà dei contraenti (compiuta nel rispetto della logica e delle regole giuridiche ermeneutiche) apparteneva, insomma, al merito insindacabile delle opinioni degli arbitri di equità, trattandosi, come ha osservato il primo Giudice senza ricevere specifica censura sul punto, di una “quaestio facti”.

Può aggiungersi infine – non tanto per completare la già compiuta motivazione della sentenza “giusta” circa il rigetto del secondo motivo di nullità, quanto per segnalare un’ulteriore forzatura della sentenza corrotta – che la sentenza Cass. 19-5-89, n. 2406, non depone certo in senso contrario alla fin qui esposta definizione dei confini del giudizio d’impugnazione nel nostro caso. Si tratta del precedente citato nella sentenza Metta (pagg.

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77 ss.) a proposito del primo motivo di nullità – pregiudiziale di incompetenza – con qualche percepibile residuo di ambiguità, quasi a significare che quella questione di incompetenza era infondata, ma il suo sottostante argomento poteva e doveva essere “recuperato” dalla Corte nel suo “libero” esame del secondo motivo, avendo il giudizio d’impugnazione, quando si faccia questione di illiceità del contratto, “analoga struttura logica” del giudizio arbitrale. Ora, quella sentenza n. 2406/89 era stata citata dalla stessa CIR fin dalla sua comparsa di costituzione in Corte (e poi prodotta), per sostenere, contro i Formenton, che gli arbitri erano competenti a giudicare di un contratto attinente a materia di ordine pubblico economico (si trattava del trasferimento di un marchio in tesi senza trasferimento dell’azienda o di un suo ramo); che spettava agli arbitri dichiarare se il contratto fosse lecito o illecito, pronunciando su questa questione “secondo diritto”, cioè secondo le norme di ordine pubblico inderogabili; che, se gli arbitri avssero sbagliato sul punto, in sede d’impugnazione sarebbe stato accolto il conseguente motivo di nullità del lodo per violazione delle norme fondamentali, e non per incompetenza degli arbitri. Affermazioni tutte assolutamente esatte, come si comprende; ma quel che conta è che la sentenza non afferma affatto (come suggerisce la “motivazione Metta” con il suo rilievo circa la “analoga struttura”) che dunque il giudizio della Corte d’Appello, nel valutare quel motivo di nullità da violazione delle norme fondamentali, abbia campo libero, ma anzi tiene a ricordare – si veda la motivazione in fine – che quel lodo alle prese con norme di ordine pubblico economico era comunque di equità e, come tale, “svincolato anche (perfino) nei suoi presupposti logici dalla stretta osservanza delle norme di diritto”. Si trattava, insomma, di un precedente tutt’altro che utile per sorreggere l’impostazione della sentenza corrotta.

Del terzo motivo di nullità dell’atto di impugnazione dei Formenton una Corte “normale” avrebbe detto assai brevemente. Esso riguardava la statuizione del lodo di accertamento dell'obbligo dei Formenton di trasferire le azioni, statuizione che, in tesi, non avrebbe potuto essere pronunciata avendo il lodo negato la richiesta statuizione ex art. 2932 (errore di diritto, inteso come violazione dell’art. 112 CPC), nonchè l'errato rigetto della domanda riconvenzionale dei Formenton di risoluzione, a causa di un'asserita "considerazione atomistica dell'inadempimento della CIR". Nell’atto d’impugnazione, infine (pag. 75),

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veniva allegata la nullità del lodo ex art. 829, n. 4, CPC per aver omesso di giudicare secondo equità.

A tale proposito, una Corte non corrotta avrebbe considerato che tale motivo appariva francamente pretestuoso e lo avrebbe rigettato; infatti, l’errore di diritto enunciato (art 112 CPC) era incensurabile trattandosi di un lodo di equità e collocandosi fuori dall’ambito delle norme fondamentali di ordine pubblico. Esso era comunque manifestamente infondato: il senso della duplice domanda sub 1) e 2) di CIR (le si veda testualmente riportate alle pagg. 7 e 8 del lodo) era univoco e chiarissimo anche se analizzato “in punta di diritto”; per il resto, la doglianza non poteva essere accolta in quanto oscillava fra l’indicazione di errori di fatto, l’addebito di mancato esercizio dell’equità e l’allegazione di pretese contraddizioni, però tutte interne alla motivazione.

In particolare, il rilievo di aver omesso di giudicare secondo equità era poi palesemente inconferente; bastava rilevare l’incongruità del riferimento all'art. 829, n. 4, CPC, che concerne pacificamente l'oggetto del compromesso e non i poteri dell'arbitro, di volta in volta secondo diritto o secondo equità.

Ritenute dunque, come dovevano essere, infondate tutte le diverse censure di nullità, risulta evidentemente irrilevante il dibattito sviluppatosi tra le parti in questa causa a proposito del principio giurisprudenziale, allora vigente, della cd. indivisibilità del lodo: solo per completezza, si può notare che non è esatto che la sentenza Metta lo ignori, perché, invece, lo cita espressamente (pag. 148) ed anzi lo intende correttamente come “indivisibilità tra capi”, secondo la costante giurisprudenza dell’epoca. Di qui l’inutilizzabilità del principio all’interno della valutazione di censure attinenti un singolo capo (numerato sub 3) della decisione arbitrale.

Quanto, infine, all'intervento dei terzi, una Corte "normale" ne avrebbe dichiarato l'evidente inammissibilità secondo la costante giurisprudenza dell'epoca (cfr. Cass. 6.3.1962, n. 437, Cass. 11.2.1988, n. 1465: “il terzo estraneo al compromesso e che per effetto dell’accordo raggiunto con esso dalle parti abbia subito pregiudizio non è legittimato ad intervenire nel giudizio di impugnazione per nullità del lodo , ma può tutelare i suoi diritti

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con un ordinario giudizio di accertamento svincolato dai termini di cui agli articoli 404 e 325 CPC e dalle regole sulla competenza indicate nell’articolo 828 stesso codice”) e stante comunque la palese infondatezza nel merito dell'opposizione dei terzi, chiedendo costoro la caducazione di un lodo di equità, correttamente motivato nei termini sopra indicati, postulando in definitiva la tesi (non pertinente, stante l’oggetto dell’impugnazione), per cui il lodo non era a loro opponibile.

Questa, dunque, sarebbe stata la sentenza dovuta secondo diritto che la corruzione ha impedito.

Gli argomenti esposti a sua motivazione possono peraltro fungere, se si vuole, anche come conclusivo riscontro degli errori evidenti (non argomentazioni opinabili) della “sentenza Metta”: per riassumerli, quegli “errori” consistono in una lettura infedele della motivazione del lodo, nel capzioso superamento dei limiti propri del giudizio d’impugnazione di un lodo di equità, ancorché avente ad oggetto norme fondamentali di ordine pubblico, nell’aver ritenuto inesistente una neppur essenziale motivazione sulla scindibilità, invece esistente e comprensibile, in un “uso alternativo” del diritto in tema di intervento di terzo.

IL PRIMO MOTIVO DI APPELLO DI FININVEST E IL SECONDO MOTIVO DELL’APPELLO INCIDENTALE DI CIR: IL NESSO DI CAUSA

Svolta la necessaria ricostruzione in fatto, è ora possibile trarne le debite conseguenze in tema di nesso di causalità.

Come si ricorderà, il primo motivo delle doglianze di Fininvest, che si collega a quanto sino a qui trattato, consisteva nella erroneità della sentenza del Tribunale per violazione e falsa applicazione degli articoli 2043, 1223 e 2056 CC, nella parte in cui riconosceva il danno subito da CIR come danno da perdita di “chance”.

Per converso l’appellante incidentale CIR, nel secondo dei suoi motivi di appello -il cui esame è logicamente prioritario - si doleva della reiezione della propria domanda principale relativa al riconoscimento di un nesso immediato e diretto fra la corruzione di Metta e l’annullamento del lodo; a detta di CIR, il Tribunale aveva

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errato nella applicazione delle norme sul nesso di causalità, dovendosi affermare l’esistenza di un nesso immediato, diretto e non interrotto fra la corruzione di Metta e l’annullamento del lodo.

CIR, dunque, riproponeva la sua domanda principale, tendente ad ottenere la totalità dei danni conseguiti alla corruzione del giudice Metta, come formulata nelle conclusioni dinanzi il Tribunale: accertare e dichiarare che, per l'insieme degli elementi di fatto e di diritto esposti nella narrativa dell'atto di citazione e nelle successive difese, segnatamente in forza degli artt. 2043 e/o 1337 e/o 1440 CC, essa attrice aveva diritto nei confronti di Fininvest al risarcimento del danno patrimoniale subito a causa dell'illecito - di cui CIR era stata vittima - di corruzione in atti giudiziari, così come descritto negli atti di parte attrice e definitivamente accertato con sentenza della Corte d'Appello penale di Milano n. 737/2007, danno da quantificarsi complessivamente nell'importo di € 468.882.841,02 (di cui € 50.000.000,00 in relazione al danno patrimoniale da lesione dell'immagine imprenditoriale), oltre rivalutazione e interessi a far tempo dalla data di produzione del danno, ovvero in quella diversa somma - maggiore o minore - che fosse risultata nel corso del giudizio o fosse determinata, anche in via equitativa, dal Tribunale; per l'effetto, l’attrice chiedeva di condannare Fininvest al pagamento in favore di CIR della somma predetta, maggiorata di rivalutazione e interessi.

Va chiarito subito che la domanda di CIR, come più volte ribadito dalla stessa, assume quale causa petendi unicamente l’ipotesi di cui all’articolo 2043 CC, dovendosi agevolmente intendere che i menzionati articoli 1337 e 1440 CC “non fondano alcuna domanda nuova e diversa rispetto a quella ex art 2043 CC, ma semplicemente costituiscono materia di argomentazioni dirette a corroborare la fondatezza di tale (unica) domanda” (cfr. comparsa conclusionale 24.1.2011 pag. 7).

Ciò precisato, CIR evidenziava che la corruzione di Metta era stata consumata affinché egli propiziasse una sentenza di annullamento del lodo Pratis; ne risultava che il danno sofferto da CIR era conseguenza immediata e diretta della corruzione:

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se la sentenza non fosse stata frutto della corruzione, essa sarebbe stata favorevole a CIR, che si sarebbe seduta al tavolo delle trattative finali in una condizione di forza e non nella condizione di debolezza nella quale si era trovata.

Il Tribunale, invece, aveva disatteso tale progressione logico-giuridica, affermando erroneamente che “nessuno può dire in assoluto quale sarebbe stata la decisione che un Collegio nella sua totalità incorrotto, avrebbe emesso: ... una sentenza ingiusta avrebbe potuto essere emessa anche da un Collegio nella sua interezza non corrotto'" (sentenza appellata, pagg. 125-126). Il Tribunale, dunque, a detta di CIR, aveva malamente concluso: "proprio per questo, appare più aderente alla realtà del caso in esame determinare concettualmente il danno subito da CIR come danno da perdita di “chance”: vale a dire, posto che nessuno sa come avrebbe deciso una Corte incorrotta, certamente è vero che la corruzione del giudice Metta privò la CIR della “chance” di ottenere da quella Corte una decisione favorevole" (sentenza appellata, pag. 126).

Sussisteva, dunque, anche a detta di CIR, pur in prospettiva diversa rispetto a quella indicata da Fininvest, un errore del Tribunale nell’applicazione delle norme sul nesso di causalità; l’astratta possibilità della emissione di una sentenza ingiusta non valeva ad escludere il nesso eziologico. Infatti, la corretta applicazione del canone “più probabile che non” (indicato da Cass. 16.10. 2007 n. 2119) rendeva ampiamente provata l’esistenza di un nesso di causalità immediato, diretto e non interrotto fra la corruzione di Metta e l’annullamento del lodo Pratis. In sostanza, si chiedeva retoricamente CIR: era più probabile che un giudice incorrotto avrebbe emesso una sentenza giusta oppure una sentenza ingiusta ? La prima ipotesi era di gran lunga la più probabile e ciò giustificava l’affermazione di un rapporto diretto ed immediato fra corruzione, sentenza ingiusta e danno subito da CIR. La corruzione di Metta, in definitiva, aveva privato CIR non tanto della “chance” di una sentenza favorevole, ma della sentenza favorevole “tout court”.

Quando poi il Tribunale aveva affermato che anche un giudice incorrotto avrebbe potuto emettere una sentenza ingiusta, si riferiva, errando, ad un giudice

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astrattamente ipotizzato, mentre il punto di riferimento doveva essere Metta, in quel contesto specifico, nel caso in cui non fosse stato corrotto: in tale ipotesi era molto più probabile che la sentenza sarebbe stata giusta (piuttosto che non), proprio perché Metta era un giudice preparato.

La censura è fondata.

Ragionando di nesso eziologico e di valutazione della prova, evidenzia la Corte che, come insegna tra le altre Cass. 10285/2009, “… la scelta da porre a base della decisione di natura civile va compiuta applicando il criterio della probabilità prevalente. Bisogna, in sede di decisione sul fatto, scegliere l'ipotesi che riceve il supporto relativamente maggiore sulla base degli elementi di prova complessivamente disponibili. Trattasi, quindi, di una scelta comparativa e relativa all'interno di un campo rappresentato da alcune ipotesi dotate di senso, perché in vario grado probabili, e caratterizzato da un numero finito di elementi di prova favorevoli all'una o all'altra ipotesi".

Sul punto non si può, dunque, prescindere dal considerare con Cass. sez. III, 16 ottobre 2007, n. 21619, che il giudizio di causalità non è mai un giudizio in termini di certezze assolute, bensì è sempre e in ogni caso un giudizio probabilistico, peraltro suscettibile di diverse gradazioni in relazione ai vari contesti applicativi; in campo penale, quello che richiede il grado di probabilità più alto, il criterio di giudizio sulla causalità si identifica con quello dell’alta “credibilità razionale" ("oltre ogni ragionevole dubbio"); nell’ipotesi di responsabilità civile il criterio si attesta su un grado di probabilità minore giustificato dal tipo di interesse protetto (e tenuto conto della sua evoluzione storica), e cioè "sul versante della probabilità relativa, caratterizzata... dall'accedere a una soglia meno elevata di probabilità rispetto a quella penale" e suscettibile di "assumere molteplici forme espressive" quali ad esempio "serie e apprezzabili possibilità" o "ragionevole probabilità", il che può riassumersi dicendo che, in definitiva, "la causalità civile... obbedisce alla logica del “più probabile che non"; sempre in campo civile sussiste un ulteriore e più basso livello di probabilità, dato

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dalla semplice possibilità, che è sufficiente a giustificare la figura della “chance” (sul tema si confrontino, tra le altre, Cass. 00/632 e Cass. 05/7997).

Infatti, come testualmente ritenuto in motivazione nella citata Cass. 21619/07, e ciò si dice evidenziando che la sentenza si riferisce ad una fattispecie diversa (di natura sanitaria), “non è illegittimo immaginare, allora, una "scala discendente", così strutturata: 1) in una diversa dimensione di analisi sovrastrutturale del (medesimo) fatto, la causalità civile "ordinaria", attestata sul versante della probabilità relativa (o "variabile"), caratterizzata, specie in ipotesi di reato commissivo, dall'accedere ad una soglia meno elevata di probabilità rispetto a quella penale, secondo modalità semantiche che… possono assumere molteplici forme espressive ("serie ed apprezzabili possibilità", "ragionevole probabilità" ecc.), senza che questo debba, peraltro, vincolare il giudice ad una formula peritale, senza che egli perda la sua funzione di operare una selezione di scelte giuridicamente opportune in un dato momento storico: senza trasformare il processo civile (e la verifica processuale in ordine all'esistenza del nesso di causa) in una questione di verifica (solo) scientifica demandabile tout court al consulente tecnico: la causalità civile, in definitiva, obbedisce alla logica del "più probabile che non"; 2) in una diversa dimensione, sempre nell'orbita del sottosistema civilistico, la causalità da perdita di “chance”, attestata tout court sul versante della mera possibilità di conseguimento di un diverso risultato (terapeutico), da intendersi, rettamente, non come mancato conseguimento di un risultato soltanto possibile, bensì come sacrificio della possibilità di conseguirlo, intesa tale aspettativa (la guarigione da parte del paziente) come "bene", come diritto attuale, autonomo (e diverso rispetto a quello alla salute). Quasi certezza (ovvero alto grado di credibilità razionale), probabilità relativa e possibilità sono, dunque, in conclusione, le tre categorie concettuali che, oggi, presiedono all'indagine sul nesso causale nei vari rami dell'ordinamento…”. In definitiva, il Supremo Collegio lascia intendere che il canone “più probabile che non”, valevole in sé per ogni ipotesi di responsabilità civile, non serve a dirimere la questione circa la natura del danno, in quanto detto parametro rileva sia per il

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danno diretto e immediato che per quello da perdita di “chance”, che sono due tipi diversi di danno risarcibile.

Alla luce di tali principi, che la giurisprudenza di legittimità citata riferisce ad una ipotesi in fatto diversa, ma che sono analogicamente rapportabili anche alla presente fattispecie, si deve allora riconoscere, con l’appellante incidentale, che la corruzione di Metta ha privato CIR non tanto della “chance” di una sentenza favorevole, ma, senz’altro, della sentenza favorevole, nel senso che, con “Metta non corrotto”, l’impugnazione del lodo arebbe stata respinta.

E così è in effetti: da quanto si è fin qui motivato in fatto derivano – con certezza sufficiente ai fini civilistici – le affermazioni che: 1) la sentenza della Corte d’Appello di Roma è stata frutto della corruzione, 2) la stessa è stata ingiusta e 3) CIR, senza la corruzione, avrebbe ottenuto una sentenza di conferma del lodo.

Dunque, un nesso immediato e diretto: la relazione causale tra la condotta del giudice corrotto, relatore ed apparente estensore, e la sentenza ingiusta è stata accertata in fatto secondo un normale criterio di causalità materiale, essendosi cioè ritenuto provato che la corruzione ha determinato in concreto un diverso esito di quel giudizio “collegiale”.

E’ evidente, d’altronde, l’errore del Tribunale nell’applicazione delle norme sul nesso di causalità: tra l’altro, il primo giudice sovrapponeva impropriamente, come evidenziato anche da Fininvest, il piano del nesso eziologico con quello del tipo di danno risarcibile: il canone del “più probabile che non” giustifica entrambe le ipotesi di danno, sia esso immediato e diretto che per perdita di “chance”, non valendo esclusivamente per questa seconda ipotesi; l’astratta possibilità, ritenuta dal primo giudice, della emissione di una sentenza ingiusta anche da parte di giudici incorrotti – proprio in quanto ipotesi astratta, forse formulata sul presupposto che errare sia comunque umano - non vale ad escludere il nesso eziologico nella accezione giuridica sopra indicata. Come correttamente evidenziato da CIR, “se così fosse, nessun danno sarebbe più integralmente risarcibile come previsto dall’articolo 1223 CC”. Allorché, invece, il nesso causale risulti accertato – anche eventualmente in base al canone

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della probabilità qualificata – è evidente che tutti i danni, e non una percentuale di essi, debbano essere risarciti.

Alla luce di quanto detto, appaiono addirittura svolte “contra se” le considerazioni offerte da Fininvest in comparsa conclusionale, là dove cita una dottrina intervenuta a commento della sentenza qui impugnata (cfr. pag. 38 in nota 3): “il giudice milanese ritiene di dover quantificare in percentuale la “chance” di CIR di ottenere una sentenza giusta. In linea di principio è vero che il quantum in tal caso va liquidato equitativamente avuto riguardo alle probabilità che il danneggiato aveva di conseguire il vantaggio finale, ma ciò vale quando, ad esempio, si tratta di concorsi per promozioni, là dove esistono parametri di riferimento obiettivi interni al caso di specie, quali, ad esempio, il numero dei posti messi a concorso e quello dei partecipanti, ma non quando si tratta di sentenze che si sarebbero potute ottenere e non si sono ottenute, ad esempio per negligenza dell'avvocato. In tal caso spetta al giudice del risarcimento decidere nel merito, cioè stabilire quale sarebbe stato il decisum, sicché il risarcimento sarà negato o concesso in toto e non in percentuale a seconda dell’esito del giudizio prognostico. Si teorizza altrimenti e si istituzionalizza l’incertezza programmatica del diritto, come base della giurisdizione”.

Conferma della perdita del parametro di riferimento del Tribunale è la considerazione non giuridica (ed in definitiva più che altro esistenziale) per cui “nessuno sa come avrebbe deciso una Corte incorrotta”. Il problema che il Tribunale si sarebbe dovuto porre era invece proprio quello: ricostruire (nella logica “controfattuale” del tutto consueta in larga parte delle controversie risarcitorie) come avrebbe deciso una Corte incorrotta o, meglio, proprio quella Corte nel caso in cui Metta non fosse stato corrotto; in altri termini, il giudice di prime cure avrebbe dovuto stabilire, come si è qui tentato di fare, se il lodo sarebbe stato confermato, alla luce delle regole e della giurisprudenza all’epoca vigenti e a disposizione di una “Corte normalmente preparata”. E, come si è visto, erano tanti e tali gli argomenti – di rito e di merito, di legge e di giurisprudenza, principali e subordinati, sistematici e letterali – che imponevano il rigetto dell’impugnazione, che si deve concludere che questo esito era, in concreto, certo.

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Ciò detto, non si può però prescindere dalle doglianze residue proposte dall’appellante principale: infatti, evidenziava Fininvest che l’autore del fatto non è tenuto a risarcire se non i danni costituenti “conseguenza immediata e diretta” del suo comportamento illecito (art. 1223 come richiamato dall’art. 2056 CC), ossia i danni costituenti un effetto normale del fatto contra ius, secondo il principio della regolarità causale. Il Tribunale non aveva fatto corretto uso di tale principio in quanto “fra la condotta in ipotesi illecita e l’evento dannoso si frapponevano la sentenza della Corte di Appello, la rinuncia di CIR a coltivare il giudizio per cassazione ed, infine, l’accordo transattivo stipulato dalle parti nell’aprile 1991, eventi ciascuno dei quali era di per sé solo sufficiente ad interrompere il nesso di causalità” (appello Fininvest pag. 28 e comparsa conclusionale pagg. 59 segg).

In particolare, assumeva Fininvest che quand’anche si volesse ammettere, seguendo il ragionamento del Tribunale, che CIR era stata privata della “chance” di ottenere una sentenza favorevole di conferma del lodo Pratis da parte della Corte di Appello di Roma, certamente non era stata privata della possibilità di ottenere una sentenza a lei favorevole della Corte di Cassazione (che annullasse la sentenza della Corte di Appello di Roma). In altri termini, in relazione al danno, CIR aveva interrotto il nesso di causalità in quanto aveva: 1) rinunciato a coltivare il ricorso per cassazione e 2) contestualmente transatto in ordine alle vicende afferenti la cosiddetta “guerra di Segrate”.

Osserva anzitutto questa Corte che tali considerazioni non attingono propriamente l’allegazione principale dell’attrice, in quanto questa lamenta un danno immediato e diretto conseguente alla sentenza “corrotta” che non si identifica nell’avere dovuto definire in modo transattivo, in base a valutazioni anche più generali, le vicende della “guerra di Segrate”: la prospettazione attorea principale è nell’allegazione, quale danno diretto, di “essersi seduta al tavolo delle trattative” conclusive in una condizione deteriore, cagionata, con rigida sequenza causale (la sentenza della Corte d’Appello di Roma era frutto della corruzione ed ingiusta nel merito), dal fatto doloso della corruzione che aveva spostato gli equilibri della trattativa in corso ed aveva costretto CIR a definire la controversia in modo sperequato.

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Tale precisazione, tuttavia, non risolve però senz’altro la questione che Fininvest solleva anche in relazione alle previsioni dell’articolo 1227 CC., nel senso che l’adesione alla transazione e la rinuncia al ricorso da parte di CIR vengono prospettate altresì quali fatti colposi concorrenti del creditore: “se anche…la sentenza della Corte di Appello di Roma avesse errato nell’annullare il lodo Pratis…da tale sentenza non sarebbe derivato il danno lamentato da CIR, perché la Corte di Cassazione avrebbe in tal caso accolto il ricorso di CIR” e, verosimilmente, anche in tempi rapidi.

Dà atto, anzitutto, questa Corte che la doglianza di Fininvest, sia pure riferita all’ipotesi ritenuta dal primo giudice della perdita di “chance”, deve essere considerata validamente formulata anche avuto riguardo all’ipotesi del danno immediato e diretto, in quanto investe il nesso di causa in sè. Ed è anche opportuno precisare in proposito che “per escludere che un determinato fatto in concreto causalmente idoneo abbia concorso a cagionare un danno non basta affermare che il danno stesso avrebbe potuto verificarsi anche in mancanza di quel fatto, ma occorre dimostrare, avendo riguardo a tutte le circostanze del caso concreto, che il danno si sarebbe ugualmente verificato senza quell’antecedente” (Cass. 17.2.2011 n. 3487).

Orbene, nel caso concreto, si deve però rilevare in fatto, come già ritenuto dal Tribunale ed evidenziato ancora oggi da CIR (memoria di replica pag. 19), che la rinuncia al ricorso per Cassazione fu “conseguenza doverosa ed inevitabile della transazione” dell’aprile 1991 e che questa, articolata ma unica, scelta di aderire a quella transazione fu il “male minore”, anche tenuto conto del fatto che, come correttamente osservato anche dal Tribunale nella sentenza impugnata a pag 82 (punto non oggetto di impugnazione), “sono del tutto comprensibili le ragioni per cui la Corte di Appello ha emesso la decisione ritenuta ingiusta, innanzitutto perché il giudizio di motivazione sostanzialmente inesistente (del lodo) le consentiva di censurare la quaestio voluntatis (interpretazione della volontà negoziale), che era quaestio facti…; inoltre, perché detto giudizio di non senso le consentiva di pronunciare la nullità del lodo e di inoltrarsi dalla fase rescindente alla fase rescissoria…; infine perché il predetto giudizio di nullità del lodo per difetto di motivazione su una questione di merito le consentiva, in prospettiva, di tenere la sua decisione presumibilmente al riparo dalla

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possibilità di cassazione da parte del Supremo Collegio, dato che essa, a sua volta, avrebbe potuto essere annullata in Cassazione solo in punto di contraddittorietà ed insufficienza della motivazione sulla già vista quaestio facti (art 360, comma 1, n. 5 CPC)”.

Questa Corte constata che non è un caso che tali argomenti siano stati formulati proprio dalla resistente Fininvest nel controricorso per Cassazione (doc. Fininvest 94 pagg. 79 segg.) e fossero già il “leit motiv” delle dichiarazioni rese da Silvio Berlusconi in un’intervista rilasciata il 25.1.1991 a “Il Giornale” (doc CIR L2): “la sentenza della Corte di Appello di Roma …si può considerare …pressochè definitiva, perché la Corte di Cassazione giudica solo in diritto e non entra nel merito… e poi ci vogliono almeno tre anni per avere una pronuncia… Siamo uomini ragionevoli… se la CIR ha altrettanto buon senso, si siede al tavolo del negoziato e cerca un accordo…”.

E dunque: è innegabile, ragionando in puri termini di diritto, che il ricorso in Cassazione di CIR avesse anche possibilità di essere accolto, perché, se da un lato era difficilmente sindacabile l’infedele lettura fatta da Metta delle clausole del patto di sindacato e della motivazione del lodo, dall’altro, poteva essere pur sempre rilevato il vizio di diritto del superamento da parte della Corte d’Appello di Roma dei limiti consentiti al suo giudizio di impugnazione. Ma – e l’argomento è risolutivo – la decisione, più che una “libera scelta” di rinunciare al ricorso (quale necessario corollario di una transazione) era, a quel punto della vicenda, in fatto praticamente obbligata, a prescindere dalle eventuali prospettive di finale successo giudiziario. Obbligata, perché in ogni caso per la sentenza della Cassazione ci sarebbe voluto del tempo, mentre la Mondadori era sempre più ingovernabile (si ricordi quanto narrato all’inizio) e, per convergente interesse ed opinione delle parti, la sua “sistemazione” non poteva ritardare neppure per pochi mesi; peraltro, come ancora si dirà, ad una spartizione del gruppo si doveva pure arrivare, non solo perché ad essa in realtà puntavano entrambe le parti (pur se a condizioni diverse), ma anche perchè le pressioni politiche in tal senso (nel senso della spartizione, non della quantificazione dei prezzi) erano diventate concretamente irresistibili.

Tali considerazioni indussero CIR a sedersi “ragionevolmente” al tavolo delle trattative pure in una condizione di debolezza cagionata dalla caducazione del lodo Pratis e ciò esclude

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non solo un fatto colposo del creditore che integri l’ipotesi di cui all’articolo 1227, primo comma, CC (non è una “colpa” aver deciso per quella transazione e quella rinuncia), ma anche l’ipotesi di cui al secondo comma dello stesso articolo, nessun addebito di negligenza potendo essere rivolto a CIR per la conduzione della trattativa finale.

Fininvest, poi (comparsa conclusionale pagg. 103 segg. e memoria di replica pag. 27), oltre a ribadire argomenti già svolti e qui già trattati, ne introduceva anche di nuovi per negare la risarcibilità del danno preteso da CIR.

CIR avrebbe potuto attivare, secondo Fininvest, il rimedio della revocazione (della sentenza della Corte d’Appello di Roma) ed ottenere in tal modo l’annullamento della transazione (nda: per l’una o l’altra delle ipotesi di cui agli articoli da 1972 a 1975 CC), ma non lo aveva fatto. Di qui la riflessione: “se CIR avesse chiesto l’annullamento del contratto, avrebbe potuto chiedere il risarcimento nella misura dell’interesse negativo e cioè rapportato alle occasioni perdute; non avendolo fatto, il danno risarcibile era nella misura dell’interesse positivo, e cioè rapportato al pregiudizio costituito dall’aver concluso un contratto a condizioni diverse da quelle in cui sarebbe stato concluso senza l’illecito (cfr. comparsa conclusionale pag. 104). In altre parole, “si poteva identificare il danno nelle occasioni perdute solo se un contratto non era stato stato concluso, come nel caso classico del recesso ingiustificato dalle trattative (art 1337 CC), o era stato concluso ma era stato annullato; se invece il contratto era stato posto in essere e veniva mantenuto, il danno doveva essere determinato con specifico riferimento a quel contratto, e si doveva accertare se quel negozio, a causa dell’illecito, fosse stato posto in essere a condizioni diverse – e cioè deteriori – rispetto a quelle a cui sarebbe stato concluso, in assenza dell’illecito, nella situazione data e tenendo conto delle condizioni di mercato…” (così, con riferimento all’articolo 1440 CC, veniva citata autorevole dottrina). Quel che era certo era che il contraente che assumeva di avere subito un danno per avere concluso un contratto in condizioni di minorata libertà contrattuale non poteva scegliere, a seconda di quello che risultasse maggiore nel caso di specie, tra il risarcimento nella misura dell’interesse negativo e il risarcimento nella misura dell’interesse positivo (cfr. comparsa conclusionale pag. 105). In definitiva, secondo Fininvest, CIR chiedeva non il danno nella misura dell’interesse

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positivo (perché la transazione conclusa era svantaggiosa), ma nell’accezione dell’interesse negativo, che non poteva neppure in astratto chiedere non avendo annullato la transazione.

Per altro verso, il preteso danno da indebolimento della posizione negoziale a causa della corruzione costituiva una inedita ipotesi di responsabilità “costruita per cercare, ma invano, di identificare una situazione soggettiva riconosciuta dall’ordinamento, la cui violazione comporti ingiustizia del danno”.

E, comunque, CIR non chiedeva un risarcimento per avere concluso nel 1991 una transazione a condizioni sconvenienti, non eque, non congrue, ma chiedeva il ristoro per non avere concluso una diversa transazione alle condizioni spartitorie che si erano delineate nel 1990; l’accordo del 1991 era stato concluso a condizioni eque e il danno “ammontava a zero”, come risultava dalla Relazione Poli – Colombo (doc. Fininvest n. 2 in appello, pag. 73), nonché dalla replica di parte Fininvest del 21.5.2010 alla CTU, “con considerazioni basate su perizie dell’epoca redatte da esperti indipendenti e transazioni concluse sui mercati regolamentari” (memoria di replica pag. 31).

Puntualizzava infine Fininvest che “il nostro sistema della responsabilità civile, contrattuale ed extracontrattuale, non consente che, nell’identica fattispecie in fatto, non vi sia un danno risarcibile se l’azione promossa è contrattuale, e vi sia un danno risarcibile se l’azione promossa è extracontrattuale” (memoria di replica pag. 29). Ciò violerebbe la nozione istituzionale per cui “la determinazione del danno risarcibile è uguale per l’illecito extracontrattuale e per quello contrattuale” (salva la differenza quanto alla risarcibilità dei danni imprevedibili ex art. 1225 CC), come ritenuto da autorevole dottrina.

CIR obiettava che tali eccezioni erano nuove, tardive e quindi inammissibili, in quanto comparivano per la prima volta in comparsa conclusionale (cfr. memoria di replica CIR pag. 67): ritiene, al contrario, la Corte che gli argomenti svolti da Fininvest risultino ammissibili, perché non sono eccezioni in senso proprio, ma semplici difese, per di più in diritto e non in fatto, non tali quindi da aprire nuovi “territori di indagine”.

Quanto al merito di questi argomenti, non si può, però, che prendere atto che la scelta di CIR non è stata quella di agire per la revocazione della sentenza della CdA di Roma ed ottenere per tal via l’annullamento della transazione sulla base di alcuno dei presupposti di

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cui agli articoli 1972 CC (transazione su un titolo nullo), 1973 CC (annullabilità per falsità di documenti), 1974 (annullabilità per cosa giudicata) e 1975 CC (annullabilità per scoperta di documenti); del resto nessuna delle ipotesi citate si attaglia alla presente concreta fattispecie.

Ma – se questo la censura di Fininvest vuol significare - il punto è che la revocazione della pronuncia della Corte d’Appello di Roma non costituisce, né logicamente, né giuridicamente, il presupposto necessario o una condizione di procedibilità per l’azione risarcitoria come proposta da CIR: si ribadisce che, come già motivato, la sentenza “corrotta” deve essere considerata “tamquam non esset” e per ciò stesso, ai presenti fini, non può esserle riconosciuta valenza di giudicato sostanziale; in questa sede essa altro non è che il prodotto di un illecito, in tesi generatore del danno di cui qui si discute. Ed in tal senso non depone solo la più recente giurisprudenza sopra citata, essendo già risalente (si veda Cass. 18-5-84, n. 3060) il principio che, quando una sentenza sia frutto di reato, oltre alla sua eventuale impugnazione per revocazione, spetti al danneggiato l’ordinaria azione risarcitoria (vuoi come parte civile in sede penale, vuoi dinanzi al giudice civile), discendendo l’obbligazione risarcitoria in via diretta dall’accertamento del fatto reato, senza che tale azione sia preclusa dal precedente “giudicato” civile determinato dal reato.

Ciò detto, sta di fatto, comunque e in ogni caso, che CIR – come da sua, più volte ribadita, espressa allegazione - ha richiesto non un danno da interesse negativo, nella prospettiva di una occasione perduta, bensì un danno da interesse positivo, da accertare con specifico riferimento alla transazione del 1991: “infatti, CIR chiede proprio il danno da deteriori condizioni economiche di quella transazione” (memoria di replica CIR pag. 68) e cioè il danno da accertare verificando se quella concreta transazione (e non già un altro ipotetico negozio che si sarebbe potuto concludere e non si è definito) “a causa dell’illecito, è stat(a) conclus(a) a condizioni diverse – e cioè deteriori – rispetto a quelle cui sarebbe stat(a) conclus(a) in assenza dell’illecito” (ibidem); in sostanza “la spartizione pulita è stata parametrata sulle condizioni della proposta Fininvest (del giugno 1990): ma questa viene in gioco non come rappresentativa di un contratto che non si è concluso (nella logica del

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danno da interesse negativo), bensì come termine di riferimento per calcolare il danno positivo che si ricollega al contratto concluso”.

Conferma dunque questa Corte che l’attrice, con la domanda principale, ha chiesto il danno da interesse positivo, quale emerge dalla vicenda prospettata sin dagli atti introduttivi della causa; ciò costituisce una legittima scelta di CIR, salva l’ovvia considerazione che è onere suo fornire la prova della sussistenza del danno richiesto. E la domanda dell’attrice è stata, peraltro, perfettamente intesa dalla convenuta che si è difesa in maniera pertinente: si veda, ad ulteriore citazione, quanto ancora scrive Finivest in conclusionale: “se invece il contratto era stato concluso e veniva mantenuto, il danno doveva essere determinato con specifico riferimento a quel contratto, e si doveva accertare se esso, a causa dell’illecito, era stato concluso a condizioni diverse – e cioè deteriori – rispetto a quelle a cui sarebbe stato concluso, in assenza dell’illecito, nella situazione data e tenendo conto delle condizioni di mercato” (dove il richiamo al prezzo di mercato, per determinare il danno, è tratto da dottrina e giurisprudenza formatesi sull’ipotesi di cui all’articolo 1440 CC e non su quella di cui all’art 2043 CC: ma di ciò si dirà, salvo fin d’ora anticipare che l’interesse positivo determinato dall’avere contrattato a condizioni deteriori non deve essere necessariamente parametrato ad una generica “congruità” rispetto alle condizioni di mercato, quanto piuttosto ad un evento concreto e disponibile agli atti, e cioè la proposta Fininvest del 1990, la cui “congruità” era stata ritenuta nello specifico dalla stessa Fininvest, e non certo contra se).

Riassumendo, la domanda che CIR legittimamente sceglie di svolgere, e come tale esaminata dal giudice di prime cure, è quella ex art 2043 CC, con la quale viene richiesto il danno da interesse positivo determinato dalle deteriori condizioni economiche della transazione, danno da accertare verificando se quel contratto (la transazione del 1991), a causa dell’illecito, sia stato in concreto concluso a condizioni deteriori, rispetto a quelle cui sarebbe stato concluso in assenza dell’illecito. In definitiva, trattasi di danno patrimoniale che, comunque lo si voglia descrivere nella fenomenologia degli eventi (“indebolimento della posizione negoziale”), non costituisce certo “una inedita ipotesi di responsabilità” (così

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Fininvest in memoria di replica – pag. 28): ci si trova viceversa dinanzi ad una lineare richiesta di risarcimento che troverà di seguito la sua quantificazione.

IL SETTIMO MOTIVO DI APPELLO DI FININVEST - LA DETERMINAZIONE DEL DANNO RISARCIBILE

Fininvest lamentava come settimo motivo di appello la erroneità della sentenza nella determinazione del danno risarcibile, “sia quanto al preteso danno da indebolimento della posizione negoziale” (euro 284.051.294,49), sia in relazione a quello da pagamento delle spese legali (euro 8.207.892,77), sia per ciò che riguardava il danno da lesione dell’immagine imprenditoriale (euro 20.658.276,00), il tutto ammontante alla somma complessiva di euro 312.917.463,26, rivalutata a far data dal deposito della sentenza 259/91 della CdA di Roma ad euro 543.750.834,31, somma maggiorata degli interessi compensativi, giungendo così all’importo complessivo di euro 937.444.514,92 (ridotta poi all’80%, tale essendo la quota ritenuta congrua in relazione alla perdita di chance).

L’appellante lamentava gravi errori giuridici, vizi logici e persino meri errori di calcolo, il tutto tenuto presente che il Tribunale non aveva neppure sentito il bisogno di ammettere una consulenza tecnica di ufficio che avrebbe evitato di incorrere in alcuni gravi errori ed incongruenze.

In relazione al ritenuto danno da “indebolimento della posizione negoziale” di CIR, lamentava Fininvest nel suo atto di appello che l'approccio del Tribunale (che sul tema aveva accolto in toto la prospettazione svolta da controparte) era consistito nell'identificazione e addirittura nella quantificazione del danno asseritamente subito dall'attrice CIR attraverso il semplice confronto tra i termini e le condizioni economiche di quella che veniva definita la "Proposta Fininvest del 19.6.1990" (doc CIR n. I.5) e le condizioni economiche della transazione del 29.4.1991 (doc. Fininvest n. 39). Poiché dal confronto fra i termini e le condizioni

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economiche emergenti dai due documenti risultava una quantificazione a danno di CIR di Lire 458.046.833.807, il Tribunale aveva ritenuto che questo fosse il danno patrimoniale da riconoscere a CIR, danno che peraltro aveva poi incrementato "con criterio equitativo” fino all'importo di lire 550.000.000.000 (sent. impugnata, pagg. 136 e 137).

Allegata una "Relazione tecnica relativa alla sentenza del 3 ottobre 2009" dei Professori Roberto Poli e Paolo Colombo (doc. n. 2, fascicolo di appello Fininvest) – della cui formale ammissibilità, come presto si comprenderà, è superfluo disquisire - l’appellante ribadiva che non vi era stata nel giugno 1990 alcuna trattativa impegnativa per le parti, né vi era stata mai una vera e propria proposta di Fininvest, “anche perché all'epoca la gestione del gruppo Mondadori era affidata a manager di espressione CIR, che aveva a suo vantaggio una ‘asimmetria informativa’ rispetto a Fininvest”: cosicché non aveva senso assumere come primo termine di riferimento il documento di cui si trattava. Dall'altro lato, la transazione dell'aprile 1991 faceva seguito all'entrata in vigore, nell'agosto 1990, della cd. "Legge Mammì”, ai sensi della quale un gruppo non avrebbe potuto possedere, oltre le televisioni, giornali quotidiani.

La transazione dell'aprile 1991 fu dunque conseguenza di una situazione in cui semmai era stata Fininvest a trovarsi nella condizione di dover accettare una spartizione da essa certamente non voluta e quindi subita (testimonianze Confalonieri e Foscale).

A ciò Fininvest aggiungeva che la transazione del 1991 ebbe un perimetro non confrontabile, diverso e più ampio rispetto alle ipotesi considerate nell'anno precedente (e ciò anche tenuto conto dell'entrata in vigore delle Legge Mammì): ne derivava che, già per tale ragione, non aveva alcun senso effettuare, ai fini dell'individuazione del danno e della prova del suo ammontare, il confronto fra quella che il Tribunale definiva la "spartizione corrotta” (la transazione dell'aprile 1991) e la "spartizione pulita” (e cioè quella elaborata secondo le condizioni della "Proposta Fininvest" del 19 giugno 1990).

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Così ragionando, il Tribunale non si era reso conto che, condividendo l'approccio di CIR, l'aveva sollevata illegittimamente dall'onere della prova dell'esistenza del danno, onere che su CIR senz'altro incombeva quale parte attrice, anche nella subordinata (e poi accolta) prospettiva della "perdita di chance”.

Ed infatti, poiché CIR lamentava di essere stata costretta a sottoscrivere - in quanto "indebolita" dalla sentenza Metta - una transazione iniqua, l'onere della prova gravante su CIR consisteva nel dimostrarne l'iniquità, e cioè che i valori attribuiti agli “assets” scambiati tra le parti erano difformi, al momento della transazione, “da quelli di mercato”. Sicché, anche a voler dare per acquisito l’”an”, il Tribunale non poteva determinare il “quantum” se non disponendo la CTU - con quesiti mirati ai valori di mercato dell'aprile 1991 - che, peraltro, la stessa CIR (ma pensando ad un confronto tra le "proposte" transattive) aveva richiesto.

In secondo luogo, e soprattutto, era radicalmente viziato il ragionamento del Tribunale, il quale dava per scontato l'assunto di CIR secondo cui le differenze ravvisate tra le condizioni economiche della transazione dell'aprile 1991 e quelle contenute nella cd "Proposta Fininvest" sarebbero state causate dall’”indebolimento della posizione contrattuale" di CIR per effetto della sentenza della Corte d'Appello di Roma.

Fininvest svolgeva, a questo punto, due censure di carattere metodologico.

La prima atteneva alle modalità con le quali il Tribunale aveva fatto il confronto dei prezzi risultanti dalla transazione dell'aprile 1991 con i dati risultanti dai negoziati intercorsi prima del lodo Pratis. Alle pagine 129-130 della sentenza, il Tribunale riportava un'analisi in cui le differenze riscontrate nella transazione dell'aprile 1991 nelle valorizzazioni degli acquisti di Fininvest (le azioni AME ed AMEF) erano commentate sia con riferimento al documento del 30 marzo 1990 (pretese iniziali di CIR), sia con riguardo al documento del 19 giugno 1990 (cd Proposta Fininvest). Invece, le differenze nelle valorizzazioni degli acquisti di CIR (di azioni La Repubblica e Finegil) erano oggetto di un trattamento “singolare”: in primo luogo, esse erano oggetto di confronto solo con il documento del 30 marzo

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1990 e non con quello del 19 giugno 1990 (che era stato utilizzato alla fine dal Tribunale quale base per la liquidazione del danno). Se il confronto fosse stato coerente, ossia con riferimento ai dati della cd Proposta Fininvest, sarebbe emerso al contrario che CIR aveva realizzato sugli acquisti Repubblica e Finegil il complessivo "vantaggio" di lire 25.5 miliardi, come si poteva desumere anche dal confronto tra le tabelle riportate a pag. 134 e a pagg. 135-136 della sentenza (e che questa Corte ha provveduto a riprodurre ricavandole anche graficamente dalla sentenza di primo grado già nella fase espositiva); in secondo luogo, nel confronto non erano state considerate le azioni Espresso e non c'era alcun motivo di non considerarle: il capoverso tra pagina 129 e pagina 130 della sentenza aveva un contenuto meramente descrittivo a supporto del successivo giudizio sull'avvenuto capovolgimento delle posizioni negoziali.

Fininvest osservava che, se il confronto fosse stato esteso alle azioni Espresso, sarebbe emerso il minore prezzo unitario di acquisto (Lire 25.700) che CIR aveva spuntato nella transazione del 1991 rispetto a quello delle negoziazioni del 1990 (lire 30.000).

In sintesi, in un passaggio della sentenza nel quale si voleva collegare l'intera questione delle valutazioni delle società ad un capovolgimento delle posizioni negoziali delle parti, il confronto veniva fatto solo parzialmente e per di più mettendo a raffronto dati non omogenei ed eliminando elementi a supporto della difesa Fininvest. Ne derivava che il Tribunale aveva erroneamente ipotizzato uno scenario nel quale CIR avrebbe subito condizioni peggiorative, con la transazione 1991, con riferimento a tutti i titoli scambiati nella spartizione.

La seconda censura di carattere metodologico, che Fininvest considerava ancora più grave, risiedeva nel fatto che il Tribunale non avesse quantomeno supposto l'esistenza di "spiegazioni alternative" delle differenze riscontrate. Fra la cd "Proposta Fininvest" del giugno 1990 e la transazione del 29 aprile 1991 era intercorso quasi un anno ed era notorio che, quando si raffrontavano situazioni patrimoniali, economiche e finanziarie relative a società operative e pure quotate,

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relative a periodi diversi, non si poteva non tener conto di alcuni fattori essenziali quali: 1) l'evoluzione del contesto economico generale in cui si erano collocate le due differenti negoziazioni; 2) il diverso andamento dei mercati finanziari nei due momenti storici di riferimento (1990 e 1991); 3) l'andamento economico delle società oggetto della "spartizione". In primo grado la difesa di Fininvest non aveva mancato di produrre alcuni documenti significativi contenenti le informazioni relative ai prezzi di borsa di AME negli anni 1989, 1990 e 1991 e di AMEF; inoltre aveva fornito un memorandum denominato "valutazione delle azioni ordinarie Mondadori"; un grafico di sintesi dell'andamento borsistico (indice MIE) relativamente al periodo aprile 1989-1991; l'andamento dell'indice COMIT alla data del 5 marzo 1991; copia dell'estratto della relazione del Consiglio di Amministrazione di AME relativo all'esercizio 1990; la comunicazione dei prezzi unitari utilizzati nella transazione per i trasferimenti azionari dalla stessa previsti.

Inoltre la difesa dell’appellante asseriva di aver dimostrato con la produzione del doc. n. 144 che, quando nel 1992 Fininvest aveva acquistato da Mediobanca azioni Mondadori ordinarie pari al 6% del capitale sociale, il prezzo pattuito era stato in linea con quello che era stato convenuto fra le parti nell'ambito della transazione.

Nella Relazione Poli-Colombo vi era una spiegazione esaustiva delle ragioni per le quali questi fattori avrebbero dovuto essere considerati: infatti, occorreva prendere in considerazione "tutta una serie di analisi basilari di tipo economico-valutativo, riferite alle singole società interessate dalla transazione, analisi che avrebbero potuto spiegare le variazioni nei prezzi di compravendita delle azioni intervenute nell'arco temporale considerato" (cfr. Relazione Poli-Colombo, pag. 10).

Ne derivava che, qualora il Tribunale avesse ritenuto dimostrato l’”an”, avrebbe dovuto respingere la domanda perchè CIR non aveva fornito alcuna prova circa il fatto che i prezzi delle compravendite azionarie previste dalla transazione non fossero in linea con le valorizzazioni di mercato alla data in cui la transazione era stata stata stipulata.

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Fininvest esortava quindi la Corte a verificare, usando il suo potere di disporre una CTU, le considerazioni svolte in relazione ai fattori sopra indicati, verifica che avrebbe comportato l’apprezzamento delle proprie ragioni se si fossero applicati corretti principi di valutazione d'azienda.

Asseriva Fininvest che la sentenza era, in ogni caso, incorsa in alcuni gravi errori e/o incongruenze nella determinazione delle differenze giudicate rilevanti ai fini del presunto danno. Tali errori avevano comportato a favore di CIR la determinazione di un maggior danno per l’ammontare di lire 124.000.000.000 rispetto alla somma di lire 458.000.000.000 che era stata accertata nella sentenza, con una differenza di circa il 27%. Applicando a tale importo il medesimo coefficiente di rivalutazione utilizzato dal Tribunale e tenuto conto della percentuale di chance (80%), si sarebbe pervenuti ad un valore di circa lire 300 miliardi, pari a circa 155 milioni di euro. Ne conseguiva che, quand'anche si fosse ritenuto corretto l'approccio metodologico seguito dal giudice di prime cure, la sentenza avrebbe dovuto essere comunque riformata, con una drastica riduzione della quantificazione effettuata dal Tribunale.

Fininvest, poi, lamentava che il Tribunale avesse aumentato il danno risarcibile “con un criterio equitativo” per l’ammontare di circa lire 100.000.000.000, senza indicare per quali motivi avesse accolto tale domanda.

Infatti, le ragioni addotte da CIR erano le seguenti (riportate nella sentenza a pag. 136): 1) acquisto da parte di CIR del 68,3% della Cartiera di Ascoli, in luogo dell'opzione "put" concessale nella supposta Proposta Fininvest 19.6.1990; 2) acquisto di un maggior quantitativo di azioni Espresso rispetto a quanto previsto nella supposta Proposta Fininvest 19.6.1990; 3) contesto negoziale nell'ambito del quale era stata conclusa la transazione del 29.4.1991.

Era agevole rilevare che nessuna di tali ragioni era idonea a giustificare un incremento "con criterio equitativo" del danno patrimoniale.

Quanto all'acquisto della partecipazione del 68,3% della Cartiera di Ascoli, Fininvest rilevava in primo luogo che non aveva senso effettuare un confronto,

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come aveva fatto il Tribunale, fra i due scenari, perché totalmente diverso era l'oggetto dell'operazione. Nella cd. "Proposta Fininvest" del giugno 1990 si prevedeva che CIR cedesse un pacchetto azionario di minoranza, mentre nella transazione dell'aprile 1991 essa acquistava un pacchetto azionario di controllo. E se ciò era avvenuto era perché a CIR interessava disporre di un veicolo societario attraverso cui perfezionare l'operazione di quotazione dell’editoriale La Repubblica attraverso la fusione per incorporazione di quest'ultima nella Cartiera di Ascoli, che era quotata, ottenendo quindi il risultato di portare in borsa (indirettamente) La Repubblica, riducendo i tempi ed i costi di tale processo, il che si era puntualmente verificato subito dopo la transazione.

In relazione all'acquisto da parte di CIR di un maggior quantitativo di azioni Espresso rispetto a quanto previsto nella cd Proposta Fininvest, il Tribunale aveva valutato nella propria determinazione "equitativa" una componente di danno conseguente al fatto che, nella anzidetta proposta, CIR avrebbe acquisito la maggioranza del capitale de l'Espresso con un minor esborso di circa Lire 60.000.000.000, che peraltro rappresentavano il mero costo di acquisto delle azioni aggiuntive. Ma il giudice di prime cure non aveva considerato che CIR stessa aveva dato atto, nella propria comparsa conclusionale (cfr. ivi pag. 514), che essa aveva potuto successivamente ricollocare sul mercato le azioni eccedenti la quota di controllo traendo addirittura un profitto dall'acquisto dell'81,30% in luogo del 51,90%. Tale circostanza era stata documentata già in primo grado (doc. Fininvest n. 70).

Quanto infine al raffronto tra il contesto negoziale nell'ambito del quale fu conclusa la transazione nell'aprile 1991 e quello in cui sarebbe maturata la Proposta Fininvest del giugno 1990, Fininvest non comprendeva come tale raffronto avesse significato sotto il profilo equitativo.

Tanto rammentato, considera anzitutto questa Corte, quanto al primo tema del complesso motivo di appello, che agli atti risultano documenti puntuali e precisi,

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dai quali non si può prescindere, anche perché la doglianza di Fininvest ne coinvolge il contenuto.

Il doc. I 4 CIR rappresenta un "riassunto Mediobanca" (cd “proposta Fininvest”), e cioè una sorta di puntuazione dello stato della trattativa al 19.6.1990 sulla base della proposta di Fininvest in un tempo immediatamente precedente al lodo Pratis; trattasi di un documento proveniente dalla nota banca di affari che seguiva da vicino la trattativa in questione: in esso si leggeva che l'ipotesi Fininvest era quella per cui essa avrebbe acquistato da CIR azioni AME ordinarie a lire 40.000 ciascuna, azioni AME privilegiate a lire 27.500 ciascuna ed azioni AME di risparmio a lire 15.000 ciascuna.

Evidenzia ancora questa Corte che non si può certo pensare che nella proposta come testè indicata Fininvest avesse fatto una valutazione dei prezzi a sé sfavorevole: tale considerazione non può certo essere sottovalutata nel momento della determinazione del danno come prospettato da CIR.

Si ricava dalla transazione (doc. A 2 CIR), come integrata dal documento n. 143 Fininvest (che conteneva l'indicazione dei prezzi unitari dei trasferimenti da CIR a Fininvest) che i prezzi unitari per le azioni AME vendute da CIR a Fininvest erano: lire 26.000 per le azioni AME ordinarie, lire 18.980 per le azioni AME privilegiate e lire 10.173 per le azioni AME di risparmio.

Considerava correttamente in proposito il giudice di prime cure che “invero una differenza così vistosa non può spiegarsi con l'andamento del mercato e deve essere realisticamente ricondotta ad un cambiamento sostanziale delle rispettive posizioni negoziali delle parti”.

Agli atti risulta anche il "Piano accordo con Fininvest” del 30.3.1990 (doc. I 1 CIR) di accertata provenienza CIR; è opportuno già da ora puntualizzare che trattasi del documento in relazione al quale Fininvest si doleva dell’errata commistione con la “proposta Fininvest” ai fini della determinazione del danno, quando lamentava testualmente che “il Tribunale riportava un'analisi in cui le differenze riscontrate nella transazione dell'aprile 1991 nelle valorizzazioni degli acquisti di Fininvest (le

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azioni AME ed AMEF) erano commentate sia con riferimento al documento del 30 marzo 1990 (pretese iniziali di CIR), sia con riguardo al documento del 19 giugno 1990 (cd Proposta Fininvest) a differenza di quanto valeva per CIR…”.

Orbene, nella seconda pagina del piano 30.3.1990 si ipotizzava un acquisto da parte di AMEF di un gran numero di azioni Mondadori, che venivano cedute da parte dei più importanti azionisti di allora: anche qui si considerava la vendita delle azioni AME ordinarie a lire 40.000 ciascuna, delle azioni AME privilegiate a lire 27.500 ciascuna, delle azioni AME di risparmio a lire 15.000 ciascuna; anche in questo documento, evidenziava correttamente il giudice di prime cure, si avevano quindi le stesse vistose differenze già viste rispetto ai prezzi pattuiti per la vendita delle stesse azioni da parte di CIR nella transazione del 1991.

Anzi, evidenzia questa Corte, trattasi proprio degli stessi valori indicati nella proposta Fininvest: non si comprende allora quali siano le doglianze sostanziali dell’appellante sul punto.

Ponendo invece mente agli acquisti da parte CIR di azioni possedute dalla controparte si notava quanto segue: nel "piano accordo" 30.3.1990 (doc. I 1 CIR), alla prima pagina, si ipotizzava l'acquisto da parte di CIR di 8.000.000 di azioni ordinarie Repubblica per l'importo di lire 50.000 ciascuna e per un corrispettivo totale di lire 400.000.000.000, di 15.534.842 azioni Espresso al prezzo unitario di lire 30.000 per un corrispettivo complessivo di lire 466 miliardi, nonchè del 50% del capitale sociale di Finegil per lire 75.000.000.000.

Nella proposta Fininvest del giugno ’90, invece, si prevedeva l’acquisto da parte di CIR dello stesso numero di azioni Repubblica per l’importo di lire 62.500 ciascuna per un totale complessivo di lire 500 miliardi, dello stesso numero di azioni Espressso allo stesso prezzo unitario, nonché dello stesso 50% di Finegil al prezzo complessivo di 114 miliardi.

Con la transazione, CIR acquistava 8.000.000 di azioni ordinarie Repubblica per lire 56.250 ciascuna per un totale di lire 450.000.000.000, 24.357.622 azioni Espresso

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al prezzo unitario di lire 25.700 per un totale di lire 625.990.885.400, nonché il 50% del capitale Finegil per lire 138.527.520.000.

Da quanto esposto emerge evidente la prova piena della sussistenza di un vero e proprio capovolgimento delle posizioni negoziali delle parti, che non poteva “trovare altra spiegazione se non nell'indebolimento di parte CIR e nel correlativo rafforzamento di parte Fininvest - Formenton come effetto della sentenza n. 259/91 della Corte di Appello di Roma, data anche la assenza di una spiegazione alternativa” (sent. impugnata pag 130).

Proseguiva il giudice di prime cure considerando che, infatti, le cennate differenze non potevano - come avrebbe voluto Fininvest - spiegarsi col fatto che nel 1990 la contesa delle azioni Mondadori tra le parti ne aveva fatto "gonfiare" i prezzi, mentre nel 1991, una volta che le parti ebbero regolato la loro contrapposizione con la transazione, il valore delle azioni AME si era “sgonfiato”: invero, secondo il giudice di prime cure l'assunto non era convincente, “perché dai dati sopraindicati si notava una piena coerenza dei cambiamenti di prezzo con gli interessi di parte Fininvest-Formenton, coerenza che suggeriva fortemente la spiegazione del ribaltamento del potere negoziale delle parti: infatti si vedeva che il valore delle azioni Repubblica e Finegil, invece di ‘sgonfiarsi’, nel 1991 si incrementò”.

Alla luce degli argomenti sopra esposti e della documentazione acquisita, si deve ritenere, con il Tribunale, che, anche nella prima fase, trattativa vi fu, fu reale e generò affidamento: la “proposta Fininvest” del 19.6.1990 esprime dunque una valutazione non viziata da elementi indebiti e può bene costituire il valido e concreto parametro di riferimento per la determinazione del danno subito a seguito dell’inversione dei rapporti di forza fra le parti, cagionata dalla caducazione del lodo Pratis ad opera della sentenza corrotta della Corte d’Appello di Roma.

Né si può prestare fede alle parole dei testi Fedele Confalonieri e Giancarlo Foscale, laddove, senza contestare la genuinità e la provenienza del documento, tendevano a svalutare l'importanza della trattativa col dichiarare che in questa fase "si fecero solo chiacchiere" e si sorbiva "il caffè del mattino": come correttamente

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evidenziato dal giudice di prime cure (sent. impugnata pag. 130), infatti, non è credibile che Mediobanca, prestigiosa banca di affari, sovrintendesse ad una trattativa meno che seria ovvero recepisse o comunicasse in termini infedeli le posizioni dell’una o dell’altra parte.

Né si può prescindere da altre testimonianze che collimano con i dati documentali acquisiti agli atti. Infatti, il teste Corrado Passera, sentito all'udienza del 14 Maggio 2007, dichiarava:" ricordo distintamente che si arrivò ad una proposta Fininvest che prevedeva in favore di CIR un conguaglio di lire 400 miliardi e lo ricordo perché vi fu una importante riunione in proposito…"; ed ancora: "… confermo che il documento I 5 rappresenta la proposta Fininvest ricevuta in Mediobanca... Lo schema di suddivisione delle società interessate è quello indicato a pag. 2 dell'accordo e a pag. 8 del medesimo è indicato un conguaglio di 400 miliardi in favore di CIR".

Il teste Sergio Erede, poi, all’udienza del 28 Maggio 2007, dichiarava: "Ricordo bene il documento in questione (doc. I 5), perché dopo una riunione in Mediobanca, nel Giugno 1990 - alla quale peraltro non ero presente - il dott. Passera mi telefonò e mi disse che avevano ricevuto una proposta da Fininvest e me la mandò in studio per via fax. Si tratta della proposta contenuta nel doc. I 5".

Né si può ritenere che le due fasi (proposta Fininvest del 19.6.1990 e transazione 29.4.1991) fossero espressione di una diversa trattativa non sovrapponibile, come eccepito da Fininvest in primo grado: infatti, l'oggetto, le parti e le ragioni del contendere erano le stesse nelle due fasi, cosicché non ha senso considerare quella posta in essere nel 1991 come una trattativa nuova rispetto alla quella svolta in Mediobanca (salva la questione del “perimetro”, della quale si dirà appresso).

Assumeva Fininvest che la transazione dell'aprile 1991 faceva seguito all'entrata in vigore, nell'agosto 1990, della cd. "Legge Mammì”, ai sensi della quale un gruppo non avrebbe potuto possedere, oltre le televisioni, giornali quotidiani. La transazione dell'aprile 1991 era stata dunque conseguenza di una situazione in cui, semmai, era stata Fininvest a trovarsi nella condizione di dover accettare una

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spartizione da essa certamente non voluta e quindi subita (testimonianze Confalonieri e Foscale).

Considera questa Corte che la allegazione di Fininvest appare paradossale, tenuto conto degli esiti della trattativa, nel senso che se si dovesse tener conto di questo “nuovo” fattore intervenuto a svantaggio di Fininvest, il differenziale negativo per CIR fra la proposta del giugno 1990 e la transazione finale sarebbe addirittura maggiore di quello allegato.

Rileva la Corte che trattasi comunque di una mera affermazione contraddetta dai fatti, se è vero, come evidenzia CIR nella sua costituzione in appello (pag. 249), che gli stessi rappresentanti di Fininvest, Oliver Novick e Giancarlo Foscale chiarirono a CIR la posizione della loro società nei termini così sintetizzati: "Fininvest non intende vendere alcun cespite/partecipazione di Mondadori e non è obbligata dalla legge Mammì, poiché gli attuali equilibri azionari vedono chiaramente le famiglie Formenton e Mondadori controllare la Mondadori stessa" (cfr.verbale della riunione tenutasi il 18.2.91 redatto da Borghesi e inviato a Novick e Foscale il 19.2.1991, prod. CIR B 25).

Quanto poi alla doglianza di Fininvest - atto di appello pag 111 - secondo cui “la transazione del 1991 ebbe un perimetro non confrontabile, diverso e più ampio rispetto alle ipotesi considerate nell'anno precedente (anche in relazione all'entrata in vigore delle Legge Mammì)…” per cui “…ne derivava che, già per tale ragione, non aveva alcun senso effettuare ai fini dell'individuazione del danno e della prova del suo ammontare il confronto fra quella che il Tribunale definiva la ‘spartizione corrotta’ (la transazione dell'aprile 1991) e la ‘spartizione pulita’ (e cioè quella elaborata secondo le condizioni della ‘Proposta Fininvest’ del 19 giugno 1990)”, non si può che rilevare che la variazione di perimetro, data la sua consistenza e le sue caratteristiche, non inibisce il confronto e, comunque, di essa si terrà conto in prosieguo.

Resta, in definitiva, l’evidenza dell’efficacia causale della sentenza della Corte d’Appello di Roma per l’indebolimento della posizione negoziale di CIR, quale manifestata, nei limiti di quanto si dirà appresso, nello sfasamento dei valori delle

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azioni a tutto favore di Fininvest e, specificamente, nella crescita di quelli degli “assets” che Fininvest doveva cedere a CIR e nella svalutazione di quelli che CIR doveva passare a Fininvest.

Tale fatto enfatizza il nesso tra l’ingiusta sentenza della Corte d’Appello di Roma ed il danno finale subito da CIR con una transazione che aveva ribaltato tutti i valori sui quali si era fondato il confronto fra le parti (il Piano Accordo 30.3.1990 e, soprattutto, la Proposta Fininvest del 19.6.1990), con la conseguenza che CIR dovette “chiudere” le trattative con grave danno per il suo patrimonio.

La circostanza è ben resa dalle già riportate parole (ud. 8.2.2002 procedimento penale in primo grado) dell’avvocato Sergio Erede, legale di CIR all’epoca dei fatti e quindi persona inserita nel contesto della trattativa, che vale qui ricordare nuovamente:"... quando c'era stato questo negoziato all'epoca, sto parlando credo già quando era in corso il procedimento arbitrale, tutto sommato le due parti non erano distanti sui termini... sul fatto della spartizione, e neanche sulla definizione del perimetro della spartizione. Erano lontani sui contenuti economici della spartizione. Perché ... - Presidente: Sui conguagli - Erede: ... le richieste dell'uno erano assolutamente incompatibili con le aspettative dell'altro, ecco. E quando, quindi, dopo la sentenza di Roma si riprese il discorso della spartizione, e evidentemente la parte CIR a quel punto era assai più debole di quanto non fosse o ... - in modo molto a terra dico - assai più debole di quanto non fosse all'epoca del primo negoziato, e quindi si trovò un accordo sui termini. Più o meno il perimetro mi pare che rimase invariato, adesso non potrei giurare su questo, ma non credo che ci fossero grandi differenze, la differenza vera fu il contenuto economico dell'accordo fatto, rispetto a quello ipotizzato un anno prima. Presidente: Perché se non ricordo male, un anno prima, comunque si ipotizzava un credito per la CIR ?. - Erede "Sì! Che invece pagò svariate centinaia di miliardi...”.

Fininvest, come sopra ricordato, evidenziava che, poiché CIR lamentava di essere stata costretta a sottoscrivere - in quanto "indebolita" dalla sentenza della Corte d’Appello di Roma - una transazione iniqua, l'onere della prova gravante su CIR

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consisteva nel dimostrarne l'iniquità, e cioè che i valori attribuiti agli “assets” scambiati tra le parti erano difformi da quelli di mercato al momento della transazione. Sicché, anche a voler dare per acquisito l’”an”, il Tribunale non poteva determinare il “quantum” se non disponendo la CTU - con quesiti mirati ai valori di mercato dell'aprile 1991 - che, peraltro, la stessa CIR (ma in verità pensando ad un confronto tra le "proposte" transattive) aveva richiesto.

Su questo tema, la Corte deve, ovviamente, attenersi al principio della “corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato”: CIR, nella domanda formulata di danno diretto, non lamenta di avere concluso la trattativa a valori diversi da quelli di mercato nella logica di un danno da interesse negativo, ma, in sintesi, si duole del danno da interesse positivo, essendo stata spogliata del “suo potere contrattuale”, per aver subito una transazione iniqua e sperequata, non già in rapporto ai valori di mercato, ma rispetto alle precedenti posizioni manifestate dalle parti.

Del resto, della legittimità della richiesta di CIR dà implicitamente atto Fininvest in comparsa conclusionale, laddove a pag. 104, citando autorevole dottrina, segnala che “… nel caso di annullamento del contratto (nda ipotesi non ricorrente nel caso di specie) la vittima può pretendere di essere risarcita, ma il danno risarcibile si determina nella misura dell'interesse negativo, quale interesse a non concludere il contratto. Nel caso di dolo incidente, invece, (nda: ipotesi più affine alla presente anche se non sovrapponibile per quanto detto nel capitolo che precede) il danno risarcibile deve rapportarsi al pregiudizio costituito dalla minore convenienza dell'affare: ciò si spiega tenendo presente che il contratto rimane validamente concluso e che la vittima non lamenta il pregiudizio per l'invalidità del contratto, ma la mancanza di quel risultato economico positivo che essa avrebbe raggiunto se la controparte avesse agito lealmente”.

"Risultato economico" che non può che identificarsi - laddove i riscontri probatori lo consentano - in ciò che, in concreto, l'evoluzione della specifica vicenda di fatto, prima che fosse alterata dall'illecito, permette di ricostruire come suo esito normale. Come correttamente annota l'appellata CIR, questa causa "non è chiamata a stabilire quale fosse il

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'giusto prezzo' della permuta, ma quale sarebbe stato il risultato economico della negoziazione fra le parti" (quella concreta negoziazione tra quelle determinate parti) "qualora la fase precontrattuale fosse stata interamente espletata in un ambiente non inquinato dall'illecito", donde la "conclusione che, in assenza dell'illecito..., la transazione sarebbe stata conclusa quantomeno ai valori indicati nella proposta Fininvest del giugno ‘90". In altre parole, se la censura di Fininvest sottesa alla sua richiesta di CTU come formulata intende sostituire il primo termine del confronto adoperato dal Tribunale per la valutazione del danno (cioè, la proposta del giugno '90) con una stima dei valori di mercato, essa è evidentemente inconferente con il danno ammissibilmente allegato e da accertare in fatto: dalla "proposta Fininvest" non si può infatti prescindere proprio per la sua storica concretezza, che prevale su qualsiasi "standard" estimatorio, e per la sua specifica riferibilità soggettiva alla stessa parte in causa, che supera ogni altro più generale riferimento.

Se ed in quanto, invece, la censura si riferisce alla necessità di "depurare" da fattori non derivanti dall'illecito il secondo termine del confronto (cioè, i prezzi stabiliti in sede di transazione), essa deve trovare accoglimento per quanto di ragione.

Il tema, infatti, delle "spiegazioni alternative" alle variazioni dei valori dei beni scambiati non è un'eccezione in senso proprio che risulti tardiva, come ha obiettato l'appellata CIR: si tratta di un argomento difensivo già prospettato in subordine, pur con scarso dettaglio, da Fininvest in primo grado, come ha del resto osservato questa Corte, senza ricevere argomentate repliche sul punto, nel motivare l'ordinanza istruttoria.

Né si può condividere l'ulteriore, radicale obiezione di CIR, secondo la quale le condizioni spartitorie (i prezzi) della transazione del '91 sono state determinate soltanto da rapporti di forza, senza che le valutazioni economiche ed aziendali avessero un qualsiasi rilievo (cfr comparsa conclusionale pag 26).

Infatti, non si può prescindere – come puntualmente rileva Finivest (concl. pp. 116 ss.) - da quanto emerge dalla lettera Cofide (Compagnia Finanziaria De Benedetti) del 19 febbraio 1991 – si è dunque in un momento successivo alla sentenza corrotta - a Giancarlo Foscale e Oliver Novik (doc CIR B 25), che accompagna la “minuta riunione 18/2/1991”: si può notare come le parti discutano di una possibile valutazione delle azioni oggetto di scambio

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“a prezzi di borsa” (vedi minuta 18.2.1991 a pagina 3), come conferma anche la frase di chiusura della predetta minuta, laddove si evidenzia, come parametro di riferimento del quale tenere conto nell’evoluzione della trattativa, “l’andamento e i risultati della Mondadori, migliorati nel II semestre rispetto al I°…” (cfr doc CIR B 25 ultima pagina).

Che il riferimento a parametri “oggettivi” nella valutazione delle aziende non fosse del tutto escluso dalla trattativa si ricava poi dalle stesse parole di De Benedetti, il quale, in data immediatamente successiva alla riunione del 15 febbraio 1991 (doc CIR B2), scriveva a Berlusconi: "…Permettimi di dirti che ci deve essere qualche equivoco, che i nostri collaboratori troveranno facilmente: non è infatti possibile che due valutazioni che differivano di soli 100 miliardi 6 mesi fa, oggi si siano divaricate di una tale somma malgrado il miglioramento dei risultati e del fatto che si tratta comunque sostanzialmente di una permuta di azioni (penultima pagina della missiva)…; infatti, ”la Mondadori classica (il Gruppo Mondadori cioè con l’esclusione dell’area Espresso/Quotidiani) ha un risultato gestionale quasi doppio dell'area Espresso/Quotidiani. Le attività e le altre partecipazioni della Mondadori classica hanno certamente un valore superiore a quello Espresso/Quotidiani…” (missiva citata pag 3).

Questa Corte, dunque, riservatasi di valutare all’esito se CIR avesse ottemperato al suo onere della prova ed entro quale limite, ha disposto d’ufficio, in data 4.3.2010, CTU collegiale sul seguente quesito: "dicano i CTU, esaminati i documenti già prodotti in causa ed acquisito ogni ulteriore dato necessario ai fini della risposta, tenuto conto del diverso "perimetro" del contenuto della proposta Fininvest 19.6.1990 rispetto a quello della transazione, se e quali variazioni dei valori delle società e delle aziende oggetto di scambio fra le parti siano intervenute fra giugno 1990 e aprile 1991, con particolare riguardo agli andamenti economici delle stesse ed all'evoluzione dei mercati dei settori di riferimento".

Ciò ha consentito, determinati i parametri omogenei per il confronto, di “scorporare” i dati estranei all’illecito e di detrarre gli stessi dagli “sfasamenti” di valore cagionati dalla sentenza “corrotta”. In definitiva, la consulenza tecnica è

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stata disposta al fine di scorporare gli elementi “spuri” nella determinazione del danno prospettato da CIR, come la stessa, del resto, ben comprende in comparsa conclusionale (pagg. 17 segg.).

La CTU permette di offrire una risposta coerente e tecnica alle doglianze di Fininvest sopra indicate (atto di appello pagg. 112 segg. ultimo paragrafo).

A seguito del mandato ricevuto, il collegio peritale depositava in data 24.9.2010 relazione tecnica.

L’elaborato si struttura in due parti; il capitolo primo analizza in un quadro storico come si procedeva nella valutazione delle aziende all’epoca dei fatti, con ciò aderendo all’impostazione suggerita da questa Corte di rapportarsi alla logica valutativa alla quale presumibilmente le parti in causa si erano ispirate.

In particolare, la CTU ricordava la teoria del valore del capitale come si era delineata a partire dagli anni ’80 e come si era perfezionata nei primi anni ’90 e poneva in evidenza il concetto di capitale economico (We) quale punto fondamentale di riferimento, in quanto “espressione di una valutazione generale, razionale, dimostrabile e possibilmente stabile”.

Si proseguiva evidenziando i metodi di stima delle aziende che, nei primi anni 90, consistevano nella considerazione congiunta di aspetti patrimoniali e reddituali, mentre erano meno diffusi nell’Europa continentale i metodi finanziari applicati oltre oceano.

I metodi patrimoniali venivano intesi in due modi, a seconda che facessero riferimento solo ai beni materiali (metodi semplici) ovvero anche ai beni immateriali, dotati di un effettivo o supposto valore di mercato (metodi complessi): il secondo tipo veniva utilizzato per alcuni tipi di aziende e, fra queste, le imprese editoriali. Il metodo patrimoniale assumeva normalmente come punto di partenza il capitale netto di bilancio, per poi prendere in considerazione le immobilizzazioni tecniche, i magazzini, i crediti e le partecipazioni. Puntualizzavano i CTU che per l’aspetto patrimoniale l’attenzione massima nelle aziende editoriali si rivolgeva al cosiddetto “valore della testata”, nel quale il

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valore era legato anche al “fattore di influenza” sulla opinione pubblica. Il tutto veniva bene evidenziato sulla base delle formule che il collegio peritale riportava a pagina 20 e 21 dell’elaborato, alle quali si rimanda.

Si poneva poi in luce che in uno dei casi in esame (AME), ai fini della determinazione del capitale netto rettificato assumeva un certo rilievo il valore dei negozi (punti vendita). Né, nella logica del metodo patrimoniale, si poteva prescindere dall’analisi degli oneri fiscali sulle plusvalenze.

Il Collegio peritale, poi, illustrava il metodo misto, patrimoniale-reddituale, con stima autonoma del “Goodwill” e la verifica reddituale applicata al capitale netto rettificato. Il metodo si basava sulla considerazione che un’azienda poteva valere anche e soprattutto in funzione di quanto poteva rendere in futuro.

Il metodo misto patrimoniale-reddituale era usualmente applicato negli anni ’90: la sua caratteristica essenziale era la ricerca di un risultato finale che considerasse contemporaneamente i due aspetti, così da tenere conto dell’elemento della obiettività e verificabilità proprio dell’aspetto patrimoniale, senza peraltro trascurare le attese reddituali, che erano concettualmente una componente essenziale del valore del “capitale economico”. La verifica reddituale applicata al capitale netto rettificato prendeva in considerazione sia il reddito medio normale (R) sia i tassi di rendimento normale (i).

Evidenzia Fininvest (cfr. comparsa conclusionale alle pagg. 164 e 166) che i due valori sono “sensibili”, in quanto forieri di possibili valutazioni in eccesso o in difetto se non correttamente e prudentemente applicati.

Tale metodo veniva applicato spesso nella formulazione detta “con stima autonoma del Goodwill”, che si basava sulla capitalizzazione del sovrareddito medio atteso.

Secondo l’esperienza nel nostro Paese, evidenziavano i CTU, i tassi di reddito giudicati normali, al netto dell'inflazione (cioè applicati a misure non inflazionate di profitti attesi), venivano nei primi anni novanta (all’epoca dei fatti) identificati per le aziende industriali tra il 6 e il 10%. Ma le grandezze tipiche erano tra il 7% e

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l'8%. Con riferimento all'industria editoriale italiana, tenuto conto delle caratteristiche comparative dell'investimento nel settore, un "intervallo" dal 7 all’8% era considerato accettabile.

L’elaborato proseguiva analizzando i metodi fondati sui flussi ed in particolare il metodo reddituale (pag. 29) ed il metodo finanziario (pag. 43).

L'idea ispiratrice di tutti i metodi reddituali pretendeva che il valore dell'azienda dipendesse unicamente dai redditi che, in base alle attese, essa sarebbe stata in grado di produrre. Questa affermazione, a detta dei CTU, era una regola basilare e di universale accettazione, poiché non vi era dubbio che l'azienda valeva soprattutto in funzione della sua capacità di produrre utili. I metodi in esame ne facevano peraltro il riferimento esclusivo, legando il valore dell'azienda (W) al reddito atteso (R).

Il ricorso alla formula della rendita perpetua era molto frequente ed era la soluzione generalmente preferita ovunque. Tale scelta aveva varie spiegazioni. In primo luogo vi era da considerare che l'azienda era un ente economico destinato, per definizione, a durare nel tempo. Comunque, ponevano in risalto i CTU, l'attribuzione di una durata "probabile" alla vita di un'azienda suscitava difficoltà gravi e spesso insormontabili. Evidenziava il Collegio peritale che nel settore editoriale, per quanto noto, tassi del 7-8% erano all’epoca considerati prevalenti nelle valutazioni reddituali (W).

La CTU dava contezza della considerazione che la teoria attribuiva, tra gli altri fattori, ai premi di controllo ed evidenziava lo “stato dell’arte” a metà degli anni ‘90.

Si dava atto altresì del peso degli “assunti” nella valutazione d’azienda e dell’inevitabilità dell’approssimazione per giungere alla conclusione che, comunque si procedesse (anche con il massimo di competenza, di serietà, d'indipendenza), le valutazioni aziendali non avevano e non pretendevano di avere la precisione delle scienze esatte, né di altre discipline rigorosamente basate su esperimenti scientifici. Le valutazioni aziendali, dunque, erano un insieme di scienza, pratica sul campo, interpretazione del ricercatore (cd. «equazione

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personale»). Esse ammettevano talvolta (come non accadeva per le scienze esatte) risultati alternativi di pari credibilità, né erano mai (o quasi mai) esenti da approssimazioni (pag. 73).

A questo punto è importante visualizzare come i CTU introducevano e chiarivano gli elementi che ponevano a base della risposta al quesito.

Evidenziavano, infatti, i CTU (pag 75) che l’elaborato presentava diverse peculiarità.

1) Faceva riferimento ad un periodo trascorso ormai da 20 anni: da allora la teoria delle valutazioni aziendali aveva percorso molta strada. Sarebbe stata pura illusione condurre la stima cui oggi si era chiamati come se da quel 1990-1991 “molta acqua non fosse passata sotto i ponti”, come se la teoria non avesse compiuto rilevanti progressi, come se i metodi e le conoscenze di oggi non fossero all'epoca in molti aspetti sconosciute. Sarebbe stato perciò errato supporre che nella mente degli operatori del tempo fossero presenti le conoscenze e gli strumenti che ormai sono di dominio comune. Questa circostanza, lungi dal semplificare la ricerca dei CTU, la rendeva più complessa, in quanto li obbligava a “storicizzare” gli strumenti culturali dell’indagine.

2) I prezzi trattati e, in particolar modo, i valori stimati cadevano in un periodo in cui la valuta (la lira) era ancora soggetta ad un discreto grado di variabilità nel tempo. Pur essendo trascorso il tempo in cui si erano raggiunti livelli "pesantissimi" di inflazione, in un ordine di grandezza variabile dal 13 al 24% annuo (periodo 1973-1983), negli anni qui rilevanti il tasso di inflazione aveva oscillato tra il 6,60% e il 5,90% (1989-1991), quindi ancora su livelli significativi.

3) Tra le parti era nato un duro contrasto sul fatto che le stime (variazioni di valore) dovessero riguardare le società/aziende ovvero i pacchetti azionari. Non si trattava di un dettaglio: da ciò poteva dipendere se le variazioni di valore dovessero (o meno) incorporare in qualche modo anche i "premi di maggioranza". La lettura del quesito non lasciava tuttavia dubbi: esso faceva riferimento a società/aziende. Da ciò i CTU si sentivano vincolati.

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4) La ricerca era stata condotta con spirito critico. Quando necessario, erano state percorse vie nuove, adeguatamente illustrate.

5) I CTU avevano dato atto di avere fatto in modo che (oltre al "buon senso") la piena comprensione della gestione aziendale (marketing, tecnologia, strategie, ecc.) non fosse mai dimenticata, con un’applicazione meccanica di processi valutativi (formule, assunti, input) complessi ed articolati, come spesso poteva accadere; con ciò i CTU restavano fermi nel principio per cui “non si valuta in modo credibile un’impresa se non la si conosce e non la si capisce fino in fondo.”

Entrando nel dettaglio della risposta al quesito (“…se e quali variazioni dei valori delle società e delle aziende oggetto di scambio fra le parti siano intervenute fra giugno 1990 e aprile 1991…”), i CTU, al fine di mantenervisi aderenti, evidenziavano che il prezzo che il mercato esprimeva per il capitale di un'azienda in un dato momento andava distinto dalla valutazione esprimibile in quello stesso momento sulla base di criteri razionali o comunque accreditati tra gli operatori. II prezzo era un dato, il valore era spesso un'opinione ed il frutto dell'interpretazione di una realtà complessa (nda: in questa prospettiva evidenzia questa Corte che la produzione documentale di Fininvest relativa ai prezzi delle azioni all’epoca ben può essere un presupposto per l’analisi del valore, ma questa non può considerarsi esaurita in quello). Quando coesistevano (il che non sempre avveniva, poiché erano relativamente poche le aziende che segnavano regolarmente prezzi per il loro capitale) prezzo e valore potevano non coincidere affatto. Ciò accadeva per una serie di ragioni: a) il prezzo dipendeva, ben più del valore, da fenomeni e da forze esterne incontrollabili; b) esistevano vari tipi di prezzo e vari tipi di valore. Quanto ai prezzi, bastava pensare alla quotazione borsistica riferita a modesti quantitativi non influenti sul controllo ed ai prezzi invece applicati alla compravendita di quote di controllo del capitale; quanto al valore, bastava riflettere sulla varietà dei criteri e di metodi applicabili nella sua stima, che potevano condurre a risultati anche notevolmente diversi (nda: si confronti sul punto tutta la lunga premessa sopra articolata); c) i prezzi erano per loro natura (si pensi alle società quotate) volatili, cioè variavano anche senza precise ragioni

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collegabili all'impresa; comunque le loro variazioni non sempre erano spiegabili, mentre i valori variavano, salvo eccezioni, più lentamente e per ragioni direttamente o indirettamente collegabili all'impresa, cioè per ragioni agevolmente spiegabili; d) i prezzi erano largamente influenzati dal modo secondo il quale ragionavano ed operavano, nei vari Paesi, gli investitori.

In sintesi, il prezzo era la risultante di una negoziazione o di una serie di negoziazioni: se esse si verificavano frequentemente (come accadeva per le società quotate) si aveva una serie continua di prezzi nel tempo; in caso contrario, si avevano solo per quantità modeste e non influenti sul controllo; i prezzi delle quote di controllo del capitale venivano poi segnati a lunghi intervalli di tempo e talvolta mai.

Il valore era il frutto di una stima che poteva essere ripetuta quando in qualsiasi momento, ma che di fatto si ripeteva (almeno in alcune versioni) a non brevi intervalli di tempo, in relazione a specifiche esigenze.

La valutazione di un'azienda consisteva dunque nel ricorso a concetti, criteri e metodi atti ad esprimere una misura del capitale dotata nel più alto grado possibile delle seguenti caratteristiche: razionalità, dimostrabilità, oggettività e stabilità.

Il collegio peritale dava atto che nella pratica esisteva una grande varietà di procedimenti di stima, alcuni più affidabili ed altri meno. Era però vero che molto spesso il ricorso a più metodi consentiva di soppesare diversamente i punti di vista diversi, di ottenere un reciproco controllo dei risultati, di fissare il limite di un intervallo (un range) di possibili valori.

Consideravano allora i CTU che “per procedere col necessario ordine, in una grande varietà di opinioni teoriche e di comportamenti concreti, conviene partire da un quadro riassuntivo, che si propone di presentare tutti i metodi di valutazione in uso, distinguendo per ciascuno di essi il concetto-base di riferimento, cioè il principio che lo ispira; sotto questo primo profilo, si possono distinguere: valori di capitale economico, valori potenziali, grandezze dedotte dal mercato o da operazioni di negoziazione, grandezze orientative dedotte dall'esperienza, valore di liquidazione” (CTU pag. 79).

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I Consulenti dell’Ufficio, ciò premesso, in ossequio al quesito (“…tenuto conto del diverso "perimetro" del contenuto della proposta Fininvest 19.6.1990 rispetto a quello della transazione…”), procedevano alla individuazione del “perimetro omogeneo” facendolo corrispondere alla “proposta” del 19.6.1990; tali insiemi di azioni dovevano poi essere oggetto di analisi sulla variazione di valore intervenuta nell’intervallo temporale tra il 19.6.1990 e il 29.4.1991.

Oggetto di valutazione erano cinque importanti società distinte in due gruppi: da una parte Amef ed AME; dall’altra L’Espresso (controllante), La Repubblica (controllata) Finegil (controllata); questo secondo gruppo a volte era denominato AME - CIR.

Esaminando la natura della competizione nel settore dell’editoria negli anni ’90 il collegio peritale tracciava un quadro sintetico delle prospettive del settore giornali/riviste nei primi anni '90 ed osservava che in tutti i paesi più sviluppati dal punto di vista economico, il quadro mostrava un declino lento, ma inesorabile, in termini di circolazione di copie. Come anche in altri campi di attività economica, non mancavano, però, gli imprenditori che erano riusciti ad avere successo nonostante il settore fosse in declino o addirittura in crisi. In Italia era emblematico il caso de la Repubblica. La principale causa del declino era lo sviluppo della televisione. L'efficacia della pubblicità in TV aveva ridotto l'interesse per la pubblicità su giornali/riviste. Inoltre, verso la fine del decennio cominciava ad assumere consistenza il fenomeno di Internet, ma già da alcuni anni era chiaro che la concorrenza del mezzo televisivo avrebbe indebolito la posizione dell’editoria tradizionale. I CTU si chiedevano allora se fosse possibile collocarsi agli inizi degli anni '90 e ricostruire una possibile previsione circa l'andamento del settore nel decennio ed asserivano che un modello in uso in quegli anni (c.d. Modello delle cinque forze) poteva essere d'aiuto.

Si partiva dalla constatazione che nella maggior parte dei mercati sviluppati la circolazione dei giornali a pagamento era diminuita del 2 - 4% l'anno per tutto il

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decennio. Era certo che la tendenza sarebbe continuata. Gli editori avevano preso contromisure, ma nella maggior parte dei casi con poco successo. Lo sviluppo della TV aveva sottratto pubblicità ai giornali. Le imprese avevano cambiato la destinazione delle loro spese in pubblicità. Dai giornali, erano passate alla TV, alla promozione sul punto vendita, ai c.d. “ programmi fedeltà”. Questa forma di marketing "below the line" (espressione per indicare spese diverse dalla pubblicità pagata) era cresciuta più rapidamente della pubblicità tardizionale. Ne era derivata una limitazione dei prezzi e, quindi, della redditività della pubblicità stessa. La tendenza a ridurre le spese in pubblicità aveva cominciato a manifestarsi già negli ultimi anni '80.

I tentativi di arginare il declino erano stati in gran parte senza successo. Soltanto i giornali che avevano saputo creare una "specializzazione", un'immagine distinta, avevano avuto successo.

Ci si poneva allora la domanda di quali strategie fossero state adottate per arrestare o contenere la crisi. La risposta stava nel costruire una comunità di lettori attorno a certe aree di interesse, nel capire il “target” che le imprese volevano raggiungere con la pubblicità, nel cercare di generare ricavi oltre la pubblicità e la circolazione di copie, nel “reinventare il modo di fare giornale”.

I CTU procedevano quindi alla valutazione dell’attrattività del settore nei primi anni ’90; la valutazione muoveva dall’esame di cinque forze, che potevano minacciare la redditività delle imprese operanti in qualsiasi settore e quindi incidere negativamente sull’attrattività del settore stesso: 1) possibilità di prodotti sostitutivi; 2) potere di negoziazione dei compratori; 3) potere di negoziazione dei fornitori (materie prime, lavoro); 4) possibilità di entrata di nuovi concorrenti; 5) grado di rivalità tra le imprese del settore.

I Consulenti acquisivano presso la Borsa Italiana ”l’indice MIB settore Media” per gli anni 1989 – 91, avente periodicità giornaliera. Alla data della Proposta Fininvest (19.6.1990) l'indice era di 1.451; alla data della transazione (29.4.199)

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era di 1.350. Nel periodo che maggiormente interessa esso era diminuito del 7%, avendo raggiunto il minimo assoluto il 30.11.1990 (986, pari al -32%).

Nell'interpretazione di queste informazioni, i CTU ricordavano che il "settore Media" era vasto e comprendeva anche altri settori, oltre a quello editoriale (giornali, periodici, libri e simili).

L’elaborato peritale è stato oggetto di viva censura da parte di Fininvest, che nella comparsa conclusionale (pagg. 162 segg.) lamenta l’insufficienza delle motivazioni, che non sarebbero tali da lasciare comprendere fino in fondo l’iter seguito dai CTU, specialmente in relazione al modo con il quale vengono valutati i fattori “R” (reddito medio normale) ed “i” (tassi di rendimento normale) nel caso di specie, con la conseguenza che l’elaborato non sarebbe coerente né con le “linee guida 2009”, parametro metodologico usato oggi dai valutatori, né con i principi e metodi del 1989, vigenti al momento dei fatti. In particolare, l’appellante Fininvest censura l’elaborato, che si comporrebbe di “sole 19 pagine di relazione” (pag. 160 comparsa conclusionale), evidentemente riferendosi alle conclusioni relative alle aziende valutate in concreto (nda: dopo avere però esposto metodologicamente i principi di riferimento nella parte generale).

Inoltre, l’appellante lamenta omissioni riguardo al momento valutativo, tenuto conto che questo si fonda su un unico criterio (pag. 169 conclusionale), non prende in considerazione l’utilizzo di metodologie di riscontro e di controllo (pag. 171) e non sviluppa analisi di sensibilità o di scenario (pag. 175), cosicché l’elaborato è pervenuto a conclusioni prive delle essenziali e necessarie fondamenta.

Osserva la Corte che Fininvest non tiene conto che le premesse della CTU sono parte fondamentale per l’elaborazione e la motivazione delle conclusioni finali riferite alle singole aziende oggetto di valutazione. Infatti, pur nella onestamente dichiarata approssimazione del momento valutativo, che non può essere considerato come frutto di una “scienza esatta” (ma ciò vale per tutte le valutazioni da chiunque effettuate), la CTU presenta elementi metodologici corretti in quanto, applicata al caso concreto la miglior scienza valutativa disponibile (e ciò si osserva

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in risposta a quanto dedotto come censura da Fininvest a pag. 164 e segg. della comparsa conclusionale), comparati i vari metodi vigenti fra gli operatori nella loro evoluzione storica, tiene conto - aderendo al suggerimento di questa Corte nella formulazione del quesito (con ciò fornendo coerente risposta a tutte le parti dello stesso, a differenza di quanto ritenuto da Fininvest a pag. 176 della comparsa conclusionale) - del presupposto delle allegazioni attoree determinate dalla domanda di risarcimento del danno rapportandosi ai due momenti indicati (proposta Fininvest e transazione definitiva); l’elaborato, poi, considera le dinamiche valutative vigenti all’epoca dei fatti, con ciò dando la possibilità alla Corte di seguire il percorso svolto da ciascuna delle parti nel determinare i valori al 19.6.1990 ed al 29.4.1991.

Così facendo, si fornisce risposta anche alla considerazione, invero generica, di CIR (cfr. comparsa conclusionale pagg 25 segg.) per cui “la determinazione delle condizioni economiche della transazione dell’aprile 1991 seguì una logica del tutto differente da quella strettamente economica ed aziendale, come del resto è normale che sia nella trattativa riguardante la spartizione di un importante gruppo editoriale nella quale era in gioco il controllo di primari mezzi di informazione…”: infatti, l’indicazione da parte dei CTU di parametri specifici, comprensivi tra l’altro della importanza del ruolo non solo economico ma anche sociale della carta stampata, permette di dare contenuto concreto e riscontro agli appunti del più volte indicato dalle parti “quaderno a quadretti” di Ciarrapico (cfr. deposizione resa in primo grado all’udienza 18.6.2007, dove il predetto dichiarava di essersi rifiutato di esaminare qualunque dato economico, essendosi limitato ad annotare le reciproche pretese delle parti sul “quaderno a quadretti”), nonchè alle valutazioni del dott. Borghesi di CIR (“minuta riunione 18.2.1991”) e dell’ing. De Benedetti (espresse nella lettera del 19.2.1991, doc. CIR B 2), con le quali si lamentava il ruolo “prevaricatorio” svolto da Fininvest nelle trattative dopo la sentenza della Corte d’Appello di Roma.

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La differenza di valori degli assetti azionari ai due momenti consente dunque di imputare alle dinamiche analizzate la differenza “oggettiva”, cosicché la Corte la possa scorporare dalla plusvalenza pagata da CIR, distinguendola cioè (come correttamente rilevato dalla predetta in comparsa conclusionale, pagg. 17 segg.) dalla parte imputabile, per quanto sopra detto, all’effetto perverso della sentenza corrotta.

Il metodo di analisi seguito dai CTU è, pertanto, corretto e questa prima, provvisoria conclusione deve essere ora verificata con l’analisi in dettaglio delle singole doglianze di Fininvest, esposte alle pagg. 182 e segg. della comparsa conclusionale e già contenute, in verità, nella nota del 5.10.2010 di commento alla CTU.

Orbene, entrando nello specifico del quesito, evidenziava il Collegio dei CTU che la "variazione di valore" tra il 29.6.1990 e il 19.4.1991 delle società interessate al calcolo (AME, AMEF, l'Editoriale la Repubblica, Finegil, L'Espresso) era stata rilevata ed analizzata utilizzando come strumento di calcolo, il cd. "modello", mediante il quale erano stati applicati metodi, assunti, input, com'erano in uso all'epoca, ponendo attenzione a che fossero evitate, ipotesi tutt'altro che astratta, "duplicazioni di valore" derivanti dalla struttura dei Gruppi con molteplici intrecci societari e dai rapporti fra società controllanti e società controllate.

Ricordava il Collegio peritale, inoltre, che le valutazioni d'azienda contenevano sempre una scelta sul "peso" da attribuire alle pure "formule" (che erano in parte convenzioni) ed alle conoscenze sostanziali, tradotte nel concetto più volte ribadito: "non si può valutare un'azienda se non la si conosce a fondo" (e ciò significa anche mercati, tecnologia, strategie, organizzazione, talvolta quotazioni di Borsa, ecc.). I "pesi" attribuiti ai due aspetti dovevano essere opportunamente bilanciati.

Il "modello" (integralmente riportato nell'Allegato interno I, completo di calcoli) conduceva ai risultati espressi dal Quadro 6 (sotto visualizzato). Esso elencava le "variazioni di valore" di ciascuna società interessata, in valore assoluto (L/mld) e

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in valore percentuale (%), nonché le variazioni delle quote di partecipazioni. Il risultato complessivo della "variazione di valore" delle quote - che costituiva il risultato finale - era 86,3 L/mld.

Gli allegati esponevano una ricostruzione puntuale di tale importo complessivo: per chiarezza e maggior dettaglio, è opportuno riportare il quadro 6 come elaborato dai CTU.

Quadro 6 - Variazioni di valore tra il giugno 1990 e l'aprile 1991

Giugno 1990 Aprile 1991

Variazione di valore Assoluta %

Quota di partecipazione %

Variazione di valore della quota

Repubblica

567,8 617.0

49,1 8,7%

50,0%

24,6

Fìnegil

200,7 224,1

23,4 1 1,7%

50,0%

11,7

Espresso

518.2 536,9

18.7 3,6%

51,9%

9,7

AME

1.346,8 1.271,2

-75,6 -5,6%

48,6%

-36,7

AMEF

467,6 453,2

-14,4 -3,1%

24,6%

-3,5

Totale

863

In relazione alla ricordata, inevitabile approssimazione di questa valutazione, va detto però anche che i CTU hanno sottolineato - e ciò conforta particolarmente questa Corte circa la serietà e la “bontà” del modo di analisi utilizzato - di concordare su tale risultato aggregato anche all’esito di percorsi valutativi diversi, effettuati modificando l'entità dei singoli addendi: così facendo si era riscontrata comunque una sostanziale corrispondenza del risultato finale complessivo.

Tale approccio metodologico offre una risposta soddisfacente all’obiezione di Fininvest, che lamentava l’”insufficienza” del modello valutativo adottato, sotto i molteplici aspetti sopra evidenziati.

In particolare, la Corte evidenzia che l’analisi condotta dal Collegio dei consulenti dell’ufficio fornisce una puntuale risposta alle doglianze di Fininvest, nella parte in cui questa lamentava che il Tribunale, nel determinare il danno, non avesse, quantomeno, supposto l'esistenza di "spiegazioni alternative" delle differenze riscontrate: la CTU provvede proprio a fornire una risposta tecnica adeguata e motivata alle censure di Fininvest, accogliendone in parte le ragioni.

Entrando nel dettaglio delle critiche mosse alla CTU, si evidenzia che in relazione all’apparente dilemma tra la valutazione delle società/aziende ovvero

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quella dei pacchetti azionari, le parti, nelle loro memorie, si confrontavano sulla circostanza che oggetto del quesito fosse la stima dei valori delle aziende/società (come sostenuto da CIR), ovvero dei pacchetti azionari oggetto di spartizione (come affermato da Fininvest). L'argomento era – in tesi – rilevante, in quanto da tale scelta dipendeva se le valutazioni dei CTU (ai fini della variazione di valore tra giugno '90 e aprile '91) dovessero o meno tenere conto dei "premi di controllo". Su questo punto, i CTU si erano già espressi nel senso (punto 3 del § 2.1) di riferirsi alle società/aziende e non ai pacchetti azionari, in quanto la lettera del quesito non lasciava dubbi e da ciò i CTU erano vincolati. Intendendo peraltro interpretare la “ratio” del mandato ricevuto (e guardando alle "altre informazioni dedotte dalle Consulenze tecniche di parte"), i CTU riconoscevano che sul piano formale gli scambi tra Fininvest e CIR erano avvenuti per "pacchetti azionari" e che quindi, in teoria, il tema dei "premi di controllo" aveva senso.

E tuttavia i CTU, in ogni caso, affermavano che il problema della misura del "premio di controllo" era, purtroppo, arduo e molto complesso; inoltre, le opinioni degli studiosi sull’argomento erano molto variate nel tempo, come risultava da quanto precedentemente detto (1° Capitolo, § 1.11). Come già riferito dagli stessi consulenti d’ufficio, sul piano delle misure dei "premi" (di "maggioranza"? di "acquisizione del controllo"?) lo "stato dell'arte" a metà degli anni '90 era estremamente variegato ed incerto nelle soluzioni. In quelle condizioni, l'opinione collegiale dei CTU era che sia la conferma delle grandezze prospettate dai CT di Fininvest e ancor più un’eventuale proposta di grandezze elaborate dai CTU, fosse comunque inopportuna.

Questa Corte - nell’evidenziare ancora una volta che l’elaborato nelle sue risposte è completo e che la parte conclusiva e specifica è corroborata dai criteri e dagli argomenti esposti nella parte generale – ritiene che la soluzione offerta dai CTU non può essere confermata solo con il rilievo formale che il quesito faceva riferimento ai “valori delle società e delle aziende” e non già a quello dei pacchetti azionari: la Corte ha inteso procedere alla valutazione delle aziende in sé in quanto

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l’oggetto sia della “proposta” del 19.6.1990 sia della transazione era non già il trasferimento di quote azionarie di minoranza, ma, sempre, del controllo di società/aziende, pur esprimendosi i valori proposti e pattuiti con riferimento a quello delle azioni oggetto di cessione: tutta l’operazione era pacificamente finalizzata all’acquisto del controllo su AME ed AMEF da una parte e su L’Espresso, la Repubblica e Finegil dall’altro.

Così inquadrata la questione, si risolve in radice il problema sottoposto dalle parti ai CTU, nel senso che quel che rileva ai nostri fini è la “differenza” tra i valori del giugno ’90 e dell’aprile ’91, valori in entrambi i casi già comprendenti univocamente il controllo delle diverse società.

In definitiva, a questa Corte preme considerare che, se è vero che gli scambi avvennero per pacchetti azionari, il tutto era inteso però – data l’entità dei pacchetti - al possesso delle aziende ed al potere di controllo sulle stesse, con la conseguenza che il valore delle aziende–società, come valutato dai CTU in modo analitico e dettagliato nei termini sopra indicati (cfr. elaborato pag. 62, Capitolo 1, § 1.11), include anche il dato economico del premio di controllo, valore che anche i prezzi delle azioni, sia proposti nel giugno ’90 che pattuiti nell’aprile ‘91, già empiricamente contenevano “pro quota”.

A fronte del complesso elaborato, con note alla CTU in data 5.10.2010, riprese poi in comparsa conclusionale (pagg. 182 segg), Fininvest svolgeva otto richieste di chiarimenti al collegio peritale, sulle quali questa Corte forniva già sintetiche risposte con ordinanza riservata, escludendo la necessità di disporre un supplemento di perizia, ancora oggi sollecitato, ma non necessario, come ci si accinge a dire nello specifico.

Prima di procedere alla puntuale analisi delle censure/richieste di Fininvest, sono tuttavia opportune due premesse. La prima è che il quesito rivolto ai Consulenti dell’Ufficio riguarda, come si è letto, le “variazioni” di valore tra due determinate (e piuttosto ravvicinate) date, non la stima di determinati valori ad un’unica data: è dunque evidente che le critiche concernenti l’uno o l’altro dei parametri di stima

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adottati dai CTU non attinge, se non indirettamente e secondariamente, la finalità della consulenza. Trattandosi di accertare delle variazioni, ciò che più conta, infatti, è l’omogeneità dei criteri di stima alle due date: e, sul punto, ovviamente, nessun rilievo viene sollevato. La seconda premessa è che tutte le singole critiche di cui subito si dirà sono state oggetto di un amplissimo contraddittorio tecnico: si tratta dunque di argomenti già tutti sottoposti ai Consulenti dell’Ufficio, i quali li hanno, esplicitamente od implicitamente, tenuti in considerazione prima di formulare le loro conclusioni.

Entrando nel dettaglio, si osserva che nel primo punto l’appellante Fininvest lamentava che, nonostante il quesito della Corte d’Appello, prescrivesse ai CTU di accertare se e quali variazioni dei valori delle società e delle aziende oggetto di scambio fossero intervenute tra giugno 1990 e aprile 1991 "con particolare riguardo agli andamenti economici delle stesse ed all'evoluzione del mercati dei settori di riferimento", nella CTU non si rinveniva alcuna analisi, e ciò a fronte delle puntuali valutazioni fatte dai CT di Fininvest sia nella relazione del 30.4.2010 che in quella di replica: l’appellante chiedeva, pertanto, di invitare i CTU ad integrare i paragrafi 2.1 – 2.5 (pagg. 75 – 93), tenendo conto dell’”andamento economico delle aziende e società oggetto di scambio”, nonché dell’”evoluzione dei mercati di riferimento” e precisando gli effetti che ne derivavano sui valori oggetto di stima.

Rileva questa Corte che la CTU, per giungere alle sue determinazioni, ha per l’appunto tenuto conto dei due fattori indicati, come risulta dall'analisi sviluppata ai § 2.4 e 2.4.1 della relazione peritale (pagg. 82-91). L'esito dell'analisi condotta si è risolto nella scelta del tasso di rendimento medio normale atteso (i), come detto alle pagine 26 e 75-76 della relazione.

In particolare, alla pag. 26 si legge "...si ricorda che il tasso di rendimento normale (i), applicato al capitale netto rettificato, esprime una misura di rendimento giudicata soddisfacente, tenuto conto del grado di rischio che il settore e l'azienda incontrano." Alle pagine 75-76 poi si afferma: "abbiamo fatto in modo che (oltre al

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buon senso) la piena comprensione della gestione aziendale (marketing, tecnologia, strategie, ecc.) non fosse mai dimenticata; cioè non risultasse mai "schiacciata" dai processi valutativi (formule, assunti, input) complessi ed articolati, come spesso può accadere...”. Può anzi notarsi – ma lo si è già detto nel riferirla - che in realtà tutta la consulenza è permeata dalle valutazioni circa l’andamento economico e l’evoluzione dei mercati di riferimento.

Considera, pertanto, questa Corte che, pur nella delicatezza della scelta, un addebito che sicuramente non può essere mosso al collegio peritale, per tutto quanto sopra si è letto, è quello di avere sottovalutato un qualche fattore o parametro rilevante ovvero di non avere fornito una adeguata e trasparente motivazione (con riserva di meglio precisare in ordine al fattore “i”, allorché di seguito si esamineranno i punti 4 e 8).

Per quanto riguarda il secondo motivo di doglianza, ripreso in comparsa conclusionale alle pagg. 186 e segg, Fininvest considerava (v. in particolare, comparsa conclusionale a pag. 189 e segg.) che con riferimento alla stima del Reddito Normalizzato ("R") relativo alle società oggetto di valutazione, i CTU si limitavano ad evidenziare che il valore di “R” usato al fine del calcolo del Goodwill/Badwill veniva sottoposto ad una verifica di sostenibilità, di contenuto sostanziale, per la Repubblica e AME" (lettera “i” pag. 108), ma di tale analisi, riguardante la "verifica di sostenibilità" della variabile “R”, non era riportato alcun dettaglio nella relazione dei CTU (né con riferimento a la Repubblica, né con riferimento ad AME); né, più in generale, erano esplicitati i criteri ed i calcoli utilizzali per la stima della variabile “R”. Fininvest riproponeva quindi i calcoli e le analisi effettuati dai propri consulenti (ovviamente già valutati dai CTU).

Considera la Corte che la normalizzazione del reddito da utilizzare ai fini della stima, così pervenendo al reddito medio normale, è procedura necessaria al fine di eliminare dai risultati esposti nei bilanci di riferimento le risultanze legate a fatti congiunturali, che nulla dicono sulla stabile capacità reddituale dell'azienda. Di tale questione si tratta nella Relazione peritale sia alla pag. 27 sia alle pagine 31-33. In

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particolare, alla pag. 27 viene detto: "nella scelta del valore da attribuire al reddito medio normale (R), ci si attiene alla capacità reddituale effettivamente dimostrata dalle società interessate…Due esempi significativi sono: per gli utili d'esercizio la "sostenibilità", cioè che “R” medio (o medio normale) assunto nel calcolo si mantenga con verosimiglianza lungo tutto il periodo di “n” anni di calcolo del Goodwill; la "transitorietà" della perdita, dovuta a cause occasionali e che è improbabile possa protrarsi per tutti gli anni di durata convenzionale del Badwill...".

Ciò significa che, come insegnano i manuali di economia, la determinazione del reddito medio normale, in definitiva, si riduce a due principali momenti:

1) l'eliminazione dal risultato esposto nei bilanci di esercizio delle componenti aventi carattere di instabilità, essendo legate ad accadimenti non ricorrenti e a scelte di politica di bilancio. Principalmente si tratta, nell'un caso, di componenti straordinarie di reddito registrate nell'anno (plus/minusvalenze, sopravvenienze attive e/o passive) e, nell'altro caso, di ammortamenti stanziati in eccesso rispetto a quanto la deperibilità e il rischio di obsolescenza delle immobilizzazioni tecniche di per sé richiederebbero. Orbene, considera questa Corte che pretendere che l'eliminazione di tali componenti sia sovrintesa da formule di carattere matematico è una attesa impossibile; la valutazione si affida, come ben espresso sotto il profilo metodologico in tutto il contesto peritale, non tanto ad una mera scelta discrezionale da parte del perito, quanto piuttosto alla razionalizzazione di dati consistenti in semplice e prudente applicazione di elementare tecnica valutativa, basata sui dati di bilancio e sugli elementi informativi di fatto dei quali si dispone. Né, del resto, Fininvest tramite i suoi consulenti fornisce elementi di “controllo” ulteriori e più significativi rispetto alla considerazione dei CTU che, a pagina 82 dell’elaborato, evidenziano nello specifico della situazione la peculiarità della quale mostrano di tenere conto e cioè che, rapportandosi a quel momento storico, ”in tutti i paesi più sviluppati dal punto di vista economico, il quadro degli anni '90 è un declino lento ma inesorabile in termini di circolazione di copie. Come avviene in ogni settore non mancano esempi di editori che sono

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riusciti ad avere successo nonostante il settore fosse in declino o addirittura in crisi: in Italia l’esempio è Repubblica…”

2) L’altro elemento che deve essere considerato in relazione al fattore “R” è la valutazione della stabilità, nel prossimo futuro rilevante ai fini della stima, della capacità di reddito come sopra quantificata. Si tratta, in sintesi, di accertarne la "sostenibilità" nel breve-medio termine. La "sostenibilità" di cui si discute risulta da un giudizio che l'esperto deve comporre con riguardo alla concreta possibilità per l'azienda oggetto di stima di reiterare la propria “performance”, in considerazione della sua robustezza patrimoniale, imprenditoriale e manageriale, nonché delle dinamiche competitive in atto. Tale giudizio viene ad essere integrato dalla scelta di una appropriata misura del tasso di rendimento normale attribuibile al settore in cui l'azienda opera, in considerazione della rischiosità che gli è propria.

Considera questa Corte che tali dati sono evidenziati, come sopra si è visto, nell’elaborato peritale e vengono presi dunque in considerazione dai CTU. Il giudizio di sostenibilità del reddito medio normale risulta in definitiva da valutazioni e scelte che l'esperto deve effettuare in base a tutto ciò che gli è dato di conoscere dell'azienda oggetto di stima che, nel caso di specie, implica il ricorso a considerazioni e valutazioni relative a situazioni ed accadimenti in essere oltre 20 anni addietro. Si tratta, considera questa Corte, di giudizio non assoggettabile a dimostrazioni meramente quantitative. Nello specifico, si evidenzia che nell'Allegato interno 1 (da pagina 106 a pagina 128 - che i CTU dichiarano essere parte integrante della perizia: vedi pagina 104) - viene precisata la misura del reddito medio normale assunto ai fini delle diverse stime, mentre in più parti della Relazione viene indicata la misura prescelta del tasso di rendimento normale da utilizzare nei calcoli, il tutto rapportandolo al momento rilevante per i fatti di causa. Segnala, in particolare, questa Corte che, per la Repubblica, a pagina 109 – 110 si indica il valore numerico di “ i ” (8%), nonché di “R” (che varia in progresso dal 1990 al 1991 stante l’assunto sopra indicato).

Né, infine, si può tacere che comunque i CTP di Fininvest, in definitiva, non forniscono elementi più “oggettivi” di quelli utilizzati dai CTU e fin qui apprezzati.

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Fininvest lamentava poi l’incongruenza delle determinazioni dei CTU che avevano considerato, relativamente alla valutazione de La Repubblica ad aprile 1991, un andamento economico positivo della società ed un Badwill (avviamento negativo). Considera questa Corte che trattasi di una incongruenza solo apparente, dal momento che i due elementi possono ben convivere in una valutazione concreta: nel formulare il rilievo viene, infatti, trascurato di considerare che, pur se l'andamento della gestione aziendale era positivo, la misura del capitale economico che essa avrebbe dovuto remunerare era significativamente aumentata (anche per effetto dell'accresciuto valore della testata giornalistica), tanto da rendere ancora una volta insufficienti i redditi generati, che così davano luogo al lamentato avviamento negativo.

Quanto affermato risulta dal riferimento al metodo misto patrimoniale-reddituale applicato nelle stime, ampiamente illustrato alle pagg. 24-27 della relazione peritale. Esaminando i dati ed i calcoli esposti alle pagine 109 e 110 della relazione, mediante i quali viene effettuata la valutazione de la Repubblica nel 1990 e nel 1991, si può agevolmente rilevare come: a) la misura del patrimonio netto rettificato complesso (K) aumenti nel 1991 a lire mld. 648, mentre nel 1990 risultava essere pari a lire mld. 619,1; ciò avviene anche per effetto dell'accresciuto valore netto attribuibile alla testata, che nel 1991 risulta valutata in lire 580,7 miliardi contro i 562,5 miliardi di lire dell'anno precedente; b) il reddito medio normale (R) sia anch'esso aumentato nel 1991 rispetto al 1990, passando da 30 a 40 miliardi di lire; c) si deve tuttavia osservare come, poichè la redditività normale (i") è sempre pari all' 8%, nei due anni in esame – perché risulti assicurata sufficiente remunerazione al capitale investito nel patrimonio dell'azienda - il reddito di esercizio avrebbe dovuto essere almeno pari a lire mld. 51,8 nel 1991 e a lire mld. 49,5 nell'anno precedente; d) poichè il reddito medio normale accertato per i due esercizi (lire mld. 30 nel 1990 - lire mld. 40 nel 1991) risulta essere sempre inferiore alla misura che nei due esercizi avrebbe dovuto raggiungere per assicurare la necessaria remunerazione al patrimonio, pur in presenza di andamento economico positivo (significativi utili in entrambi gli esercizi, peraltro in aumento),

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si dà necessariamente luogo ad un avviamento negativo (Badwill nel testo della relazione), che in misura decrescente interessa però entrambe le stime.

In terza istanza (v.comparsa conclusionale a pagg. 182 e segg.), Fininvest, con riferimento alle valutazioni di giugno 1990 dei quotidiani (la Repubblica e Finegil), lamentava che i CTU avessero rettificato il fatturato diffusionale 1989 per tenere conto dell'aumento del 20% del prezzo dei quotidiani intervenuto nell'agosto 1990, sull'implicito assunto (non motivato e contrario alle produzioni di Fininvest) che a giugno 1990 tale futuro aumento fosse già noto alle parti. Pertanto, Fininvest chiedeva di invitare i CTU “a precisare quali sarebbero stati gli effetti sui valori... se alla data del 19.6.1990 non fosse stato conosciuto o prevedibile ... l'aumento del prezzo dei quotidiani".

Orbene, evidenzia questa Corte che i contendenti erano operatori qualificati del settore editoriale e bene introdotti anche nell’ambiente politico ed economico, come sopra si è visto. Bene hanno fatto dunque i CTU a rettificare il fatturato diffusionale dei giornali quotidiani per tener conto dell'aumento del loro prezzo di vendita intervenuto a partire dall'agosto del 1990, considerando il fatto che detto aumento era fenomeno annunciato, ampiamente previsto, due mesi prima, dai soggetti interessati al settore: com’è noto, quell’aumento è stato deliberato, non certo ex abrupto, dalla Federazione Italiana Editori Giornali, della quale erano autorevoli membri le stesse parti in causa, all’esito, com’è normale, di informali e prolungate negoziazioni con i soggetti interessati.

Nel rilievo quattro Fininvest lamentava che con riferimento al tasso di rendimento "normale" (“i”) applicato al capitale netto rettificato (“K”), i CTU avevano osservato a pag. 26 che "secondo l'esperienza del nostro Paese, tassi di reddito giudicati normali, al netto dell'inflazione (. . .), venivano nei primi anni novanta identificati per le aziende industriali tra il 6 e il 10%. Ma le grandezze tipiche erano tra il 7 e 8%”. Nella nota c) di pag. 108 i CTU avevano evidenziavato che tale parametro era stato assunto nella misura dell'8%, senza alcuna specifica motivazione. Precisava Fininvest che gli stessi CTU avevano segnalato, a pag. 8, che nelle valutazioni dell'epoca l'individuazione dei parametri (ritenuti dai CTU "assunti sintetici o "pesanti" ma

231

all'epoca non giudicati tali") si basava su "scelte imitative". Orbene, dalle perizie acquisite agli atti della CTU (ed aventi per oggetto le stesse aziende oggetto di stima) “emergeva che i tassi per esse utilizzate erano ricompresi nel range 6%-10% indicato come corretto dai CTU e presentavano una differenziazione tra quelli applicati per la valutazione di aziende editrici di quotidiani (5-6%) e quelli applicati per la valutazione di aziende editrici di periodici (7 – 8%)”.

Per quanto concerneva poi il numero di anni di attuazione (“n”) di sovra/sotto reddito, ai fini della determinazione dell'avviamento, Fininvest puntualizzava che "per quanto attiene alla durata del periodo in cui si stima che si manifestino i flussi di reddito differenziali (“n”), il dato accolto viene modulato a seconda che si abbia a che fare con un sovra reddito od un sottoreddito, come spesso indica la dottrina. Nel primo caso vengono utilizzati periodi tra 5 e 10 anni (Goodwill); in presenta di sottoredditi, la grandezza utilizata è di 3-5 anni..."

Nelle note di pag. 108 i CTU, come indicato da Fininvest, evidenziavano che il Goodwill-Badwill era stato calcolato ipotizzando un orizzonte temporale del sovra/sotto reddito di 3 anni (Badwill) e 5 anni (Goodwill), ovvero gli estremi degli intervalli indicati dalla dottrina alla quale si riferivano gli stessi CTU: evidenziava Fininvest che in alcune perizie dell’epoca per le società oggetto di stima venivano utilizzati parametri diversi da quelli utilizzati dai CTU.

Nel rilievo otto, caratterizzato dalla stessa matrice di quello sopra indicato, Fininvest lamentava che le valutazioni operate dalla CTU relativamente a la Repubblica, L’Espresso e Finegil erano profondamente diverse da quelle alle quali era pervenuto all’epoca il professor Saita e dai prezzi contenuti in una OPA del 1990 ed in una OPV del 1991.

Si aggiungeva in comparsa conclusionale (pag. 191) che “tra i documenti delle parti nell’ambito della CTU vi è la perizia del 7 giugno 1991 redatta dal prof. Guatri ai fini della determinazione del rapporto di cambio in occasione della fusione per incorporazione di AME in AMEF…redatta in una data prossima a quella

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dell’accordo del 29.4.1991. Tale perizia, senza motivazione alcuna, non è stata soprendentemente considerata dai CTU.”

In relazione ai rilievi quattro ed otto, quindi, Fininvest chiedeva “di invitare i CTU a precisare, ad integrazione delle considerazioni contenute alle pagine 26-27 e nei punti c) e d) a pag. 108, quali siano i risultati delle loro valutazioni assumendo i parametri utilizzati nelle perizie dell'epoca... effettuando l'analisi di sensitività" (punto quattro). Chiedeva inoltre “…di invitare i CTU a precisare quali sarebbero i risultati di tali stime assumendo i valori desunti e desumibili (...) dalle perizie redatte all'epoca.... " (punto 8).

Evidenzia questa Corte, innanzitutto, che i parametri numerici relativi ad “i“ appaiono congrui con le premesse poste dagli stessi CTU (si collocano proprio nel range) e sono giustificati dagli “assunti” indicati nell’elaborato. Valga in proposito una considerazione: se, eventualmente sull'onda di scelte "imitative" allora frequenti (Relazione, pag. 8 e nelle Note nell'interesse di Fininvest, pag. 6), secondo i documenti peritali che si vorrebbe fossero presi a riferimento, era stato ritenuto che l'attività editoriale nel settore dei quotidiani fosse limitatamente rischiosa (essendo stato assunto un tasso di redditività normale pari al 6%), i CTU, alla luce dell'evoluzione competitiva che interessava il comparto, di cui si è trattato a commento del rilievo n. 1, hanno invece concluso motivatamente per una rischiosità superiore, espressa dalla misura dell'8% attribuita a detto parametro.

Ciò detto, appare pretestuoso richiedere di accertare a quali risultati di stima (che del resto sono in atti) si sarebbe pervenuti assumendo parametri utilizzati in perizie in allora redatte da altri esperti (Saita) e comunque in altri contesti (da Guatri che è pur sempre soggetto diverso dal collegio peritale in sé come sopra costituito e sinergicamente operante), nulla spiegando l’assunto di Fininvest secondo il quale “i valori stimati (da quegli esperti e valorizzati dai CTP): 1) sono provvisti del requisito dell’oggettività; 2) sono caratterizzati per il non essere in alcun modo influenzati dalle vicende da cui ha tratto origine la presente CTU…” (così comparsa conclusionale Fininvest, pag 191). Come se – sembra di comprendere - le stime dei CTU non fossero “oggettive” o

233

fossero impropriamente “influenzate” dalla vicenda di causa: la consulenza merita invece di essere ampiamente valorizzata alla luce delle caute valutazioni tecniche in essa contenute, della prudenza nella gestione degli “assunti” e dello “sforzo” metodologico di procedere alla valutazione sulla base di presupposti omogenei ed aderenti alla realtà delle singole aziende esaminate.

Per quanto atteneva al punto cinque, Fininvest lamentava però che, a pagina 79, dopo avere trattato in astratto della controllabilità dei metodi di stima, nella nota b) di pag. 108 i CTU rilevavano che nel caso di specie "è stato utilizzato per tutte le società il metodo misto patrimoniale/reddituale con le eccezioni rilevanti di AMEF e Finegil (in quanto holding pure). Per queste ultime è stato utilizzato il metodo patrimoniale", e pertanto chiarivano di non aver usato alcun metodo di controllo dei risultati raggiunti in tal modo. In particolare, pur attribuendo al "metodo dei multipli" la funzione propria dei metodi di controllo, i CTU, a detta di Fininvest, affermavano incongruamente (a pag. 52) che nel 1990-1991 tale metodo era "'semisconosciuto (e noto solo nelle strette cerchie accademiche)", fondando prevalentemente il loro operato sull'analisi del "certificato peritale di Borsa" nel periodo 1989-1995 riportata nel Quadro 4 del loro elaborato (pag. 53 della CTU). L'affermazione dei CTU, a detta di Fininvest, “non teneva tuttavia conto della circostanza, documentata in atti (?), che le stesse parti Fininvest e CIR utilizzavano all'epoca il metodo dei multipli impliciti per verificare la coerenza interna dei valori attribuiti durante la negoziazione ai due diversi perimetri oggetto di scambio (AME CIR e AME Classica)”. Inoltre, il metodo dei multipli era già utilizzato dal professor Saita.

Considera questa Corte che già le affermazioni di Fininvest contengono la risposta ad alcune doglianze: per AMEF e Finegil non era stato utilizato il metodo misto patrimoniale/reddituale in quanto queste erano holding pure.

In relazione al metodo valutativo utilizzato, i CTU bene hanno fatto, fedeli al mandato ricevuto e con l’accordo dei consulenti di parte (verbale riunione 23-3-2010), a rapportarsi ai metodi valutativi all’epoca più utilizzati: si evince dagli atti

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(si veda il “quadro 4”, relativo al periodo ’89-’95: i primi “multipli” significativi appaiono solo nel ’94) la sostanziale inesistenza in quegli anni di stime composte con esclusivo riferimento ai multipli. Risulta, insoma, esatta e ben documentata la conclusione - dopo quanto esposto nella relazione peritale (par. 1.9, pag. 51-52) – cui giungono i Consulenti a proposito del ricorso ai multipli: "fino a quel momento (1994) la pratica professionale conosceva ben poco, nella sostanza, la materia. Ciò dà il senso di quanto poco contasse, nel 1990-1991, quel metodo semisconosciuto (e noto solo nelle strette cerchie accademiche)".

Tali motivate considerazioni, delle quali questa Corte non ha motivo di dubitare anche alla luce dell’autorevolezza e dell’esperienza del consesso peritale, giustificano e rendono apprezzabile il metodo utilizzato dai CTU, a prescindere dal fatto che esso fosse noto ad un singolo accademico, dall’analisi del quale i CTP di Fininvest espungevano le conclusioni più favorevoli evidenziate in comparsa conclusionale a pagina 232.

Quanto, poi, al rilievo sei, Fininvest lamentava che i CTU avessero proceduto alla valutazione delle società senza tenere conto di quanto previsto dall’articolo 5 dell’Accordo, che stabiliva che le compravendite dovevano intendersi “con diritto all’acquisto di dividendi deliberati o posti in pagamento dall’1.1.1991” (e quindi esclusi gli acconti di dividendo pagati anteriormente alla stessa data). Chiedeva pertanto di invitare i CTU ad integrare quanto affermato ... precisando gli effetti sui valori oggetto di loro stima ove si tenesse conto dell'attribuzione dei dividendi prevista dall'art. 5 dell'Accordo 29.04.1991.

Queste Corte evidenzia che nella Relazione si è precisato [punto g), pag. 108] che "nella determinazione del patrimonio netto contabile sono stati dedotti (o aggiunti per il percipiente) i dividendi deliberati", dopo aver precisato al precedente punto a) nella stessa pagina, che "le elaborazioni prescindono dagli effetti dell'accordo finale tra le parti (dividendi ed eventualmente altro)". Si tratta di una scelta esplicita operata dai CTU (a fronte delle contrapposte opinioni dei Consulenti di parte), che appare non solo motivata, ma evidentemente finalizzata ad “omogeneizzare” in concreto, anche in tema

235

di divedendi, le valutazioni alle due date (si ricordi che fine della consulenza era l’individuazione delle “variazioni”).

Infine, per quanto riguardava il rilievo sette, ripreso in comparsa conclusionale a pagg 214 e segg., Fininvest ribadiva che i CTU avevano affermato a pag. 75 ed a pag. 100 di "sentirsi vincolati” dalla circostanza che il quesito faceva riferimento alle società/aziende e non ai pacchetti azionari oggetto di scambio. Su questo punto i CT di Fininvest si erano diffusamente soffermati, in particolare alle pagg. 7-9 della Relazione del 30.4.2010 ed alle pagg. 7-9 della replica del 21.5.2010. A fronte di ciò il paragrafo iniziale della CTU "la variazione di valore" (pag. 3 dell’elaborato) introduceva la relazione con la seguente affermazione: "La Consulenza Tecnica d'Ufficio risponde al quesito posto dalla Corte d'Appello, sezione seconda, misurando in complessivi 86,3 L/mld totali (pari a 44,5 €/mil) la "variazione di valore" nel periodo tra il 19.6.1990 e il 29.4.1991 delle società interessate alla transazione tra Fininvest e CIR"; tuttavia, puntualizzava Fininvest, la variazione di valore di Lire 86,3 mld in realtà non si riferiva alle "società" ma era riferita ai pacchetti azionari oggetto di scambio, come si evinceva dal Quadro 6 a pag. 93 della stessa CTU: ciò comportava la mancata considerazione dei premi di controllo.

Fininvest pertanto chiedeva “…di invitare i CTU a precisare se la misura dei "premi di controllo" indicata nella relazione di CT di Fininvest del 30.4.2010... per i diversi pacchetti oggetto di scambio sia conforme alle indicazioni fornite dalla dottrina e dalla prassi dell'epoca ...e quale sia l'effetto ... dell'applicazione dei suddetti premi ai valori delle partecipazioni oggetto di scambio ...".

Questa Corte evidenzia che sul punto “premi di controllo” si è già detto sopra ed a ciò si rimanda. Si può ancora ripetere che la relazione espone la stima del capitale economico delle società, i cui pacchetti azionari erano oggetto di cessione, al fine di determinare le variazioni di valore che si sono verificate tra il giugno 1990 e l'aprile 1991. Detti valori (e le loro variazioni), secondo un procedimento di calcolo elementare ed incontrovertibile, sono stati poi attribuiti “pro quota” ai pacchetti azionari oggetto di cessione. Il tema dei premi di controllo non è stato quindi separatamente affrontato

236

in quanto escluso dall'oggetto della CTU, esclusione che trova fondamento nella circostanza che, sia nel giugno 1990 sia nell'aprile 1991 allorquando infine fu concluso l'accordo, sempre le parti avevano trattato la cessione di pacchetti azionari che implicavano il trasferimento del potere di controllo sulle rispettive società. Ai fini della “differenza” che interessa, il tema è dunque irrilevante.

Rammenta, poi, la Corte che Fininvest svolgeva una censura relativa alle modalità con le quali il Tribunale aveva fatto il confronto dei prezzi degli scambi azionari risultanti dalla transazione dell'aprile 1991 con i dati emergenti dai negoziati intercorsi prima del lodo Pratis, avendo preso in esame il documento del 30.3.1990 ed omesso invece di considerare le azioni Espresso.

Sul primo punto, la Corte rileva che è pur vero che il giudice di prime cure, allorché ha effettuato il raffronto con la transazione del 1991, ha preso a riferimento impropriamente il “piano accordo con Fininvest” del 30.3.1990, anziché la “proposta Fininvest” 19.6.1990 (che però sembra poi “recuperare” nel successivo ragionamento), ma, come si è notato in precedenza, sia l’”accordo” che la “proposta” recano gli stessi valori inerenti ai titoli oggetto di scambio (azioni AME ordinarie a lire 40.000 ciascuna, azioni AME privilegiate a lire 27.500 ciascuna, azioni AME di risparmio a lire 15.000 ciascuna: cfr. infatti, per piano accordo 30.3.1990, doc I 1 CIR e, per proposta Fininvest 19.6.1990, doc I 4 CIR): il rilievo è dunque ininfluente (il problema, semmai, si pone in relazione al “perimetro” oggetto di comparazione, ma sul punto ci si accinge a dire).

Va osservato, infatti, che il Tribunale, errando, ha espunto dal confronto le azioni Espresso, benché queste fossero contemplate sia nella proposta 19.6.1990 che nella transazione dell’aprile del 1991: della questione occorre ovviamente occuparsi, nonostante la pregiudiziale obiezione di CIR, trattandosi, ancora una volta, non di un’eccezione in senso proprio, ma di una tempestiva e comprensibile censura formulata da Fininvest a critica della quantificazione del danno operata dal Tribunale.

237

Ora, sembra in verità evidente che il confronto debba essere fatto a parità di perimetro. E’ pur vero, infatti, quel che obietta CIR – e cioè che il minor prezzo unitario delle azioni Espresso pattuito nel ’91 dipende dal maggior numero di quelle azioni infine acquistate rispetto alla previsione del ’90; ma resta che non si può espungere radicalmente dal confronto dovuto una parte così rilevante (le azioni Espresso) dell’oggetto comune ad entrambi gli scambi (sia del ’90 che del ’91), quasi si trattasse non solo di quantità, ma addirittura di “generi” diversi. L’importante, come si diceva, è che questo confronto avvenga “a parità di perimetro”, cioè confrontando il prezzo pagato nel ’91 con il prezzo proposto da Fininvest nel ’90 per quello stesso numero di azioni Espresso. Che se poi, come si vedrà, l’acquisto nel ’91 da parte di CIR di un’ulteriore quantità non desiderata ha cagionato alla stessa un’eventuale danno, di questo elemento si terrà evidentemente conto in detrazione di quel vantaggio.

Orbene, il vantaggio di cui ha beneficiato CIR in sede di acquisto delle azioni Espresso è pari a 66,8 miliardi di lire. Per comprendere come si formi tale somma è necessario considerare la negoziazione che ha interessato dette azioni.

Secondo la proposta Fininvest del giugno 1990 (e secondo il Piano Accordo del marzo precedente) CIR avrebbe dovuto rendersi acquirente di n. 15.534.842 azioni Espresso, al prezzo unitario di lire 30.000, con un esborso complessivo di lire/mld. 466. Nell'aprile 1991, CIR si trovò ad essere acquirente di n. 24.357.622 azioni di detta società, negoziate al prezzo unitario di lire 25.700, con un esborso complessivo di lire/mld. 626. La cessione effettiva, infatti, aveva avuto ad oggetto n. 8.822.780 azioni in più rispetto a quelle previste in precedenza, azioni tutte cedute al prezzo ribassato di lire 4.300 (30.000 - 25.700).

In base ai termini in cui concretamente si realizzò il trasferimento di azioni dell'Espresso da Fininvest a CIR, è agevole rilevare come ammonti a lire/mld. 66,8 il minor esborso sostenuto da CIR per acquisire al prezzo finale di lire 25.700 quello stesso numero di azioni che avrebbe comprato se la proposta del giugno 1990 avesse trovato esecuzione. Tale numero di azioni era, come in precedenza annotato, pari a

238

15.534.842; con riguardo a tali azioni, acquistate al minor prezzo di lire 25.700 (rispetto al prezzo proposto di lire 30.000), si può quindi affermare che CIR conseguì un risparmio pari a (n. 15.534.842 x lire 4.300 =) lire/mld. 66,8.

A fronte di tale "risparmio", tuttavia CIR affrontava un maggior esborso di complessive lire/mld. 226,7, conseguente all'acquisto di ulteriori 8.822.780 azioni Espresso, sempre al prezzo di lire 25.700 cadauna; ma di questo maggior acquisto si terrà conto, come promesso, in prosieguo, allorché verrà trattata la questione del “danno ulteriore” subito da CIR.

Intanto, non si può ignorare che – pur consapevolmente al di fuori dal mandato ricevuto – i CTU si ponevano questo problema dell’errore di calcolo lamentato da Fininvest ed offrivano due risposte alternative (elaborato pag. 95 e segg.), alla luce del confronto tra il "prezzo pulito" al 19.6.1990 (Quadro 7) e il "prezzo corrotto" al 29.4.1991 (Quadro 8), come da schemi qui sotto riprodotti:

Quadro 7 - Proposta Fininvest del 19 giugno 1990

1. Trasferimenti da CIR a Fininvest

Azioni

Quantità

Prezzo unitario (L)

Pr. Complessivo (L.)

14.039.354 11.146.219 27.919.774 3.724.760

15.000 40.000 27.500 15.000

2 10,6 mlr 445,8 mlr 767,8 mlr 55,9 mlr

AMEF ord. AMEord.AME priv. AME r.n.c. In totale (£)

1.480,1

2. Trasferimenti da Fininvest a CIR

Titoli

Quantità

%

Prezzo unitario (L.)

Pr. Complessivo (L.)

Espresso Repubblica Finegil

15.534.842 8.000.000 50%

51,9 5050

30.000 62.500

466 mlr 500 mlr 114 mlr

In totale (£) 1.080,0

3. Conguaglio a carico di Fininvest (£)

Avere (1.080 mlr) - Dare (1.480,1 mlr) = -400 mlr

4. Facoltà di CIR (rilevanti)

239

non acquistare 2 min di azioni L'Espresso del valore di £ 60 mlr Vendere a Fininvest 4,08 min di azioni C. Ascoli a £ 18,4 mlr

Quadro 8 - Accordo al 29.4.1991

1. Trasferimenti da CIR a Fininvest

Azioni

Quantità

%

Pr. Unitario (L)

Pr. Complessivo (L)

AMEF Ord.

14.047.343

26,94%

10.000

140.473.430.000

AMEF R.n.c.

6.000

0,06

5.500

33.000.000

AME Ord.

11.112.307

27,7

26.000

288.919.982.000

AME Priv.

27.916.674

81,56

18.980

529.858.472.520

AME R.n.c.

3.790.000

65,91

10.173

38.555.670.000

In totale (£) 997.840.554.520

2. Trasferimenti da Fininvest a CIR

Quantità

%

Pr. Unitario (L)

Pr. Complessivo (L)

Espresso

24.357.622

81,3

25.700

625.990.885.400

Repubblica

8.000.000

50

56.250

450.000.000.000

Finegil

50%

50

-

138.527.520.000

Cima Brenta

4.500

30

1.281.777

5.768.000.000

GMP

670.000

100

10.776

7.220.000.000

Cartiera di Ascoli

34.139.421

68,3

5.272

179.983.027.512

In totale (£) 1.407.489.432.912

3. Conguaglio a carico di CIR (L)

L (997.840.554.520) - L (1.407.489.432.912) = L -409.648.609.550

Segnalavano i CTU – a spiegazione del loro apporto - che non si trattava solo di "questioni di diritto", ma anche di un problema di calcolo matematico sul "come" andasse determinata la differenza tra due gruppi di valori messi a confronto.

Infatti, stimare una differenza ponendo "a fronte" due quadri complessi (comprendenti quantità e prezzi di azioni che variavano, contrapponendosi e generando un

240

conguaglio monetario a carico dell'una o dell'altra parte) non era esercizio elementare e si potevano individuare due distinti approcci.

La prima soluzione proposta era che la differenza fosse pari a 66,8 L/mld: uno dei CTU elaborava in sostanza proprio i semplici calcoli matematici sopra effettuati autonomamente da questa Corte: e sul punto non è il caso di insistere, se non per trarne non necessario ma prezioso conforto.

Per contro, veniva indicato da due CTU un diverso, possibile calcolo, espunto dalle difese tecniche di Fininvest; secondo detta prospettazione, la differenza a favore dell’appellante ammontava a L/mld 104,7, anziché a 66,8. Il presupposto da cui partiva Fininvest era basato sul fatto che nella stesura della sentenza era stato usato per L'Espresso un criterio diverso da quello utilizzato per le altre società e sulla necessità di usare invece gli stessi criteri.

Il Quadro 9 illustra chiaramente come nella sentenza si era giunti a calcolare il danno in 458 L/mld.

Quadro 9 - Quantificazione del danno nella Sentenza del Tribunale

Prezzo prr izlour (Lire)

Società N. azioni oggetto

Quota

Asserita

Accordo

C esslone sul Delta Prezzo

Quantificazione

Di

vendita io buse

Proposta

mercato unitario

del preleso

all'Accordo

Fiulnvesl

Danno

(Lire mld)

1. Trasferimenti aa CIR a Fininveit

AMEF Ord.

14. 04". 3-13

26.9°»

15.000

10.000

(5.000)

("0.2)

AMEF R.n.c

6.000

0.1 "o

-

5.500

5,500



AME Ord.

11.112.30"

27.7»-0

40.000

26.000

(14.000)

(155.6)

AME Priv

2".916.67

4

61.6"-»

27.500

18.9SO

(8.520)

(237.9

)

AME R.n.c. 3.790.000

65,9°»

15.000

10.173

(4.827)(18.3)

Totale

(482,0)

2. Trasferimenti de Fininvest a CIR

Espresso (tot. Azioni), di cui:

24.357.6:2

81.3°o

Espresso (az. ricollocate)

7.700.000

25.7%

30.000

25.700

25.500 200

1.5

Espresso (quota di controllo)

16.657.622

55.6».

30.000

25.700

(4.300)

Repubblica

8.000.000

50.0?»

62.500

56.250

(6.250)

(50.0)

Finegil

50.0°

o

50.0%

114

139

n.d.

24,5

Cima Brenta 4.500

30.0'e

-

1.281. "•»

-

-

GMP

670.000

lOO.O'o

-

10.776

-

-

C altiera di Ascoli

34.139.421

68.3 «o

-

5.272

-

-

Totale

(",9)

Quantificazione ilei preteso tanno

458,0

241

In relazione ai titoli AMEF, AME e la Repubblica, emerge dall'analisi del Quadro 9 che la formula adottata dal Tribunale era la differenza di prezzo (prezzo "accordo" meno prezzo "proposta”) moltiplicata per le quantità dell'accordo; bastavano due esempi di calcolo tratti dalla sentenza: per AMEF ord. (prima riga quadro 9) (10.000-15.000) 14.047.343= -70,2 L/mld.; per AME ord ( terza riga del quadro 9) (26.000 - 40.000) 11.112.307= - 155,6 L/(mld).

La formula utilizzata dal Tribunale per la valutazione della variazione di prezzo in relazione ad AMEF, AME e la Repubblica (pag. 135 della sentenza in cui si rinviava alle pagg. da 200 a 208 della conclusionale CIR) era dunque la seguente: (Pa-Pp) Qa, dove: Pa= Prezzo dell'accordo Pp=Prezzo della proposta Qa= Quantità dell'accordo.

Orbene, segnalavano due dei CTU che, dall'esame del Quadro 9, emergeva che nella sentenza per le 7.700.000 + 16.657.622 azioni cedute da Fininvest a CIR non era stato utilizzato lo stesso criterio usato per le altre società. Se si fosse applicato, per uniformità, la stessa formula, (Pa-Pp) Qa, anche a L'Espresso si otteneva: (25.700-30.000) x (7.700.000 + 16.657.622 ) = - 104,7 L/mld.

Questa somma, sulla esattezza della quale insisteva Fininvest, esprimeva il vantaggio in favore di CIR e andava dunque dedotta dal totale di 458 L/mld indicata al fondo del Quadro 9.

In definitiva, aggiungevano i due CTU che stabilire, in una transazione avvenuta in più fasi con cambiamenti di prezzi e di quantità, quanto fosse da attribuire all'una o all'altra variabile (solo prezzo o sole quantità o sinergia tra prezzo e quantità ) non era un calcolo che aveva una sola formula: era quanto in matematica rientrava nella cosiddetta analisi di sensibilità di un modello, per la quale vi erano non una, ma due o più variabili che variavano simultaneamente.

Erano dunque possibili più soluzioni, come avveniva nella pratica, ed i CTU segnalavano: “se dopo una prima negoziazione i prezzi scendono e aumentano le quantità (come nel nostro caso) si può pensare: a) di aver comprato di più perché si era ottenuta una riduzione di prezzo (variabile prezzo); b) oppure di aver ottenuto un

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ribasso di prezzo perché si era comprato di più (variabile quantità); c) oppure un effetto congiunto delle due variabili (sinergia tra prezzo e quantità)”.

Evidenziavano i CTU che nel caso di specie la sentenza aveva scelto di considerare l'effetto prezzo più l'effetto congiunto quantità per prezzo (ottenuto moltiplicando la differenza di prezzo per la quantità dell'accordo). Se, per uniformità, si fosse seguita tale impostazione, peraltro meramente prospettata e non “preferita” dai CTU, per L'Espresso occorreva adottare lo stesso criterio usato per le altre società, che avrebbe portato ad una riduzione del danno di 104,7 L/mld.

Tutto ciò riportato (in sintesi) per completezza, la Corte resta dell’avviso che l’errore di calcolo non vada quantificato nella maggior somma di 104,7 miliardi di lire.

Innanzitutto, è effettivamente singolare – come più volte rilevato da CIR – che in atto d’appello (atto che segna pur sempre i confini del presente giudizio) la stessa Fininvest abbia, attraverso il richiamo espresso alla citata relazione “Poli-Colombo”, quantificato il risultato dell’errore di calcolo in una somma di 71,6 miliardi (relazione, pp. 10-13), laddove si intende facilmente che neppure gli stessi Consulenti di parte applicavano quel metodo teorico più tardi suggerito ai Consulenti d’ufficio, ed anzi, come si può constatare dalla lettura integrale, applicando un criterio simile a quello ritenuto dalla Corte.

Ma poi quel metodo è incongruo anche nella sostanza rispetto al caso di specie. Ferma restando la teorica validità di tutti i modelli illustrati dai CTU, va osservato, infatti, che il semplice e lineare calcolo fatto dal Tribunale per le azioni AME o AMEF risulta fondato proprio in ragione della sostanziale “parità di perimetro” al quale si applica (l’unica vera variazione di perimetro tra proposta e transazione è quella delle azioni Espresso – oltre alle azioni Cima Brenta, GMP – irrilevanti – e Cartiera di Ascoli, di cui si dirà).

E vuol essere questo anche il pregio del calcolo compiuto dalla Corte (e da uno dei CTU, nonché, salva l’obiezione di principio, condiviso da CIR): i valori considerati stanno nel medesimo “perimetro” e riflettono quanto emerge dallo svolgimento in concreto della trattativa. In riferimento alla specifica vicenda di causa si può dire, infatti, che delle

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tre ipotesi teoriche elencate dai CTU la più aderente alla realtà dei fatti è la seconda (“variabile quantità”): CIR ha ottenuto un ribasso di prezzo perché comprava di più (anche quel che non le serviva). Per addivenire, invece, alla misura di 104,7 lire mld, si deve presumere un qualche inesistente interesse di CIR ad acquistare di più ed in ogni caso fare la comparazione fra perimetri non omogenei (quasi, per dirla con CIR, “trascinando all’indietro”, al giugno ’90, il numero di azioni Espresso acquistate in più).

Per riassumere, a giudizio di questa Corte, quest’ultimo metodo è astratto, condizionato da un male inteso senso di simmetria tra scambi diversi ed avulso dalla contrattazione concretamente svolta, perchè, se si deve procedere al confronto tra le due situazioni negoziali, la differenza attribuibile alla variazione del prezzo di cessione non può che risultare dal confronto fra il costo complessivo che si sarebbe sopportato per acquistare le quantità originariamente previste al prezzo anch'esso originario e il costo che per quelle stesse quantità si è invece sopportato in base al nuovo prezzo: da tale confronto risulta inequivocabilmente, facendo riferimento al calcolo del Tribunale che erroneamente non ha contemplato la cessione delle azioni Espresso, la differenza di lire/mld. 66,8, effettivamente “risparmiata” da CIR nell'operazione, la quale quindi non ha concorso alla formazione dei 458 lire miliardi del danno stimato.

Alla luce di quanto emerso dalla CTU, questa Corte ritiene dunque che dalla somma di lire 458.046.833.807 indicata dal Tribunale debba essere dedotto l’importo di lire 86.300.000.000 (per le dette variazioni di valore), nonché quello di lire 66.800.000.000 (frutto dell’errore di calcolo accertato).

Ne consegue che la somma capitale, rapportata all’epoca dei fatti, costituente il danno di CIR ammonta fin qui a lire 304.946.833.807, corrispondente ad € 157.491.896,17.

Il giudice di prime cure (sent. impugnata pag. 136) evidenziava poi che l’attrice CIR riteneva che la predetta quantificazione sottostimasse il danno realmente da essa subito, e ciò per alcune ragioni obiettive: in primo luogo, perché la proposta Fininvest 19.6.1990 conteneva una vera e propria opzione di "put", e cioè dava facoltà all'attrice di vendere alla Fininvest le proprie azioni della Cartiera di

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Ascoli, che infine CIR era stata invece costretta a comprare da Fininvest con la transazione 29.4.1991; in secondo luogo, perché, con la stessa proposta, Fininvest dava a CIR la possibilità di comprare solamente 13,5 milioni di azioni Espresso (quantità per CIR sufficiente per avere il 51% del capitale e, quindi, il controllo della società) in luogo di 15,5 milioni, così risparmiando circa 60 miliardi di lire; in terzo luogo, perché il contesto in cui maturò la proposta Fininvest 19.6.1990, formulata appena prima dell'emissione del lodo, era, per così dire, "neutro", dato che ancora non si conosceva la decisione degli arbitri, i quali avevano poi accolto le ragioni di CIR: se il lodo fosse stato confermato, come dovuto, la transazione sarebbe stata conclusa in uno scenario più favorevole a CIR rispetto a quello della proposta.

Ciò riportato, il Tribunale riteneva di dover condividere le ragioni di CIR a sostegno di una domanda di aumento del danno risarcibile (“danno ulteriore”) con criterio equitativo e di dover incrementare, con il proposto criterio, la voce di danno in argomento fino all'importo complessivo di lire 550.000.000.000 (550 miliardi di lire) pari ad euro 284.051.294,49.

L’appellante Fininvest si doleva di tale operazione, lamentando proprio il fatto che il Tribunale avesse aumentato il danno risarcibile “con un criterio equitativo” per l’ammontare di quasi cento miliardi di lire, senza motivare per quali ragioni avesse accolto tale domanda. Infatti, se le ragioni addotte da CIR erano le tre appena riferite, era agevole rilevare che nessuna di tali ragioni era idonea a giustificare un incremento "con criterio equitativo" del danno patrimoniale.

Nello specifico, quanto all'acquisto della partecipazione del 68,3% della Cartiera di Ascoli, Fininvest rilevava, in primo luogo, che non aveva senso effettuare un confronto, come aveva fatto il Tribunale, fra i due scenari, perché totalmente diverso era l'oggetto dell'operazione. Nella cd "Proposta Fininvest" del giugno 1990 si prevedeva che CIR cedesse un pacchetto azionario di minoranza, mentre con la transazione dell'aprile 1991 CIR aveva acquistato un pacchetto azionario di controllo. E se ciò era avvenuto era perché a CIR interessava disporre di un

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veicolo attraverso cui perfezionare l'operazione di quotazione dell’Editoriale “La Repubblica” mediante la fusione per incorporazione di quest'ultima nella Cartiera di Ascoli, che era quotata, ottenendo, quindi, il risultato di portare in Borsa la Repubblica, riducendo i tempi ed i costi di tale processo, il che si era puntualmente verificato subito dopo la transazione.

Quanto all'acquisto da parte di CIR di un maggior quantitativo di azioni Espresso rispetto a quanto previsto nella cd Proposta Fininvest, il Tribunale aveva considerato nella propria determinazione "equitativa" una componente di danno conseguente al fatto che, nella anzidetta proposta, CIR avrebbe acquisito comunque la maggioranza del capitale de L'Espresso con un minor esborso di circa Lire 60.000.000.000, che peraltro rappresentavano il mero costo di acquisto delle azioni aggiuntive. Ma il Tribunale, sosteneva Fininvest, non aveva considerato che CIR stessa aveva dato atto nella propria comparsa conclusionale (cfr. ivi par. 514) che essa aveva potuto successivamente ricollocare sul mercato le azioni eccedenti la quota di controllo, traendo addirittura un profitto dall'acquisto dell'81,30% in luogo del 51,90%. Tale circostanza era stata documentata già in primo grado (doc. Fininvest n. 70).

Quanto, infine, al raffronto tra il contesto negoziale nel quale fu conclusa la transazione nell'aprile 1991 e quello in cui era maturata la proposta Fininvest del giugno 1990, Fininvest si limitava a dichiarare di non comprendere come tale raffronto potesse avere significato sotto il profilo equitativo.

Osserva preliminarmente la Corte che non è condivisibile la censura di Fininvest alla sentenza impugnata per omessa motivazione in ordine alle ragioni per le quali era stata accolta la domanda di CIR di incremento della liquidazione del danno con criterio equitativo: il riferimento puntuale ai tre parametri sopra elencati è, infatti, esaustivo dell’onere della motivazione.

Altro problema è verificare se tali circostanze siano idonee a giustificare un incremento "con criterio equitativo" del danno patrimoniale: in relazione a tale questione questa Corte non può non rilevare che vengono allegate tre componenti

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del danno che hanno ciascuna una sua specificità: le prime due, per loro natura comportano la possibilità di verificare in concreto l’entità dell’eventuale danno ulteriore subito da CIR, mentre per la terza è necessario seguire un altro percorso logico e solo in relazione ad essa il ricorso alla “integrazione equitativa” si rivelerà plausibile.

E dunque: con riferimento all’acquisto da parte di CIR del 68,3% della Cartiera di Ascoli, in luogo dell'opzione "put" concessale nella Proposta Fininvest 19.6.1990, è agevole osservare che esso ha avuto ad oggetto azioni quotate di una società, il cui controllo ha consentito di varare ulteriori operazioni societarie di gruppo (CIR aveva poi fuso la Cartiera di Ascoli con La Repubblica). Risulta ancora – il dato è pacifico tra le parti - che la Cartiera di Ascoli aveva praticamente un unico “asset”, cioè la liquidità esistente all'interno della società (pari a Lire 219,3 miliardi) e della quale CIR, acquisendo il 68,3% del capitale, aveva potuto disporre per intero; deteneva inoltre ulteriori attività che sarebbero potute diventare liquide dopo un anno per Lire 18,1 miliardi.

Sostiene CIR – con qualche apoditticità ed evocando il “notorio” (conclusionale, p. 63) – che si è trattato di un’acquisizione “non programmata e non desiderata”, che le ha dunque cagionato un danno non precisamente analizzabile, ma da parametrare al costo finanziario delle risorse impiegate per l’acquisto (il 12,5% annuo di circa 180 miliardi di lire).

Ora, però, emergendo per certo (senza che neppure occorra far ricorso alle “opinioni” dei CTU), per un verso, che la Cartiera di Ascoli aveva un suo innegabile, intrinseco e rilevante valore e, per altro verso, che la sua acquisizione è stata comunque in fatto funzionale al più rapido ed economico assetto “post spartizione” del gruppo CIR, risulta difficile concludere, senza altri argomenti, che l’acquisto, quand’anche “non programmato” e perfino “non desiderato”, sia stato anche non gradito o comunque, oggettivamente, non utile a CIR: a fronte di tale concreta utilità i costi finanziari dell’acquisto non possono più evidentemente intendersi come un danno. Né, con pari evidenza, si può considerare una “perdita”

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la cancellazione del put sull'8,2% della Cartiera di Ascoli verso AME: se l’acquisto non è un danno, non può esserlo la mancata vendita (né si può seguire CIR nel suo incompleto argomentare che tace sulla congruità del prezzo d’acquisto per affermare la “convenienza” del prezzo a suo tempo propostole per il put).

Quanto alla seconda componente del “danno ulteriore” (acquisto di un maggior quantitativo di azioni Espresso rispetto a quanto previsto nella Proposta Fininvest 19.6.1990), si deve appena ricordare che con l'accordo 29.4.1991 CIR aveva acquisito 24,4 milioni di azioni di L'Espresso a L. 25.700 l'una. La precedente proposta si limitava a 15,5 milioni di azioni (51,85%) per il prezzo di L. 30.000 l'una, azioni limitabili liberamente a 13,5 milioni (che già comprendevano il controllo). A questo punto, va però riscontrato, sulla scorta di quanto documentato in causa, che il Gruppo CIR nello stesso 1991, mediante un'offerta pubblica, aveva venduto sul mercato n. 7.700.000 azioni al prezzo di L. 25.000 per azione, per complessivi 196,4 miliardi di lire; ne derivò una minusvalenza, immediatamente e facilmente riscontrabile, rispetto al loro acquisto precedente di lire 1,5 miliardi: questa minusvalenza costituisce dunque un primo, esattamente quantificabile danno per CIR. Inoltre, presumendo – con il notorio confermato dai tecnici, senza contestazioni sullo specifico parametro - un costo dell'offerta pubblica (per compensi alle banche che la sostennero) del 2%, risulta un’ulteriore perdita liquidabile in 3,9 miliardi di lire. In totale, lo svantaggio di CIR per l’acquisto delle azioni Espresso “eccedenti” ammonta a 5,4 miliardi di lire.

Aggiunto questo importo al capitale già stimato di lire 304.946.833.807, si perviene alla somma di lire 310.346.833.807, pari ad € 160.280.763,43, quale entità, nella valuta dell’epoca, dell’ulteriore danno sofferto da CIR precisamente determinato nel suo ammontare (salvo quello da “inutile sopportazione di spese legali”, del quale deve ancora dirsi).

Ritiene questa Corte che, invece, il terzo elemento che il giudice di prime cure ha posto a fondamento della sua “integrazione equitativa del danno” (“…il contesto in cui maturò la Proposta Fininvest 19.6.1990, formulata appena prima

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dell'emissione del lodo, fu un contesto per così dire "neutro", dato che ancora non si conosceva la decisione degli arbitri, i quali invece accolsero le ragioni di CIR…”), non abbia una valenza di tipo tecnico economico; in proposito, non si può fare a meno di considerare il fatto che a giugno 1990 CIR non aveva ancora beneficiato degli effetti favorevoli del lodo Pratis, che ne avrebbero poco dopo rafforzato la posizione negoziale, e che in questa situazione più favorevole per CIR si sarebbe dovuta concludere anche la trattativa finale. Questa constatazione fornisce la prova dell’”an debeatur” in quanto la proposta Fininvest, collocandosi ancora invece nello scenario “neutro”, risulta, per così dire, un termine di confronto inesatto “per difetto”.

In questo contesto, il ricorso alla valutazione equitativa del danno è corretto e necessitato. Infatti, l’equità sopperisce all'impossibilità di provare l'ammontare preciso del danno, ma presuppone la prova dell’evento lesivo da parte del danneggiato (che non è esonerato dal fornire gli elementi probatori e di comunicare i dati di fatto in suo possesso, al fine della determinazione, il più possibile precisa, del danno: Cass. 03/2874, Cass. 02/3327, Cass. 00/8795, Cass. 95/1799, Cass. 86/1212; v. anche Cass. 06/6067, secondo cui la valutazione equitativa del danno è consentita soltanto qualora, sulla base del materiale probatorio acquisito al processo, sia possibile pervenire ad una quantificazione che non si discosti in misura notevole dalla sua reale entità, fermo l'obbligo del giudice di indicare, almeno sommariamente, i criteri seguiti nella propria determinazione; cfr. anche Cass. 03/5375, che ha affermato la necessità della certezza dell'esistenza ontologica del danno).

La Corte dispone a questo punto di tutti gli elementi necessari per una compiuta ri-valutazione della congruità della misura della integrazione equitativa del danno, che il primo giudice ha operato per l’importo capitale di lire 91.953.166.193, aumentando da lire 458.046.833.807 fino a lire 550 miliardi la liquidazione del danno (v. alle pagg. 136-137 della sentenza impugnata).

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Si è visto che dei tre fattori considerati dal Tribunale per determinare l’entità della integrazione equitativa uno solo, in realtà, rileva a tale fine. Si tratta, tuttavia, del fattore che in una realistica considerazione dei fatti di causa e del percorso logico seguito dal primo giudice riveste un’importanza di gran lunga preponderante rispetto agli altri.

L’illecita (perché realizzata con la corruzione del giudice Metta) alterazione dell’equilibrio negoziale fra le parti della trattativa avente ad oggetto le sorti della Mondadori rappresenta, infatti, il “cuore” della complessa vicenda dedotta in causa e ne costituisce il tratto distintivo in una “lettura” dei fatti del processo che, pur nella diversità di impostazioni e di conclusioni, è comune ad ambedue le parti.

La Proposta Fininvest del giugno 1990, precedente al lodo Pratis, teneva conto di una condizione di equilibrio sostanziale fra le parti della trattativa, entrambe consapevoli che la posizione dell’una o dell’altra avrebbe potuto essere notevolmente rafforzata o, correlativamente, indebolita a seconda dell’esito del giudizio arbitrale. Con la pronuncia del lodo, CIR si era invece venuta a trovare in una posizione relativa di importante vantaggio rispetto a Fininvest, situazione di fatto non più modificabile con mezzo leciti, come si è spiegato. E’, pertanto, ragionevole ritenere che nel prosieguo della trattativa con Fininvest, CIR avrebbe avuto buon gioco nel pretendere di giungere ad un assetto negoziale definitivo ancora più favorevole rispetto a quello offerto da Fininvest nel giugno 1990.

La corruzione del giudice Metta, che portò alla sentenza della Corte d’Appello di Roma di annullamento del lodo Pratis, non solamente vanificò gli effetti, vantaggiosi per CIR, della decisione arbitrale, ma determinò una decisa inversione dei rapporti di forza tra le parti, mettendo CIR “con le spalle al muro”, in una condizione di grande debolezza rispetto a Fininvest, che potè condurre le trattative fino al perfezionamento della transazione del 29 aprile 1991 sfruttando fino in fondo la sua posizione di contraente “forte” ed avendo di fronte una controparte resa contrattualmente “debole” con mezzi che in prosieguo di tempo sarebbero risultati delittuosi. Nella fase finale e decisiva del confronto fra le parti, il gioco

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delle forze in campo venne, quindi, profondamente alterato, a danno di CIR, non solo rispetto al tempo della trattativa nel quale CIR si era assicurata un vantaggio grazie all’esito favorevole dell’arbitrato, ma anche rispetto al “primo tempo” della trattativa, nel quale, in una situazione che era ancora di equilibrio fra le parti, Fininvest aveva formulato la proposta del 19.6.90.

E’, evidentemente, assai difficile, se non impossibile, come detto in precedenza, stabilire ora in quale precisa misura CIR si sarebbe avvantaggiata, nella conclusione della trattativa con Fininvest, della sua posizione di forza smantellata dalla corruzione di Metta e dall’annullamento del lodo Pratis.

Pare alla Corte che l’impostazione più prudente e realistica porti a determinare l’ordine di grandezza di questa componente del danno risarcibile in funzione dell’entità del danno di cui fino ad ora si è potuto stabilire il preciso ammontare e, tenuto conto del contesto concreto della trattativa nella quale si inserì la vicenda corruttiva e della sicura capacità di gestire il confronto di entrambe le parti, soggetti imprenditoriali e finanziari di alto livello, pare equo e prudenziale fissare nella percentuale del 15% del danno come sopra stimato (lire 310.346.833.807, pari ad € 160.280.763,43) la misura della “integrazione equitativa” che deve essere riconosciuta a CIR. Tale componente del risarcimento spettante a CIR è pari, pertanto, a lire 46.552.025.071, corrispondenti ad € 24.042.114,51.

Tale integrazione è significativamente inferiore a quella disposta dal giudice di primo grado, che ha aumentato equitativamente il risarcimento (da lire 458.046.833.807 a lire 550 miliardi) in una misura che corrisponde, con una minima approssimazione, al 20% del totale del danno risarcibile che aveva già determinato nel suo preciso ammontare. La riduzione della percentuale (ovviamente applicata sulla diversa base di calcolo qui accertata) tiene conto della esclusione ai fini che qui interessano di due dei tre elementi valorizzati dal Tribunale. La soluzione, che la Corte ritiene appunto preferibile, tiene altresì conto del fatto che quelle tre componenti cui il primo giudice aveva avuto riguardo non rivestono (e non potevano rivestire nel ragionamento del Tribunale) la stessa

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importanza e, pertanto, non potrebbero essere meccanicamente considerate per attribuire a ciascuna l’eguale “peso relativo” di un terzo nella determinazione dell’entità dell’integrazione equitativa. Appare, infatti, a questo punto davvero evidente (tanto da esonerare la Corte da un’ulteriore motivazione che, sul punto, non potrebbe che essere ripetitiva di argomenti già esposti) che la terza delle componenti individuate dal Tribunale a pag. 136 della sentenza impugnata - la sola ritenuta rilevante dalla Corte ai fini dell’integrazione equitativa - ha un rilievo talmente preponderante rispetto alle altre da giustificare una riduzione meno che proporzionale della percentuale sopra detta.

Ne consegue che, determinato in lire 310.346.833.807, pari ad € 160.280.763,43 il danno subito da CIR di cui si è potuto accertare il preciso ammontare (impregiudicato l’ulteriore tema del danno da inutile sopportazione di spese legali), può essere stabilita in lire 46.552.025.071, corrispondenti ad € 24.088.595,63, la misura della integrazione equitativa, che porta il danno risarcibile fino a questo momento accertato a lire 356.898.858.878, corrispondenti ad € 184.322.877,94.

IL SETTIMO MOTIVO DI APPELLO DI FININVEST – DANNO INERENTE LE SPESE LEGALI

Sempre con il settimo motivo di appello, Fininvest si doleva del riconoscimento del danno connesso al pagamento delle spese legali. Evidenziava che la tesi del Tribunale era che tali esborsi sarebbero stati “sostanzialmente inutili, posto che la decisione della Corte d’Appello di Roma fu presa in base a criteri del tutto diversi dalla qualità della difesa legale di cui CIR si dotò” (cfr. sentenza pag. 137). Era palese, secondo l’appellante, l’erroneità di tale argomentazione solo ponendo mente al fatto che, a seguito della stipula della Convenzione tra CIR e famiglia Formenton nel

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1988, era sorta una controversia e CIR si era dovuta comunque difendere. Ciò valeva sia per l’arbitrato che per la fase di impugnativa del lodo avanti la Corte d’Appello di Roma. Per quanto riguardava le spese di Cassazione, poi, era la stessa CIR che aveva rinunciato al ricorso.

Questa, in comparsa di costituzione (pag 256) lamentava trattarsi di domanda nuova in quanto l’argomento non era mai stato evocato in Tribunale: considera questa Corte che l’eccezione non ha pregio, trattandosi in verità di un semplice argomento con il quale Fininvest censura la motivazione del primo Giudice.

Nel merito, tuttavia, si deve riconoscere dignità alla tesi del Tribunale, che valuta che le spese legali furono “sostanzialmente inutili” alla luce di tutte le vicende sopra esposte; ma ciò si dice limitatamente alle spese conseguenti alle statuizioni della sentenza della Corte d’Appello di Roma (spese processuali del lodo “ribaltate” e spese processuali del giudizio d’appello) ed a quelle sostenute per il ricorso in Cassazione avverso la stessa: infatti, queste spese legali, e non altre, furono conseguenza ingiusta della anomalia della sentenza “corrotta”. Altrettanto, infatti, non si può dire delle spese non processuali autonomamente sostenute da CIR nella fase dell’arbitrato, in quanto trattasi di esborsi non solo anteriori, ma non dipendenti dalla sentenza corrotta, la quale, quindi, non può esserne considerata causa efficiente: si deve dunque ritenere che le spese sostenute a margine del procedimento arbitrale (pareri, consulti extra procura alle liti, ecc) non siano eziologicamente connesse con la corruzione del giudice Metta, ma siano espressione di un precedente libero ricorso alla tutela professionale dei propri diritti.

Orbene, riscontrando la documentazione prodotta da CIR (doc M 5 CIR), risulta il pagamento delle seguenti fatture inequivocabilmente imputabili alla fase relativa alla sentenza della Corte di Appello di Roma e della fase avanti la Corte di Cassazione: fattura 5.3.1991 avv. Berardino Libonati per lire 605.000.000; fattura 2.4.1991 avv. Vittorio Ripa di Meana per lire 302.500.000; fattura 30.4.1991 avv. Pietro Trimarchi per lire 605.000.000; fattura 4.6.1991 avv. Elio Fazzalari per lire

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204.000.000; fattura 31.7.1991 avv. Giovanni Panzarini nella parte in cui espone lire 510.000.000 imputabili alla difesa avanti la Corte d’Appello di Roma; fattura 23.8.1991 avv. Pietro Trimarchi per lire 363.000.000; fattura 20.8.1991 avv. Elio Fazzalari per lire 306.000.000; fattura 10.10.1991 avv. Giovanni Panzarini per lire 306.000.000; fattura 26.6.1992 avv. Pietro Guerra per lire 242.150.000; fattura 2.7.1992 avv. Pietro Trimarchi per lire 242.000.000; fattura 20.1.1993 avv. Giorgio Oppo per lire 363.000.000; fattura 22.1.1993 avv. Adolfo Di Maio per lire 363.000.000.

Ne consegue che le spese ingiustamente pagate assommano a lire 4.411.650.000, corrispondenti ad euro 2.278.427,00.

Per quanto sopra detto, a tale importo vanno aggiunte le spese legali che la Corte di Appello di Roma ha posto a carico di CIR ed in favore dei sigg. Formenton e di Persia srl in virtù della ritenuta soccombenza, ammontanti a lire 1.503.800.000 (€ 776.647,88) relative al procedimento arbitrale ed a lire 3.004.560.000 (€ 1.551.725,74) per le spese di lite inerenti il procedimento avanti la CdA (doc CIR C3 pag 165).

Ne consegue che la somma che deve essere riconosciuta a CIR ammonta complessivamente ad € 4.606.800,62, maggiorata di rivalutazione ed interessi compensativi medi nei termini e modi di cui appresso si dirà.

IL SETTIMO MOTIVO DI APPELLO FININVEST E IL PRIMO MOTIVO DI APPELLO INCIDENTALE DI CIR – DANNO PATRIMONIALE DA LESIONE DELL’IMMAGINE IMPRENDITORIALE

Fininvest si doleva anche del riconoscimento del danno da lesione dell’immagine imprenditoriale. Evidenziava che il Tribunale fondava la condanna sulla "presunzione che l'esito negativo di una controversia così importante per CIR non possa

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non aver avuto delle conseguente negative sull'andamento della società stessa e sulle sue prospettive" (cfr. sentenza pag. 137-138).

Si trattava, a detta dell’appellante, di una mera illazione, priva di qualsiasi riscontro e che comunque non teneva conto del fatto che la transazione dell'aprile 1991 era stata presentata all’opinione pubblica come un successo per CIR che infatti veniva ad acquisire il controllo del secondo quotidiano nazionale e di diciotto testate locali. La sentenza non aveva tenuto in minimo conto che il corso di borsa del titolo CIR in data 1 maggio 1991, appena dopo la stipula della transazione, raggiungeva un valore pari a lire 2.615, come risultava da un articolo de Il Sole 24 Ore del 1 maggio 1991 (doc. Fininvest n. 145), e quindi un valore superiore alla valorizzazione del titolo in lire 2.085 subito dopo la sentenza della Corte d'Appello di Roma, valore quest'ultimo riportato da CIR nella propria memoria ex art. 184 CPC a pag. 59 (cfr. conclusionale di primo grado pag. 83 nella quale si documentavano queste circostanze).

Tantomeno, a detta di Fininvest, risultava giustificata la quantificazione in Lire 40.000.000.000 del preteso danno da lesione d'immagine.

Viceversa, nel primo motivo di appello incidentale, CIR lamentava la ridotta quantificazione del danno patrimoniale da lesione dell’immagine imprenditoriale, avendo il giudice di prime cure fatto ricorso alla valutazione equitativa in modo riduttivo, poiché aveva considerato unicamente la “vanificazione del progetto Grande Mondadori” (peraltro, secondo CIR, il “più grave” dei fattori di danno all’immagine: conclusionale, p. 31), con conseguente caduta dei titoli in borsa: il Tribunale non aveva considerato l’ulteriore conseguenza della ridotta capacità di CIR a reperire risorse, proprio nel momento in cui era stata chiamata a compiere l’enorme sforzo finanziario per il pagamento del conguaglio impostole dalla spartizione corrotta; inoltre, il giudice di prime cure non aveva valorizzato il marchio di “perdente” che CIR aveva ricevuto davanti all’opinione pubblica.

Ciò puntualizzato, pone in luce questa Corte che il Tribunale, alle pagine 137 e 138 della sentenza impugnata, facendo riferimento all’aspetto patrimoniale del danno da lesione dell'immagine imprenditoriale, considerava che la sentenza n. 259/1991 della Corte di

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Appello di Roma “non potè non avere delle ripercussioni negative sulla immagine imprenditoriale della società attrice, che si vide esposta - per effetto di quella sentenza - ad una bruciante sconfitta su un progetto, quale quello della creazione di una grande casa editrice, di livello internazionale, di libri, periodici e quotidiani: la ‘Grande Mondadori’, nel quale evidentemente l’attrice aveva creduto. Infatti, da alcuni articoli di stampa, quali il Sole 24 Ore del 25.1.1991 (doc CIR L 35) ed il Resto del Carlino del 25.1.1991 (doc. CIR L 34), si evinceva che la sconfitta giudiziaria ebbe come conseguenza una caduta della quotazione dei titoli CIR in borsa”.

Proseguiva il Tribunale considerando che tale dato oggettivo (sconfitta giudiziaria e caduta delle quotazioni in borsa) andava visto in sinergia con la presunzione che l'esito negativo di una controversia così importante per CIR non potesse non avere avuto delle conseguenze deteriori sull'andamento della società attrice e sulle sue prospettive. Con ciò era provata, secondo il Tribunale, la sussistenza del lamentato danno patrimoniale all'immagine imprenditoriale di CIR, che doveva essere peraltro liquidato con criterio equitativo, nell'assenza di altri possibili criteri o indicatori. Valutata l'entità grave del torto subito da CIR in relazione alle dimensioni reali del predetto progetto, che fu vanificato dalla sentenza Metta, il Tribunale stimava di giustizia quantificare il danno, nella moneta di allora, in lire 40.000.000.000, pari ad € 20.658.276,00 somma alla quale andavano addizionati la rivalutazione monetaria e gli interessi compensativi medi.

Questa Corte non può che rammentare che il danno riconosciuto a CIR è danno patrimoniale. Esso sarebbe consistito, enucleando i punti presi in considerazione dal Tribunale, 1) nella “bruciante sconfitta su un progetto nel quale evidentemente essa attrice aveva creduto” (la “Grande Mondadori”), 2) nella perdita in borsa subita da CIR a seguito della sentenza corrotta e 3) nelle implicazioni economiche della sua “immagine perdente”. Puntualizza questa Corte che la valutazione del primo giudice si colloca correttamente, per quanto sopra detto, nel contesto conseguente alla sentenza della Corte d’Appello di Roma e non già alla successiva chiusura della trattativa a condizioni deteriori, in relazione al quale danno si è già ampiamente detto nei capitoli che precedono: è allora persino superfluo sottolineare che occorre evitare una

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duplicazione del danno, posto che, come evidenziava giustamente Fininvest, il danno da lesione dell’immagine imprenditoriale è, in tesi, altra cosa rispetto al danno patrimoniale di cui si è detto.

Ora, la prova di questo danno all’immagine è stata rinvenuta dal Tribunale in alcuni articoli di stampa, dai quali si evinceva la “opacizzazione dell’immagine di CIR” a seguito della sconfitta subita in sede giudiziaria ad opera della sentenza della Corte d’Appello di Roma, crisi di immagine che incideva, a detrimento di CIR, sulle sue prospettive economiche di crescita (o di resistenza) sul mercato in relazione al progetto editoriale, ivi compreso il profilo dell’accesso del credito. E’, quindi, opprtuno sottolineare che l’essenza del tipo di danno riconosciuto sta nelle ulteriori ricadute economiche negative subite da CIR a seguito della sentenza corrotta: ipotesi in astratto plausibile (diversamente da quanto sostiene Fininvest), dovendosi, tuttavia, constatare che CIR non ha provato la sussistenza in concreto dei fatti allegati costituenti il fondamento della sua pretesa.

Osserva, infatti, questa Corte che ciò non avviene in relazione all’asserita rinuncia al “progetto grande Mondadori”: anzi, risulta per tabulas che CIR aveva, già prima della sentenza corrotta, di fatto abdicato a questa prospettiva. Anche tutta la prima, ormai ben nota, fase della trattativa precedente la sentenza della Corte d’Appello postulava, infatti, la spartizione delle attività secondo la medesima linea di confine poi consacrata dalla transazione: “Mondadori classica” alla Fininvest e Repubblica e L’Espresso (ed altri quotidiani locali) a CIR. E poi, in ogni caso, non sarebbe realistico trascurare le pressioni delle istanze politiche: su questo dato basterà ricordare l’eufemismo adoperato dallo stesso De Benedetti nella sua deposizione (doc. F 12 di CIR): “la politica non avrebbe gradito la concentrazione dell’intero gruppo nelle mani della CIR o della Fininvest”.

Quanto poi alla presunta perdita di valore in borsa delle azioni CIR a seguito della sentenza corrotta si deve rilevare che non ve n’è alcuna prova. L’unico dato che emerge inconfutabilmente (in quanto non contestato, cfr. memoria di replica CIR pag 155) non è indicativo in relazione alla allegazione di CIR: il corso di borsa del

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titolo CIR in data 1 maggio 1991, appena dopo la stipula della transazione, raggiungeva Lire 2.615, come risultava da un articolo de Il Sole 24 Ore del 1 maggio 1991 (doc. Fininvest n. 145), e quindi un valore superiore alla valorizzazione del titolo in Lire 2.085 nel momento immediatamente successivo alla sentenza della Corte d'Appello di Roma in data 24.1.1991. Nulla – si badi - risulta invece circa una presunta svalorizzazione del titolo CIR all’esito della sentenza in relazione al suo valore immediatamente precedente.

Queste circostanze di fatto confermano altresì che anche il terzo parametro valorizzato dal Tribunale (“immagine perdente” di CIR) non trova alcun concreto riscontro probatorio: infatti, appare contrario alla realtà e comunque insufficiente, proprio alla luce della valorizzazione del titolo CIR solo tre mesi dopo la sentenza, “semplicemente replicare che rientra assolutamente nel notorio che un improvviso crollo di un titolo di borsa” – che qui peraltro non è specificamente provato - “rende più complesso reperire risorse finanziarie, se non altro perché qualsivoglia creditore sarà molto più cauto nell’approcciare una società in difficoltà…” (cfr replica CIR pag 155). Infatti, il valore in borsa del titolo CIR pochi mesi dopo la sentenza corrotta smentisce in radice questa tesi.

Tali considerazioni consentono di accogliere il motivo di appello di Fininvest e di disattendere contestualmente, per ovvia conseguenza, le ragioni riconvenzionali svolte da CIR.

Va solo messo in evidenza che non sono stati valutati in questa sede gli eventuali profili di danno non patrimoniale che verranno presi in considerazione più avanti.

IL SETTIMO MOTIVO DI APPELLO DI FININVEST – DELLA DECORRENZA DEGLI ACCESSORI DEL DANNO

Assorbiti da quanto fin qui statuito i contrapposti gravami circa la percentuale della “chance” e/o del danno risarcibile, sempre nel settimo motivo Fininvest lamentava

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anche che il Tribunale aveva ritenuto di applicare la rivalutazione e gli interessi sulla somma determinata quale importo del danno patrimoniale “dalla data di commissione dell'illecito, che va fatta coincidere con quella di deposito della sentenza n. 259/1991 della Corte d'Appello di Roma (24.01.1991)" (cfr. sentenza pag. 138); l'errore era palese perché per nessuna delle voci di danno aveva senso far decorrere rivalutazioni e interessi dalla data di deposito della sentenza della Corte d'Appello di Roma: 1) non quanto al danno derivante dalle condizioni deteriori della transazione, perché questa era in data successiva (29 aprile 1991); 2) non per il danno da spese legali perché erano state sostenute in momento successivo; 3) non per il danno da lesione dell'immagine imprenditoriale dell'attrice, perché anche tale danno si era verificato, casomai, dopo la transazione.

La doglianza merita una sintetica, favorevole risposta.

Se, infatti, il momento produttivo degli accessori è quello del verificarsi del danno, operando, nell’ipotesi di responsabilità extracontrattuale, per gli interessi il meccanismo “ex re” – art 1219, comma secondo, CC - e dovendo decorrere da tale momento anche la rivalutazione a fronte di crediti maturati al momento del verificarsi del danno, va dato atto che per il risarcimento dei danni connessi alla transazione 29.4.1991 gli accessori sono dovuti da questa data, in quanto da tale termine decorre l’obbligazione di pagamento.

Analogamente, si deve riconoscere che interessi e rivalutazione, in relazione alle spese legali, decorrono dal momento in cui CIR effettuò i pagamenti non dovuti per le singole causali.

La doglianza relativa alla decorrenza di rivalutazione ed interessi relativamente al danno da lesione dell’immagine imprenditoriale di CIR è, evidentemente, assorbita dalla conclusione negativa già raggiunta in ordine a tale pretesa componente del danno risarcibile.

La Corte dà atto della giurisprudenza citata da CIR (comparsa di costituzione pag 276) che attribuisce rilievo per la decorrenza di rivalutazione ed interessi alla “data del fatto” (Cass. 23225/05), alla “data dell’illecito” (Cass. SU 1712/05) “all’epoca

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dell’’illecito” (Cass. 15823/05) ecc., ma evidenzia che le pronunce su menzionate fanno riferimento a casi nei quali vi era sovrapposizione cronologica fra comportamento doloso o colposo e danno ingiusto. Nel caso di specie ci si trova, invece, di fronte ad una progressione logica e temporale, secondo la stessa allegazione di CIR, per cui a causa di una sentenza corrotta, si verificò l’indebolimento della posizione contrattuale dell’appellata, che condusse ad una transazione deteriore ed al conseguente onere per spese legali differite nel tempo e prive, a quel punto, di una giustificazione.

L’OTTAVO MOTIVO DI APPELLO DI FININVEST: LA RIVALUTAZIONE MONETARIA E GLI INTERESSI COMPENSATIVI

L’ottavo motivo d’appello di Fininvest era volto a censurare la sentenza di primo grado nella parte in cui aveva riconosciuto sull’ammontare complessivo del danno la rivalutazione “addizionata di interessi compensativi medi”. Nello specifico, la sentenza impugnata era errata laddove aveva condannato Fininvest a corrispondere a favore di CIR i cd. "interessi compensativi", senza neppure accertare se un tale diritto esistesse in capo a CIR. L'errore in cui era incorso il Tribunale era evidente, per l’appellante, alla luce del pacifico insegnamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui, nell'ambito dei debiti di valore (quali il risarcimento del danno extracontrattuale), gli interessi compensativi non rappresentano un accessorio del credito, bensì una "mera modalità liquidatoria dell'eventuale danno da ritardo, solo possibile e non già certamente sussistente, rapportato alla corresponsione dell'equivalente monetario attuale della somma dovuta all'epoca dell'evento lesivo" (così Cass. 24 ottobre 2007, n. 22347, in linea con l'insegnamento di Cass., S.U., 17 febbraio 1995, n. 1712).

Sulla scorta dei più recenti orientamenti giurisprudenziali, anche la dottrina aveva rilevato che "il giudice chiamato alla liquidazione di una obbligazione di valore deve compiere due operazioni: a) la prima, necessaria, consiste nella rivalutazione

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dell'importo dovuto in base al coefficiente Istat vigente al momento in cui è sorta l'obbligazione; b) la seconda, che è soltanto eventuale, consiste nell'aggiungere all'importo rivalutato il danno da ritardato adempimento, il quale è tuttavia ipotizzabile soltanto a condizione che il rendimento del denaro sia stato – nel periodo della mora debendi – superiore al tasso di svalutazione”.

Da ciò discendeva che era onere del creditore dimostrare che "la somma rivalutata (o liquidata in moneta attuale) è inferiore a quella di cui avrebbe disposto, alla stessa data della sentenza, se il pagamento della somma originariamente dovuta fosse stato tempestivo" (così ex multis Cass., 23 agosto 2003, n. 12452, Cass. 18 marzo 2003, n. 3994).

Nel caso di specie, a detta di Fininvest, CIR non aveva in alcun modo offerto la prova di aver subito un danno dal ritardo nella corresponsione dell'equivalente monetario attuale della somma dovuta all'epoca dell'evento lesivo; conseguentemente il Tribunale avrebbe dovuto rigettare la domanda formulata in tema di interessi da CIR in quanto del tutto sfornita di prova.

Peraltro, quand'anche si fosse voluto ritenere sussistente il diritto di CIR ad ottenere la rivalutazione e il pagamento dei cd interessi compensativi, la sentenza impugnata era comunque viziata sotto distinti e autonomi profili.

Fininvest rilevava che nella sentenza impugnata il Tribunale non aveva indicato i criteri adottati per il calcolo della rivalutazione e della quantificazione degli interessi compensativi "medi''; tale vizio della sentenza era tanto più rilevante in considerazione della somma in gioco: ben euro 393 milioni erano stati riconosciuti per "interessi compensativi". Peraltro, sulla base di quanto era desumibile dalla sentenza impugnata, pareva che il Tribunale avesse quantificato gli interessi compensativi applicando, anno per anno, la differenza tra: (i) il maggiore tra il rendimento annuo dei BOT al lordo delle imposte e gli interessi legali e (ii) la rivalutazione secondo l'inflazione (tale criterio determinava infatti un importo complessivo pari a euro 392.531.676,00, in linea con l'importo indicato a tale titolo

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in sentenza di euro 393.693.680,61, come risultava dalla tabella che veniva prodotta come doc. n. 3 del fascicolo di appello).

Senonché, l'adozione di un tale criterio era certamente errata in quanto, nel caso di specie, il cumulo di rivalutazione e interessi compensativi determinava una ingiustificata duplicazione risarcitoria. Andava in proposito richiamato l'insegnamento giurisprudenziale secondo cui "poiché la rivalutazione compensa la perdita del potere di acquisto della moneta (e quindi esprime, in un certo senso, il corrispettivo del mancato impiego dell'equivalente monetario del danno nell'acquisto di beni di consumo), appariva equo detrarre la percentuale della stessa dal tasso di interesse applicato (e quindi considerare solo il rendimento 'reale ' dell'investimento su titoli di Stato), perché la percezione degli interessi presupponeva logicamente la conservazione e l'impiego di una somma di denaro 'liquida', (interessi) che erano incompatibili con la suddetta finalità della concessione della rivalutazione, non apparendo ragionevole ritenere che il creditore avrebbe, nello stesso tempo, speso la somma di denaro per comprare beni di consumo e risparmiato la stessa somma in vista dell'impiego in titoli di Stato, conseguendo quindi contemporaneamente tutti i vantaggi di entrambe le forme di investimento (App. Roma, 17 febbraio 2009, n. 726).

L’appellata CIR, in comparsa di costituzione, lamentava preliminarmente l’inammissibilità del motivo di appello relativo alla non debenza degli interessi compensativi, rammentando che Fininvest, nella sua comparsa di costituzione in primo grado, aveva semplicemente contestato la domanda di rivalutazione monetaria richiesta da CIR (“non vi è dimostrazione che parte attrice, se avesse avuto la disponibilità delle somme dovute, avrebbe evitato o ridotto l’effetto economico depauperativo che l’inflazione produce a carico dei possessori di danaro…” pagg. 99 -100), ma nessuna contestazione Fininvest aveva sollevato con riferimento alla domanda di CIR volta ad ottenere la liquidazione degli interessi.

A tale rilievo ha obiettato Fininvest (v. a pag. 136 della comparsa conclusionale d’appello), osservando che se, come sostenuto da CIR, gli interessi compensativi

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sono una componente del danno risarcibile e non già un accessorio del credito, la contestazione del danno contenuta nella comparsa di costituzione di Fininvest in primo grado, “include ed implica anche la contestazione circa la debenza degli interessi”.

Osserva la Corte che è condivisibile l’ulteriore replica sul punto di CIR, che ha fatto notare come l’omessa contestazione di Fininvest in primo grado, entro i termini di cui all’art. 183 c.p.c., circa la debenza degli interessi, si risolva in una mancata contestazione di una componente del danno di cui CIR ha chiesto il risarcimento, con la conseguenza che in questa sede non può più mettersi in discussione il fatto che gli interessi siano dovuti, ferma restando la possibilità per il giudice dell’appello di procedere autonomamente – ma sul quomodo vi è comunque l’ammissibile censura di Fininvest - alla determinazione della modalità di liquidazione e della misura degli interessi.

E’ tuttavia da dire che, pur a prescindere da ogni considerazione in ordine alla loro parziale ammissibilità, le censure di Fininvest in punto di interessi appaiono infondate nel merito.

Per dare conto di questa conclusione conviene ricordare gli insegnamenti della Corte di Cassazione che, con sentenza S.U. 1712/1995, ha puntualizzato che "la rivalutazione deve essere accordata anche d'ufficio ed in grado d'appello e di rinvio" ed ha evidenziato che relativamente alla componente degli interessi compensativi, "il mancato godimento di un bene, protrattosi per una pluralità di anni, è un credito risarcitorio per lucro cessante che matura anno per anno... Il risarcimento è necessariamente tradotto in una somma di denaro (che corrisponde al danno emergente), mentre il lucro cessante può aversi (a parte la prova di specifici mancati guadagni, da darsi caso per caso, e del tutto estranei a questa causa) solo per il ritardo nella corresponsione della somma…”. Il pagamento degli interessi compensativi corrisponde ad un “principio generale di equità che impone di compensare con l'attribuzione degli interessi il conseguimento, in ritardo rispetto al sorgere del credito, della disponibilità di una somma di denaro; somma che

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arricchisce il patrimonio del debitore che non paga subito, con correlativo lucro cessante di chi dovrebbe ottenerlo e non ne ha la disponibilità. L'art. 1219, comma 2, n. 1, che regola la mora ex re nelle obbligazioni da fatto illecito, rende avvertiti che il suddetto ritardo va ‘compensato’, così come viene risarcito il danno da ritardo nelle obbligazioni pecuniarie (ai sensi dell'art. 1224, che in questa materia non può applicarsi…)”.

Correttamente, allora, ha evidenziato CIR (comparsa di costituzione pag. 267) che la giurisprudenza ha riconosciuto agli interessi compensativi una natura terza rispetto a quella degli interessi moratori e degli interessi corrispettivi: valgano sul punto, oltre la già menzionata Cass. S.U. 1712/1995, anche Cass. n. 22347/2007 e Cass. n. 3268/2008. Infatti, mentre per gli interessi moratori derivanti da responsabilità contrattuale il carattere dell'accessorietà comporta che gli stessi possano essere riconosciuti solamente su espressa domanda di parte, per gli interessi compensativi la Suprema Corte ha chiarito che sono dovuti anche d’ufficio, perché sono ritenuti una componente del danno stesso (Cass. n. 1814/2000): "la rivalutazione monetaria e gli interessi costituiscono una componente dell'obbligazione di risarcimento del danno e possono essere riconosciuti dal giudice anche d'ufficio ed in grado di appello, pur se non specificamente richiesti, atteso che essi devono ritenersi compresi nell'originario "petitum" della domanda risarcitoria, ove non ne siano stati espressamente esclusi (Cass. n. 15928/2009, Cass. n. 13666/03, Cass. n. 18653/2004, Cass. 975/07)".

Orbene, Fininvest lamentava l’errore della sentenza impugnata laddove aveva condannato Fininvest a corrispondere a favore di CIR gli "interessi compensativi", senza neppure accertare se un tale diritto esistesse in capo a CIR.

Alla luce di quanto sopra detto, deve ritenersi che, se il giudice deve procedere alla liquidazione degli interessi compensativi anche d'ufficio, l’attore è addirittura esonerato dal fornire la prova “per tabulas” ed il giudice può fare riferimento anche ad elementi presuntivi: è ciò che ha ritenuto, nella sostanza, Cass. SU n.

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1712/1995, dove si legge che "la prova può essere data e riconosciuta dal giudice mediante criteri presuntivi ed equitativi".

I concetti di equità e presunzione sono ripresi da Cass. n. 1633/2000, che ha affermato che "in caso di ritardato adempimento di una obbligazione aquiliana, spetta al creditore il danno ulteriore (lucro cessante) provocato dal ritardato adempimento. Tale danno, la cui prova è desumibile anche da elementi presuntivi, può essere liquidato equitativamente attraverso l'attribuzione degli interessi, ad un tasso equitativamente scelto dal giudice… ".

Così stando le cose, ha ragione oggi CIR a considerare che (comparsa di costituzione pag 268) “dal fatto pacifico e notorio della maggiore redditività del denaro rispetto al tasso di inflazione nel periodo compreso fra il 1991 e il 2009 e dalla circostanza ovvia che CIR, in quanto società holding finanziaria, avrebbe professionalmente impiegato il denaro in modo perlomeno ordinariamente fruttifero, il giudice deve presumere l’”an” del lucro cessante per poi procedere alla liquidazione del “quantum” in via equitativa ai sensi dell'art. 1226 CC richiamato dall'art. 2056 CC”.

Le conclusioni dell’appellata sono coerenti con il costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità, che ha ripetutamente affermato che “dalla qualità di imprenditore del creditore è dato desumere in via presuntiva il danno da ritardo in quanto inevitabilmente sopportato da un soggetto aduso, secondo l’id quod plerumque accidit, ad operare nel mercato finanziario”. Ne consegue che non è necessario che sul punto siano forniti “elementi di prova specifici, posto che, ove risulti dimostrata ovvero non sia controversa la qualità di imprenditore commerciale del creditore, l'indicata qualità rileva come elemento presuntivo di per sé idoneo a far ritenere al giudice che il danno lamentato possa essersi verosimilmente prodotto e che, più in particolare,…la somma dovuta sarebbe stata reinvestita nell'attività produttiva”. (Cass. n. 9361/2005).

Val qui solo la pena di far notare la perfetta coerenza tra questa impostazione e l’orientamento affermato dalla già più volte richiamata sentenza nr. 1712/2005

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delle Sezioni Unite della Cassazione, mentre sulla esigenza di semplificazione (fondata sull’ovvia considerazione che la ritardata disponibilità di una somma di danaro implica normalmente un danno) sottesa alla regola secondo la quale gli interessi legali sono dovuti anche in mancanza della prova di un danno da ritardo, si è soffermata una recentissima dottrina, ad altri fini richiamata dalla stessa difesa di Fininvest.

L’appellante principale lamentava anche che nella sentenza impugnata il Tribunale non avesse indicato i criteri adottati per la quantificazione degli interessi compensativi "medi''. Peraltro, come si è detto, era la stessa appellante a riferire che, sulla base di quanto era desumibile dalla sentenza impugnata, pareva che il Tribunale avesse quantificato gli interessi compensativi applicando, anno per anno, la differenza tra: (i) il maggiore tra il rendimento annuo dei BOT al lordo delle imposte e gli interessi legali e (ii) la rivalutazione secondo l'inflazione.

Orbene, Fininvest analizzava l’operazione matematica svolta dal Tribunale ed evidenziava che gli interessi compensativi medi erano frutto della operazione sopra descritta, con ciò rendendo essa stessa evidente il calcolo svolto dal giudice di prime cure: trattavasi di una operazione logico – giuridico – matematica ineccepibile in quanto, coerentemente con quanto avveniva normalmente nella prassi di tutti i Tribunali, veniva calcolato un valore differenziale imputabile al ritardo scorporato da un elemento (l’inflazione) che già aveva un autonomo riconoscimento nella rivalutazione.

Senoché, a giudizio di Fininvest, l'adozione di un tale criterio era certamente errata in quanto, nel caso di specie, il cumulo di rivalutazione e interessi compensativi determinava una ingiustificata duplicazione risarcitoria.

Osserva questa Corte che già la sentenza nr. 1712/95, per ovviare al problema indicato, ha stabilito che "se il giudice adotta, come criterio di risarcimento del danno da ritardato adempimento, quello degli interessi, fissandone il tasso, mentre è escluso che gli interessi possano essere calcolati dalla data dell'illecito sulla somma liquidata per il capitale, rivalutata definitivamente, è consentito invece

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calcolare gli interessi con riferimento ai singoli momenti (da determinarsi in concreto, secondo le circostanze del caso) con riguardo ai quali la somma equivalente al bene perduto si incrementa nominalmente, in base agli indici prescelti di rivalutazione monetaria, ovvero ad un indice medio".

Consta che il Tribunale si sia attenuto a tale criterio. Infatti, come evidenziato da CIR (comparsa di costituzione pag 270), “ove il Tribunale avesse commesso l'errore di disapplicare il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite e avesse invece utilizzato come base di calcolo l'intera somma rivalutata al momento della liquidazione (in luogo delle somme rivalutate nei singoli periodi temporali), avrebbe riconosciuto al creditore una somma di denaro ben superiore. Che questo non sia avvenuto è dimostrato da un calcolo elementare. L'interesse legale medio fra il 1991 e il 2009 è pari al 5,29%. Il danno patrimoniale rivalutato riconosciuto dal Tribunale è di euro 543.750.834,31. Se il giudice avesse applicato tale interesse medio alla somma rivalutata totale per l'intero periodo contemplato nella presente causa, gli interessi compensativi sarebbero ammontati a € 26.873.060,06 per il 1991, € 28.764.419,13 per ciascun anno fra il 1992 e il 2008 e € 21.750.629,26 per il 2009, il tutto per un totale di € 537.618.814,53. Come si può ben vedere quest'ultima cifra, che per l'appunto sarebbe ingiustificata secondo l'orientamento fissato dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 1712/1995, è nettamente superiore a quella effettivamente liquidata dal giudice di primo grado di € 393.693.680,61”.

Questa Corte non può che confermare tale riscontro matematico: il Tribunale, dunque, ha dato corretta applicazione del metodo indicato dalla Corte di Cassazione nella sentenza nr. 1712/95, calcolando gli interessi sulla somma liquidata in sorte capitale rivalutata anno per anno.

In difetto di indicazioni di sorta da parte del primo giudice in ordine al tasso degli interessi compensativi medi ritenuti applicabili al caso di specie, le parti si sono, tuttavia, trovate nell’obiettiva difficoltà di ricostruire con precisione aritmetica la concreta modalità di calcolo dell’interesse compensativo medio seguita dal Tribunale.

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Pare allora alla Corte che anziché avventurarsi in ipotesi ricostruttive dell’iter seguito dal primo giudice sul punto – ipotesi tanto suggestive matematicamente quanto giuridicamente incerte - sia consigliabile ricalcolare con un metodo certo e verificabile, utilizzando il tasso legale, gli interessi compensativi da applicare sulla somma rivalutata anno per anno, facendo riferimento alla stessa base di calcolo (somma capitale di € 312.917.463,26 rivalutata anno per anno in base all’indice Istat e termini di inizio -24 gennaio 1991 – e di fine – 3 ottobre 2009 – del periodo per il quale si debbono determinare gli interessi) considerata dal Tribunale.

Una volta stabilita la misura degli interessi calcolati al tasso legale sulla somma capitale di € 312.917.463,26, rivalutata anno per anno, si potrà, in primo luogo, verificare se l’importo così ottenuto (calcolabile con uno dei numerosi programmi allo scopo reperibili in Internet) coincida con la somma di € 393.693.680,61, che il Tribunale ha liquidato a titolo di “interessi compensativi medi”.

In caso negativo, si procederà oltre, determinando la differenza, in positivo o in negativo, fra l’importo ottenuto mediante il ricorso al tasso di interesse legale e la somma appena detta, liquidata dal Tribunale. Una volta stabilita tale differenza in valore assoluto, si determinerà a quale percentuale dell’importo degli interessi calcolati al tasso legale essa corrisponda, in modo da stabilire la misura dello scostamento percentuale fra il calcolo degli interessi compensativi medi operato dal Tribunale ad un tasso non esplicitato ed il calcolo degli interessi compensativi al tasso legale, sempre noto.

Una volta calcolata questa percentuale, si disporrà di una modalità empirica, ma certa ed aritmeticamente verificabile, per applicare ad una qualsiasi altra somma capitale e ad un intervallo temporale diverso (decorrente, secondo le soluzioni cui è pervenuta la Corte, dalla data della transazione successiva alla sentenza Metta ovvero, per quanto riguarda i danni da inutile sopportazione di spese legali, dalle date delle varie fatture dei singoli professionisti) lo stesso metodo di calcolo dell’interesse adottato dal Tribunale: sarà sufficiente, a tal fine, calcolare l’importo degli interessi al tasso legale sulle somme rivalutate anno per anno secondo le

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indicazioni della sentenza nr. 1712/1995 e poi incrementarlo o diminuirlo nella stessa percentuale in cui l’interesse legale sul capitale di € 312.917.463,26, rivalutato anno per anno dal 24 gennaio 1991 al 3 ottobre 2009, risulterà maggiore o minore di € 393.693.680,61.

Posta questa premessa si osserva che:

• il calcolo dell’interesse compensativo al tasso legale sulla somma capitale di € 312.917.463,26, rivalutata anno per anno dal 24 gennaio 1991 al 3 ottobre 2009 avrebbe portato a liquidare, a titolo di interesse, la somma complessiva di € 402.687.366,60;

• tale somma è maggiore per € 8.993.685,99 rispetto alla liquidazione di “interessi compensativi medi” operata dal Tribunale;

• € 8.993.685,99 costituiscono, con approssimazione al secondo decimale, il 2,23% dell’importo complessivo degli interessi calcolati al tasso legale:

• sarà, pertanto, sufficiente – e necessario, posto che sul tema non è stato proposto appello incidentale ed è quindi inibita ogni reformatio in pejus - diminuire del 2,23% la somma corrispondente agli interessi calcolati al tasso legale su qualsiasi capitale, rivalutato anno per anno per qualsiasi intervallo di riferimento, per applicare alle varie componenti del risarcimento del danno, come rideterminate dalla Corte, lo stesso criterio di calcolo dell’interesse compensativo (quanto al risultato finale dell’operazione aritmetica) seguito dal Tribunale.

Su queste premesse si può procedere al calcolo della rivalutazione monetaria anno per anno (o per frazione di anno) e degli interessi compensativi (allo stesso tasso utilizzato in concreto dal Tribunale) sugli importi liquidati dalla Corte a titolo di risarcimento e per i periodi rilevanti, che variano in relazione alla componente di danno costituita dalle spese legali inutilmente sopportate, per le quali, si sono assunti come termini iniziali dei periodi temporali di riferimento ai fini del calcolo

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di rivalutazione ed interessi le date delle fatture dei diversi professionisti, pagate da CIR. Gli importi delle fatture degli avvocati inutilmente retribuiti da CIR verranno qui di seguito elencati con indicazione del nome del professionista e della data e con la somma capitale già convertita in euro, per brevità.

Il riepilogo della nuova liquidazione del danno risarcibile alla data del 3 ottobre 2009 (a partire dalla quale maturano gli interessi al tasso legale su quanto qui riliquidato) può essere schematizzato come segue:

1) € 184.322.877,94, rivalutazione ed interessi dal 29 aprile 1991 al 3 ottobre 2009, € 532.176.172,37, - € 5.101.809,95, corrispondente al 2,23% della componente interessi (pari ad € 228.780,715,28)= € 527.074.362,42;

2) Fattura 5 marzo 1991 Avv. Libonati, € 312.456,42, rivalutazione ed interessi dal 5 marzo 1991 al 3 ottobre 2009, € 911.430,64, - € 8.807,16, corrispondente al 2,23% della componente interessi (pari ad € 394.940,18)= € 902.623,48;

3) Fattura 2 aprile 1991 Avv. Ripa di Meana, € 156.228,21, rivalutazione ed interessi dal 2 aprile 1991 al 3 ottobre 2009, € 452.668,05 - € 4360,01, corrispondente al 2,23% della componente interessi (pari ad € 195.516,42)= € 448.308,04;

4) Fattura 30 aprile 1991 Avv. Trimarchi, € 312.456,42, rivalutazione ed interessi dal 30 aprile 1991 al 3 ottobre 2009, € 902.003,74 - € 8.645,72 corrispondente al 2,23% della componente interessi (pari ad € 387.700,74)= € 893.358,02;

5) Fattura 4 giugno 1991 Avv. Fazzalari, € 105.357,20, rivalutazione ed interessi dal 4 giugno 1991 al 3 ottobre 2009, € 300.742,48 - € 2.874,57 corrispondente al 2,23% della componente interessi (pari ad € 128.904,57)= € 297.867,91;

6) Fattura 31 luglio 1991 Avv. Panzarini, € 263.393,01 rivalutazione ed interessi dal 31 luglio 1991 al 3 ottobre 2009, € 745.326,25 - € 7.058,45 corrispondente al 2,23% della componente interessi (pari ad € 316.522,43)= € 738.267,80;

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7) Fattura 23 agosto 1991 Avv. Trimarchi, € 187.473,85 rivalutazione ed interessi dal 23 agosto 1991 al 3 ottobre 2009, € 527.829,44 - € 4.981,19 corrispondente al 2,23% della componente interessi (pari ad € 223.371.91)= € 522.848,25;

8) Fattura 20 agosto 1991 Avv. Fazzalari, € 158.035,81, rivalutazione ed interessi dal 20 agosto 1991 al 3 ottobre 2009, € 445.125,61 - € 4.203,00 corrispondente al 2,23% della componente interessi (pari ad € 188.475,45)= € 440.922,61;

9) Fattura 10 ottobre 1991 Avv. Panzarini, € 158.035,81 rivalutazione ed interessi dal 10 ottobre 1991 al 3 ottobre 2009, € 437.496,72, - € 4.103,36, corrispondente al 2,23% della componente interessi (pari ad € 184.007,28)= € 433.393,36;

10) Fattura 26 giugno 1992 Avv. Guerra, € 125.060,03, rivalutazione ed interessi dal 26 giugno 1992 al 3 ottobre 2009, € 324.867,18, - € 2.933,00, corrispondente al 2,23% della componente interessi (pari ad € 131.524,67)= € 321.934,18;

11) Fattura 2 luglio 1992 Avv. Trimarchi, € 124.982,56, rivalutazione ed interessi dal 2 luglio 1992 al 3 ottobre 2009, € 323.960,34, - € 2.923,80, corrispondente al 2,23% della componente interessi (pari ad € 131.112,25)= € 321.036,54;

12) Fattura 20 gennaio 1993 Avv. Oppo, € 187.473,85, rivalutazione ed interessi dal 20 gennaio 1993 al 3 ottobre 2009, € 464.733,69 - € 4.046,57 corrispondente al 2,23% della componente interessi (pari ad € 181.460,70)= € 460.687,12;

13) Fattura 22 gennaio 1993 Avv. Di Maio, € 187.473,85, rivalutazione ed interessi dal 22 gennaio 1993 al 3 ottobre 2009, € 464.602,90, - € 4.043,65 corrispondente al 2,23% della componente interessi (pari ad € 181.329,91)= € 460.559,25

14) Spese legali procedimento arbitrale, come liquidate dalla sentenza della Corte d’Appello di Roma, € 776.648,00, rivalutazione ed interessi dal 24 gennaio

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1991 al 3 ottobre 2009, € 2.298.785,22, - € 22.287,80 corrispondente al 2,23% della componente interessi (pari ad € 999.453,12)= 2.276.497,42;

15) Spese legali procedimento di impugnazione del lodo, come liquidate dalla sentenza della Corte d’Appello di Roma, € 1.551.726,00, rivalutazione ed interessi dal 24 gennaio 1991 al 3 ottobre 2009, € 4.592.923,47, - € 44.530,55 corrispondente al 2,23% della componente interessi (pari ad € 1.996.885,87)= 4.548.392,92.

Il risarcimento complessivo dovuto da Fininvest a CIR ammonta, pertanto, alla data del 3 ottobre 2009, ad € 540.141.059,32.

IL NONO MOTIVO DI APPELLO DI FININVEST: LA CONDANNA GENERICA AL RISARCIMENTO DEL DANNO NON PATRIMONIALE

Infine, Fininvest lamentava, come nono motivo, il fatto che il primo giudice avesse ingiustamente accolto la domanda di condanna generica per danno non patrimoniale.

Osservava, con specifico riferimento alla voce di danno qui considerata, che la stessa costituiva, in primo luogo, una palese duplicazione rispetto alla liquidazione del "danno all'immagine", già riconosciuta sul piano del danno patrimoniale a CIR.

Aggiungeva Fininvest che l'impugnata sentenza si poneva in dichiarato contrasto col principio di infrazionabilità dei danni risarcibili derivati da un unico fatto illecito.

Questi rilievi di carattere preliminare erano poi corroborati, nel merito, dall'esame dei fattori che avevano giustificato il riconoscimento del risarcimento nel caso di specie, incentrati sulla pretesa lesione di un diritto di CIR ad un giudizio reso da un giudice imparziale e su quella alla propria integrità, onorabilità e reputazione.

Innanzitutto non era concepibile per Fininvest un danno collegato alla presunta lesione del diritto a un giudice imparziale, perché - ribadiva l’appellante - nel caso

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di specie il giudice era collegiale: il preteso atteggiamento soggettivo del giudice Metta era in realtà una questione di “foro interno” del giudice, la cui volontà era stata non recepita, ma sostituita da quella collegiale. Il fatto che la maggioranza dei componenti del collegio della Corte d'Appello avesse dichiarato di condividere la conclusione circa la nullità del lodo Pratis dimostrava l'inesistenza della pretesa lesione del diritto ad un giudizio reso da un giudice imparziale: questo giustificava l’assunto per cui non vi era stata nessuna lesione del diritto costituzionalmente garantito ad un giusto processo.

In secondo luogo, parimenti inesistente era il danno all'integrità, all'onorabilità e reputazione della persona giuridica CIR. La sentenza affermava, infatti, che CIR avrebbe subito un ‘colpo’ alla reputazione ed all'immagine quale compagine societaria che cercava di creare la Grande Mondadori, come dimostrato dal fatto che alcuni articoli di stampa avevano dato notizia della sconfitta di CIR innanzi alla Corte d'Appello di Roma. Fininvest non comprendeva come un danno non patrimoniale avrebbe potuto mai subire CIR dalla notizia di aver perso una causa, peraltro nell'ambito di un contenzioso caratterizzato da esiti altalenanti (ora favorevoli a CIR, ora ai Formenton); andava poi considerato che esponenti e difensori di CIR si erano diffusi in dichiarazioni, “tanto numerose quanto perentorie”, circa la certezza dell'accoglimento del ricorso da parte della Corte di Cassazione e la correlativa volontà di non prestare acquiescenza alla sentenza sfavorevole (docc Fininvest 30, 34, 35, 36 e 37): il messaggio giunto al pubblico era semmai un convincimento artefatto di erroneità della sentenza della Corte d’Appello di Roma e di una sua sicura e prossima cassazione in sede di legittimità. Restava comunque il fatto che gli effetti della transazione erano stati descritti da CIR come un trionfo. Nessun discredito era dunque derivato a CIR dalla sentenza della Corte d’Appello di Roma.

Rammenta questa Corte che il Tribunale aveva già rigettato l’eccezione relativa alla non frazionabilità dei danni risarcibili derivati da un unico fatto illecito (sent. impugnata pag 139); infatti venivano citati ampi brani della sentenza della

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Cassazione 26.2.2003 n. 2869, dove si puntualizzava che: “perché tale principio non trovi applicazione è necessario che sia esclusa ‘a priori’ la potenzialità della domanda a coprire tutte le possibili voci di danno, la qual cosa può accadere solo quando tale esclusione sia adeguatamente e nei modi opportuni manifestata dall'attore, o ‘ab initio’ o nel corso del processo. Infatti, il principio dell'infrazionabilità della richiesta di risarcimento va coordinato con il principio dispositivo della domanda (art. 99 e 112 CPC)...". Nella fattispecie, la società attrice aveva fin dall'atto di citazione richiesto la condanna della convenuta al risarcimento del danno non patrimoniale in forma generica e detta circostanza rendeva la domanda ammissibile, proprio sulla base dei principi esposti nella citata pronuncia del Supremo Collegio (e confermati più recentemente dalla sentenza n. 17873 del 22.8.2007).

Entrando nel merito della risarcibilità del danno non patrimoniale, il Tribunale rammentava che le sentenze nn. 8827 ed 8828 del 2003 della Corte di Cassazione, così come più di recente la sentenza n. 26972 dell'11.11.2008 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, avevano sancito il superamento del principio, fondato sulla lettura tradizionale degli artt. 2059 cc e 185 CP, secondo il quale il danno non patrimoniale sarebbe stato risarcibile solo nei casi di fatto illecito costituente reato. Le predette sentenze, infatti, affemavano che il danno non patrimoniale era risarcibile tutte le volte che venissero lesi valori della persona, che trovavano riconoscimento e tutela nella carta costituzionale.

La giurisprudenza ormai consolidata della Corte di Cassazione aveva inoltre sancito il superamento del principio secondo cui solo la persona fisica poteva essere titolare del risarcimento del danno non patrimoniale: infatti, secondo la giurisprudenza indicata dal Tribunale, non era solo la persona fisica ma anche quella giuridica che poteva subire tale tipo di danno (magari, secondo le fattispecie analizzate dal Supremo Collegio, avvertendo una sorta di sofferenza, che ne costituiva il contenuto). Invero, una volta superata la sovrapposizione necessaria del danno non patrimoniale a quello morale e riconosciuto che anche la persona giuridica era titolare di diritti personali costituzionalmente garantiti, la cui lesione costituiva danno risarcibile (sent. Cass. n. 12929 del

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4.6.2007), nessun ostacolo sussisteva, a detta del Tribunale, alla affermazione che nella specie erano stati lesi i diritti costituzionalmente garantiti alla persona giuridica CIR spa sotto i due profili già accennati.

In primo luogo era stato leso il diritto dell'attrice ad un giudizio reso da un giudice imparziale, diritto riconosciuto dalla Costituzione all'art. 24 (tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi) ed all'art. 111 (la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge).

In secondo luogo, CIR era stata lesa nel suo diritto alla immagine ed alla reputazione, che erano state sicuramente danneggiate dall’ingiusta sentenza della Corte di Appello di Roma. Infatti, della sconfitta era stata data ampia notizia dai giornali con un “colpo alla reputazione ed all’immagine di CIR spa”.

Ciò riproposto in ordine a quanto ritenuto dal Tribunale, questa Corte non può esimersi dall’esaminare in modo analitico i motivi dell’appello di Fininvest.

Quanto al primo, relativo alla presunta disapplicazione del principio della infrazionabilità dei danni risarcibili derivati da un unico fatto illecito, questa Corte non può che rilevare che il principio devolutivo deve quanto meno essere commisurato alla norma di cui all’articolo 342 CPC, che prevede che l’appello deve contenere i motivi specifici dell’impugnazione: in questa prospettiva, i motivi specifici dell’atto di appello, pena la sua inammissibilità, sono rivolti ad individuare non solo le singole questioni che delimitano l’oggetto del riesame, ma anche le concrete ragioni della censura, cioè gli asseriti errori di giudizio o di procedura commessi dal giudice di primo grado (Cass. 05/2041, Cass. 04/8926, Cass. 04/7773); in sostanza il motivo di appello non può consistere nella mera riproposizione “tout court” di un argomento già risolto dal primo giudice.

Ciò premesso, si ribadisce che, coniugato il principio della infrazionabilità con quello dispositivo della domanda, appare insuperabile il fatto che la condanna generica di Fininvest per il danno non patrimoniale fu chiesta da CIR sin dall’atto introduttivo, con riserva di quantificazione dei danni in separata sede.

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Fininvest, poi, si doleva di una presunta duplicazione risarcitoria in quanto già era stato riconosciuto il danno all’immagine: basti in proposito ricordare che la voce di danno patrimoniale per lesione all’immagine imprenditoriale, della quale Fininvest teme la duplicazione, non è stata riconosciuta da questa Corte.

Il danno non patrimoniale riconosciuto dal Tribunale in base alla giurisprudenza indicata ha invece come fonte prima e principale la lesione del diritto costituzionalmente garantito ad un giudizio reso da un giudice imparziale, e ciò in violazione dei principi costituzionali di cui agli articoli 24 e 111. Questa considerazione del giudice di prime cure appare corretta; va sottolineato peraltro che in questo caso il danno non patrimoniale accede ad un delitto di corruzione connesso allo svolgimento di un processo, cioè ad un delitto che integra in modo emblematico, dal punto di vista della persona offesa, la lesione di quegli interessi costituzionali al giusto processo ai quali si è riferito il giudice di prime cure.

E’ necessario, a questo proposito, evidenziare che l’’an’ della pretesa attorea trova riscontro (anche se evidentemente la pronuncia non è opponibile a Fininvest che non era parte nel processo, salva la sua responsabilità come ricostruita nel presente processo) nel fatto che la sentenza penale di primo grado (n. 4688 del 2003 Tribunale di Milano, doc. CIR D 13 pagg. 532 segg.), con la quale gli imputati Battistella, Rovelli, Previti, Pacifico, Squllante e Metta, in solido fra loro, venivano condannati a risarcire alla parte civile costituita CIR il danno che veniva liquidato in euro 380.000.000,00 (trecentoottanta milioni), veniva riformata dalla Corte d’Appello di Milano che, con sentenza 737/2007, a seguito di rinvio dalla Cassazione, ha statuito che Acampora, Metta, Pacifico e Previti, dovevano essere condannati in solido tra loro, al risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrimoniali, in favore di CIR, da liquidarsi in separato giudizio civile.

Consta la reiezione del nuovo ricorso in Cassazione avverso tale sentenza, che quindi è passata in giudicato.

CIR, dunque, deve essere considerata parte lesa a seguito di un fatto costituente il delitto plurioffensivo (in danno della PA e, tra gli altri, di CIR) di corruzione e ciò giustifica la ritenuta responsabilità a carico di Fininvest, dal momento che essa risponde ex art 2049

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CC della condotta di Cesare Previti ed a titolo di responsabilità diretta della condotta di Silvio Berlusconi. Tutti questi argomenti assorbono in radice ma non escludono l’ulteriore prospettazione circa la lesione degli interessi costituzionali lesi, geneticamente rapportabili alle norme di cui agli articolo 24 e 111 Cost.

Quanto invece alla prospettata lesione all’onore ed alla reputazione della persona giuridica CIR, dato atto che il tipo di danno invocato è in sé risarcibile astrattamente anche in favore della persona giuridica (sent. Cass. n. 12929 del 4.6.2007), rimane la considerazione per cui non si comprende nel caso di specie come esso si ponga in relazione alla sentenza corrotta, che è una pronuncia non infamante nei suoi argomenti e nelle sue statuizioni, trattando di questioni societarie squisitamente “tecniche”.

IL QUARTO MOTIVO DI APPELLO INCIDENTALE DI CIR: L’ENTITA’ DELLE SPESE DI PRIMO GRADO LIQUIDATE DAL TRIBUNALE

Con l’ultima doglianza CIR censurava la ridotta quantificazione delle spese di giudizio alla rifusione delle quali Fininvest era stata condannata.

Lamentava che a fronte del risarcimento liquidato in euro 749.955.611,93, il Tribunale, senza motivazione, aveva liquidato euro 981,80 per anticipazioni, euro 6.394,86 per spese, euro 16.148,00 per diritti ed euro 2.000.000,00 per onorari. Della detta quantificazione CIR si doleva solo quanto alla determinazione degli onorari, dal momento che, applicando il minimo tabellare ai sensi dell’articolo 6.1 Capitolo I del DM 127/04, essi ammontavano almeno ad euro 3.767.250,00.

Considera questa Corte che effettivamente le spese di lite, e tra esse gli onorari, non sono state liquidate dal Tribunale applicando correttamente il D.M. 8 aprile 2004 n. 127 in riferimento al valore della controversia, determinato sulla base della somma riconosciuta a CIR all’esito di quel primo giudizio, metodo riconosciuto corretto ancora recentemente da Cass. S.U. 11.9.2007 n. 19014. Infatti, lo scaglione di riferimento deve essere individuato in quello riferito alla somma sopra

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indicata, comprensiva di rivalutazione ed interessi, e non già, come sostenuto da Fininvest (vedi comparsa conclusionale pag 157) nella sola somma capitale: conferma ne è il fatto, a tutto voler concedere, che il contenzioso, in una parte non irrilevante, ha investito proprio la questione del riconoscimento e dell’entità degli accessori.

Osserva anche la Corte che la nota spese di CIR in primo grado espone, per le singole voci da liquidare, importi che appaiono significativamente inferiori agli onorari che potrebbero essere riconosciuti applicando alla somma per cui vi è condanna in appello i coefficienti massimi stabiliti dalla tariffa forense. Ne consegue che la misura degli onorari per la difesa in primo grado indicata da CIR, pari ad € 4.372.468,82, è corretta ed in questa sede deve solamente essere decurtata nella misura di ¼, per effetto della parziale compensazione delle spese di lite dei due gradi del giudizio, di cui si dirà nel prosieguo. Conclusivamente, la somma dovuta da Fininvest a CIR a titolo di onorari per la difesa in primo grado è di € 3.279.351,62. Per effetto della parziale compensazione nella sopra detta misura, anche l’importo delle spese ed anticipazioni e dei diritti spettanti a CIR, come liquidato in primo grado a carico di Fininvest, deve essere ridotto nella misura di ¼. Fininvest dovrà, pertanto, versare a titolo di spese, anticipazioni e diritti per il procedimento di primo grado la somma complessiva di € 17.643,50, di cui € 12.111,00 per diritti.

LA LITE TEMERARIA E LE SPESE DI LITE

Attesa la conclusione della causa, va rigettata la domanda di Fininvest ex art 96 CPC, in quanto non ne sussistono i presupposti in fatto e in diritto.

Quanto, infine, alle spese di lite, occorre considerare, con valutazione complessiva ed omogenea dell’intero processo, l’esito finale della controversia rispetto alle iniziali (ma poi anche stabili) rispettive pretese delle parti: in quest’ottica si può

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constatare che la domanda dell’attrice è stata accolta, ma ridimensionata, in percentuale importante, nella sua entità.

E’ appena il caso di ricordare che - ferma restando la specifica impugnazione incidentale di CIR in punto di adeguatezza della liquidazione degli onorari nella sentenza del Tribunale - una riliquidazione “omogenea” in questa sede delle spese di lite del primo grado è, comunque, doverosa, alla luce della consolidata giurisprudenza di legittimità, per la quale: “il giudice d’appello che riformi anche parzialmente la sentenza impugnata, deve pronunciarsi sulle spese di entrambi i gradi del giudizio, potendo modificare anche in assenza di uno specifico mezzo di gravame la relativa pronuncia del primo grado” (ex plurimis, Cass. 04/14626, Cass.04/4520, Cass. 00/6155, Cass. 99/13724).

Tutto ciò considerato, è dunque equo porre a carico di Fininvest le spese di lite dei due gradi di giudizio, con una compensazione parziale nella misura di ¼, per effetto della quale l’appellante principale dovrà rifondere all’appellata ed appellante incidentale i residui ¾ delle spese di lite.

Tanto premesso, si osserva che la misura degli onorari di difesa come richiesti da CIR per il grado d’appello, si pone, per talune voci (quella di gran lunga più significativa riguarda la redazione della comparsa conclusionale) al di sopra del massimo liquidabile con l’applicazione dei coefficienti stabiliti dalla tariffa professionale rispetto all’importo ritenuto in sentenza. Evidentemente tali voci della nota spese debbono essere ridotte alla misura consentita dai coefficienti tariffari e dalla base di calcolo qui ritenuta.

Per le altre componenti della nota spese può essere mantenuto l’importo proposto dai difensori di CIR.

Si giunge così, a fronte di un onorario richiesto per € 7.675.000,00, a determinare in € 5.983.858,71 l’onorario concretamente liquidabile nella misura massima, tenuto conto dell’entità del risarcimento ritenuto in sentenza e delle singole voci della nota spese, come esposte da CIR.

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Tale somma può essere forfettariamente ridotta ad € 5.250.000,00 e deve essere ulteriormente ridotta di ¼ per effetto della parziale compensazione delle spese di lite, fino all’importo di € 3.937.500,00.

Nella stessa percentuale deve essere ridotto l’importo dei diritti, fino alla somma di € 3.258,75.

La rilevanza della CTU nella determinazione dell’ammontare del risarcimento, a parziale riconoscimento delle ragioni di Fininvest e, per altro verso, l’utilità dell’indagine tecnica disposta dall’Ufficio per attribuire - con l’autorevolezza del maestro riconosciuto della scienza della valutazione aziendale e di due fra i più eminenti studiosi della materia – un fondamento concreto all’entità delle pretese risarcitorie di CIR, suggerisce la definitiva, paritaria ripartizione dei costi della CTU, come a suo tempo già liquidati.

PQM

la corte, definitivamente pronunciando nella causa promossa in grado d’appello da Fininvest – Finanziaria di Investimento s.p.a. nei confronti di CIR – Compagnie Industriali Riunite s.p.a., respinta o assorbita ogni diversa istanza, eccezione e deduzione, così provvede:

- accoglie per quanto di ragione sia l’appello principale che quello incidentale e, per l’effetto, in parziale riforma della sentenza n. 11786/2009 resa tra le parti dal Tribunale di Milano in data 3.10.2009, determina in euro 540.141.059,32 (invece che euro 749.955.611,93) l’importo dovuto dalla convenuta alla data del 3.10.2009, quale risarcimento di danno immediato e diretto, e pertanto condanna Fininvest s.p.a. a pagare in favore di CIR s.p.a. tale somma, oltre agli interessi legali da detta data al saldo;

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- dichiara compensate per un quarto tra le parti le spese processuali di entrambi i gradi del giudizio;

- condanna l’appellante Fininvest s.p.a. a rifondere in favore dell’appellata CIR s.p.a. i residui tre quarti delle spese processuali dei due gradi, come in motivazione partitamente liquidate, già in detta frazione, per il primo grado in complessivi euro 3.296.995,12 e per il presente grado in complessivi euro 3.940.758,75, oltre, per entrambi i gradi, al rimborso forfettario per le spese generali del 12,5% su diritti ed onorari, IVA e CPA come per legge;

- pone definitivamente a carico di ciascuna parte per la metà i già liquidati costi della consulenza tecnica d’ufficio;

- conferma nel resto la sentenza impugnata.

Così deciso in Milano, nella camera di consiglio della seconda sezione civile, il 4 marzo 2011.

Luigi de Ruggiero

Presidente coest.

Walter Saresella Giovanni Battista Rollero

Consigliere coest. Consigliere coest.

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